Il tabù della verità

Continuiamo a riflettere su quella foto: dopo l’articolo di Valerio Nicolosi, oggi ospitiamo l’intervento di Enrico Natoli

Dunque abbiamo deciso che la fotografia di un bimbo morto, più di decine di analoghe apparse negli ultimi decenni, ci scuote di più le coscienze, informa più delle altre, segna un prima e un dopo, chi non la vuole guardare è complice di un genocidio.
Mi spiace ma io questo genocidio non me lo imputo. Pur amando la fotografia e la sua forza semplice e talvolta prorompente quell’immagine non aggiunge molto alla mia conoscenza rispetto a quello che accade in questi anni e che, semplificando molto, passa per “emergenza immigrazione”. Per i soggetti delle immagini di cui ci cibiamo è “emergenza guerra”, ossia “emergenza non posso sapere con certezza che domani sarò vivo”, “emergenza non posso andare a scuola”, “emergenza con cosa sfamerò i miei figli domani”, “emergenza devo partire per un paese in cui non conosco nessuno perché le condizioni del mio non mi permettono di progettare nulla di buono per me e la mia famiglia”, “emergenza da domani verrò costretto alla leva obbligatoria da qui alla fine dei miei giorni”. Figurati cosa gliene frega a loro della nostra “emergenza immigrazione”: scappano in tutti i modi possibili e fanno benissimo, come farebbe ciascuno di noi un minimo sano di mente.

Il vero tabù dei nostri tempi nella nostra parte di mondo per come la percepisco io non è quello di mostrare un’immagine o meno, di guardarla o meno. Le immagini passano tutte. Almeno quelle che ritraggono i morti degli altri, perché la morte mette una distanza incolmabile, impedisce una qualsiasi immedesimazione se non quella temporanea e fugace delle viscere. Loro muoiono, noi no, noi siamo diversi da loro.

Il vero tabù è il rifiuto di capire le cause, col vizio di iniziare il ragionamento quando il processo che porta un bambino a morire su una spiaggia è già iniziato da tempo. Coglierne solo la tremenda parte finale. Sarebbe come iniziare una cura dal terzo ciclo di chemioterapia senza sapere che tipo di tumore sto combattendo.
Il vero tabù è quello di capire che di questo genocidio siamo complici se sappiamo che i nostri governi vendono armi ai governi che poi spingono le masse verso il mare e verso di noi. Che non siamo vittime o spettatori di questo processo: siamo tra i motori principali ed abbiamo i mezzi per saperlo. Questa “emergenza” lì garantisce la nostra tranquillità, più o meno grande, qui. È questo che ci rende complici, non il guardare una foto o meno.

Quanto alle immagini devo ringraziare fotografi come Mario Boccia che, pur avendo avuto sotto gli occhi chissà quanti cadaveri, ha preferito sempre raccontare le cose in un altro modo. Attraverso il ritratto di una bimba che in vita sua aveva conosciuto solo la guerra, ad esempio. Non credo che scorderò mai quel ritratto: la tristezza che lo invadeva, il racconto di una vita senza sorriso. Quella foto senza morti diceva che la guerra è un mio nemico.

Ora accoglierò senza troppi problemi le accuse di buonismo e di retorica negli eventuali commenti. Dopotutto sono solo parole, le mie e quelle dei commenti. I bambini moriranno a prescindere da queste parole e che siano sotto un obiettivo fotografico o meno.

ps: se devo imputarmi un genocidio mi imputo quello delle persone costrette a lavorare nelle miniere per ricavare i minerali contenuti nei dispositivi tecnologici che utilizzo quotidianamente e di cui difficilmente riuscirò a fare a meno da qui alla mia morte. Quello sì. E ogni giorno nella mia mente mi dico di usare questi mezzi per farne qualcosa di utile, per cercare di modificare il corso degli eventi.

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

.