Agente arancione: noi non sapevamo

Un reportage fotografico per raccontare,
a quarant’anni di distanza dalla fine del conflitto in Vietnam, le conseguenze sulla popolazione della diossina Usa

testo e foto di Matthias Canapini

Procedendo verso sud, in alcune zone di aperta campagna, gli alberi hanno cessato di crescere. Solo ampie distese di terra arida. Il vuoto. Il 30 aprile del 1975, stando ai resoconti storici, finiva la guerra in Vietnam, ma gli effetti dell’agente arancio, una diossina lanciata dall’esercito statunitense durante il conflitto sono tuttora ben visibili. Alcuni terreni agricoli e gran parte delle acque dei fiumi, soprattutto nel Sud, sono ancora contaminate e rendono impossibile il sostentamento di contadini e famiglie locali.

A distanza di circa quaranta anni l’agente arancio, come un parassita, continua a mangiarsi l’ecosistema di questo vasto paese del Sud – Est asiatico. Otre al disastro naturale, si aggiunge il dramma umano.

Tantissimi bambini, ancora oggi, nascono con gravi malformazioni fisiche, problemi mentali, tumori e malattie di ogni tipo. I veterani o i civili contaminati dalla diossina vivono una vita di stenti e dolori. Alcuni, grandi e piccoli, si spengono lentamente, giorno dopo giorno, sdraiati su letti o brandine con lo sguardo vuoto a fissare il soffitto. Secondo l’associazione locale VAVA, ben 4,8 milioni di persone in Vietnam sono state esposte all’erbicida e circa 3 milioni di esse soffrono di malattie mortali. L’eredità di un conflitto.

 


 

Ly Thi Son ha un sorriso disarmante. Incute dolcezza e sollievo laddove potrebbe regnare solo rabbia e dolore. Davanti alla sua minuscola casetta ha costruito una specie di mercatino e tenta ogni giorno di vendere caramelle alla menta e lattine di Red Bull ai vari passanti. Ci sediamo sulla sponda del letto, stretti come sardine. Suo figlio Tran Van Thi è accucciato in un angolo dello stanzino. «Mio marito è morto pochi mesi fa ed è stato contaminato dall’agente arancio mentre era al fronte. Nessuno in tempo di guerra sapeva cosa potesse essere quel gas verdognolo che cadeva dal cielo. Sentivamo la pelle bruciare, unta come olio. Quando è nato nostro figlio abbiamo fatto degli esami medici e abbiamo capito. Abbiamo scoperto la verità». Tran non si muove, non si lava, non mangia e non beve se non grazie all’aiuto della madre. Ha le ginocchia sbucciate e lo sguardo perso. Si sposta gattonando ma non emette parole.

Solo lamenti che riempiono la stanza di malessere.

L’automobile si ferma senza preavviso di fronte ad una umile casa in cemento in un remoto angolo del nord Vietnam. In linea d’aria siamo a circa 200 km da Hanoi, persi tra risaie e buoi intenti a mangiare l’erba a bordo della strada. Una ragazza, o forse un’anziana si rotola nel cortile della struttura, gemendo, urlando e ridendo in un misto di raccapricciante follia. Qualche cagnolino le gira attorno, lei si dondola tra se e se, persa nella sua mente e nella polvere del giardino.

Alza la testa al cielo e solo allora noto che è cieca. Due buchetti azzurri le incorniciano il viso. Non ha capelli, solo rade chiazze di peluria disseminate sul cranio. La mamma emerge dal ventre della casa. Si chiama Le Thi Teo, ha settanta anni ed un braccio rotto, ma non si sa come. «Si, la mia storia è uguale a quella di tante altre vedove o donne sparse nel Vietnam. Mio marito ha combattuto, è venuto a contatto con la diossina ed ecco qui il risultato». Indica con un sorriso il corpo della figlia. «L’umore di Hong Gam dipende molto dal tempo, ma sostanzialmente è impazzita durante il corso degli anni. Se si avvicina un temporale, il suo cervelletto ne risente, diventa isterica e nervosa e sono costretta a chiuderla in una stanzina senza porte ne finestre, solo sbarre alle pareti in modo che non rompa niente o non lanci oggetti». Continuiamo a parlare, ma i gemiti pazzi di Hong raggiungono il nostro tavolo scuotendomi dentro.

La città di Saigon è in fermento. Motorini, venditrici di frutta e turisti sudati. L’asfalto è rovente.

Ottengo finalmente il permesso per visitare il “villaggio della pace”, un reparto del Tu Du Hospital dedicato ai bambini dalle due settimane di vita ai dieci anni circa vittime dell’agente arancio. Un luogo desolato e fatiscente. Al secondo piano, sigillati dentro boccioni in vetro, ci sono i corpi dei neonati, morti appena dati alla luce, poco dopo la fine del conflitto. Una targhetta in plastica ricorda il loro nome, l’età ed il motivo del decesso, gran parte delle volte avvenuta per malformazioni fisiche.

 


 

Le scale che conducono al terzo piano si animano di schiamazzi, urla, guaiti. Provengono dalle quattro stanze dislocate lungo il corridoio. Neonati deformi mangiati da tumori e bolle infettive. Occhi fuori dalla orbite e crani tre volte più grandi del normale. Gravissime malformazioni ossee, articolazioni gonfie e corpi quasi scheletrici. Molti dei bambini o adolescenti presenti si dondolano sui bordi del letto e sbattono la testa contro le pareti. Non riesco a immaginare quali tipi di dolori possano provare. Un ragazzotto sui tredici anni ha la pelle come bruciata, coperta da croste. Le infermiere sono state costrette a legargli i polsi con delle manette per evitare che si gratti e peggiori la sua condizione. Mi chiedo però, se esista un “peggio” in situazioni simili?

 

PS. Sono nato nel 1992. Questa guerra, al contrario delle storie che ho documentato in Siria, Bosnia o Ucraina, appartiene ad un’epoca a me sconosciuta. Fatico ad immaginare , e a capire. Ma comprendere tanto orrore, sappiamo che a volte è impossibile. Questo è semplicemente un piccolo modo per riflettere insieme su una delle tante eredità che un conflitto lascia sulle nuove generazioni. Le guerre non finiscono quando scompaiono dai media o dalle nostre coscienze. 1975 – 2015.