Tensioni afghane

Diario dall’Afghanistan: un racconto da una terra
in ricostruzione, lacerata da trent’anni di guerra

di Laura Cesaretti

L’estate sta per finire anche qui a Kabul, uno di quei posti al mondo che sorride quando finalmente arriva la pioggia. L’acqua porta via con se’ la terra che ingiallisce le strade e rinfresca l’aria pesante intrappolata dalle montagne circostanti, portando via con se, si spera, anche le paure. “Dicono che l’offensiva estiva finirà con settembre”, discutono loro due ragazze nel quartier generale della Resolute Support, la missione della coalizione delle forze internazionali. Questo è l’unico posto dove loro e alcuni altri stranieri possono andare aldilà del compound dove vivono e lavorano.

L’allerta comunque, è alta un po’ per tutti qui a Kabul. Solo nell’ultimo mese, cinque attacchi hanno causato più di 300 vittime tra morti e feriti, per la maggior parte civili.

I talebani hanno rivendicato solo tre di questi: due avvenuti il 7 agosto, quello alla scuola di polizia e Camp Integrity, una base usata dalle forze speciali americane, e l’attacco all’entrata dell’aeroporto internazionale causato da una macchina suicida solo tre giorni dopo. Gli altri due, quelli più brutali avvenuti in un distretto popolare a sud-est di Kabul sempre il 7 agosto, e quello davanti ad un ospedale privato al centro di una settimana fa, sono rimasti senza rivendicazione.
Secondo l’Afghanistan Analysts Network, un rispettabile collettivo di ricercatori nazionali e internazionali, i Talebani non sono nuovi nel negare la responsabilità di attacchi brutali senza apparente giustificazione contro i civili. La spiegazione più plausibile, per esempio, all’attacco nel distretto popolare di Shah Shahid, è che si sia trattato di un errore. Una bomba esplosa preventivamente, parte di un piano che mirava a mandare un forte segnale al governo orchestrando tre bombe a distanza di poche ore in opposte aree della capitale. Ma c’è anche chi crede che dietro l’attacco ci sia ISI, l’Inter-Services Intelligence Pakistana, che riuscendo a trasportare una quantità di esplosivo notevole nella capitale, ha voluto dimostrate le sue capacita’ di interferire contro i trattati di pace.

Per questo, nelle strade di Kabul al di fuori della barricata green zone, la zona diplomatica dove si trova la base della Resolute Support Mission, non si respira l’ottimismo delle due ragazze.

Lì, dentro quello che anche molti lavoratori interni chiamano ‘una vigliaccata tutta occidentale, si cerca di vivere un’apparente normalità, tra corsi di pilates e pizzerie, mentre fuori la città ancora trema e la guerra continua ad essere combattuta nelle province circostanti.
Il Vice Presidente Dustum, ex leader dell’alleanza del Nord, si trova ora a Faryab, in prima linea contro le forze insurrezionaliste. La sua è anche una guerra di pancia, come racconta il New York Times, basata su una lealtà locale costruita in anni di macetanismo di guerra che ancora oggi assicura il supporto della popolazione, nonostante le accuse di crimini di guerra e warlordismo. La stessa lealtà che vorrebbe costruire l’ISIS, offrendo cospicui stipendi ai gruppi armati antagonisti locali, conquistando così la loro affiliazione. A differenza dei militanti occidentali che partono per la Siria e l’Iraq, infatti, qui si abbraccia l’estremismo più per fame che per religione.

Nel frattempo il Presidente Ghani, le cui voci dicono sia di nuovo malato di cancro, ha chiamato per la prima volta i Talebani ‘muhareb’, coloro che combattono contro Dio, il peggiore dei crimine secondo la Sharia, la legge islamica. L’annuncio della morte del Mullah Omer, la cui tempistica è considerata alquanto strana, ha complicato in maniera significativa i suoi sforzi di garantire la stabilità nel paese. Ci sono diverse teorie riguardo chi e perché abbia fatto uscire la notizia proprio pochi giorni prima il secondo round dei trattati di pace. Alcuni credono sia stato lo stesso Akhtar Muhammad Mansour, ora a capo dei Talebani e da sempre contro i negoziati. La possibile entrata del gruppo terroristico nel governo afghano, infatti, limiterebbe di molto il potere di combattenti come lui, lasciando spazio a figure talebane più influenti a livello politico. Un’altra teoria, è che sia stata una parte del Gran Consiglio dei Talebani a rendere pubblica la morte del Mullah Omer, proprio per opporsi alle pressioni fatte dallo stesso Mansour. Il Consiglio, infatti, per garantire la sua partecipazione ai trattati come interlocutore valido, si sarebbe visto costretto ad evidenziare pubblicamente la spaccatura interna formatasi, e la loro volontà di riconciliazione al contrario di Mansour.

C’è anche chi crede che sia stata l’ISI, la stessa intelligenza Pakistana, timorosa di veder risolvere il problema dei talebani in Afghanistan prima di quello dei Talebani Pakistani, nel tentativo di prevenire il probabile trasferimento di armi e logistica dall’Afghanistan nel caso un accordo di pace avvenisse veramente.

Qualunque sia la verità, ora il Presidente Ghani si trova a fare i conti con un interlocutore diviso e che combatte internamente in almeno tre province del paese, Farah, Helmond e Herat. Due sono le probabili opzioni che si trova davanti. Continuare i trattati con solo una parte dei Talebani, o impegnarsi a rimuovere la leadership di Massour e continuare i negoziati solo una volta che i Talebani saranno di nuovo riuniti. Ma intanto nel paese, alcuni come il potente governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor, considerano la sua leadership troppo debole per far fronte a questa situazione, in particolare dal punto di vista militare, e parlando da tempo di reclutare vecchie milizie per bloccare le linee avanzate dei Talebani, almeno fino a qualche mese.

Nel frattempo sui social network, anche gli expat che vivono in Afghanistan da anni, iniziano a manifestare timore per le voci che girano: “Se è vero che il Presidente Ghani è malato terminale di cancro, compro un biglietto aereo e sono fuori di qua”, commentano alcuni.

Anche le richieste degli afghani per ricevere un passaporto per trasferirsi all’estero sono aumentate notevolmente. Non sono più i poveri contadini della provincia, vittime degli scontri armati, a voler fuggire dal paese, ma i giovani laureati della città, fiore all’occhiello di dieci anni di progetti umanitari e riforme educative guidate dalla comunità internazionale.
Ad oggi l’Afghanistan, dopo la Siria, rimane il paese con il numero più alto di richiedenti asilo. Ma la Siria è una zona di guerra, mentre questo è oramai un paese in ricostruzione. La missione NATO ISAF, International Security Assistance Force, è stata infatti considerata completata ‘con successo’ nel 2014 ed oggi, sotto il nome di Resolute Support Mission, serve solo da training e supporto alle forze armate afghane. Dopo 10 anni e più del 40% dei soldi usati per pagare gli stipendi ai contractor però, la discesa verso il caos sembra bussare di nuovo, minacciosa, alle porte della capitale.