Cent’anni in fuga

Nel centenario del genocidio degli Armeni, il ricordo tra Siria e Italia dell’erede di un profugo di ieri uguale a quelli di oggi

di Christian Elia

“Mio padre è sbarcato in Puglia, senza scarpe. Conobbe un ragazzino greco, tredicenne come lui. Entrambi soli si unirono, più per sopravvivere che per scelta. Entrambi riuscirono a raggiungere Venezia e furono accolti dalla comunità. E mio padre, fino all’ultimo, ha sempre detto che è stato salvato dall’umanità che ha incontrato”.

Laura Mirachian, ex ambasciatrice italiana in Siria, avvolge la platea del Festival di Mantova con la storia della sua famiglia. E lo spazio e il tempo si dilatano. Il padre è stato uno dei sopravvissuti al Medz Yeghern, il genocidio degli armeni, nel 1915.

“Passarono, come migliaia di altri, da Deir ez-Zor, in Siria. Quando venni nominata ambasciatrice a Damasco, volli andare a vedere. E c’è un monumento che ricorda l’accoglienza della popolazione locale ai disperati in fuga dall’esercito turco. Mio padre raccontava sempre il sapore di quel riso che – dopo settimane di marce forzate e giorni di fame – lo accolse”.

In compagnia dello storico Marcello Flores e della scrittrice Antonia Arslan, cento anni dopo, si parla di armeni braccati e di Siria, come a comporre un mosaico di vite che si impigliano nelle ruote della storia. Immagini che si sovrappongono, ieri e oggi.

La Siria dei popoli e dei sette patriarcati ortodossi, delle quindici confessioni e lingue, oggi è insanguinata e in pezzi. Le memorie, come le persone, rischiano di essere cancellate. Anche quelle della comunità armena, tra le altre. Ma se le chiese e i monumenti distrutti feriscono gli occhi, sono le vite spezzate che devono far indignare il cuore e portare a un moto di opposizione alla barbarie del conflitto.

“Per quattro anni ho lavorato a tessere un canale diplomatico con Assad”, racconta Mirachian, per coloro che hanno sempre la memoria corta. “Ma Assad è sempre rimasto chiuso nella cerchia del potere che aveva attorno, ignorando le richieste della classe media emergente che chiedeva libertà, diritti, rispetto. Queste sono le persone in fuga, queste sono le persone che muoiono in giro per il mondo. Ma in Europa e negli Usa non hanno saputo capire che nel 2011, all’inizio, era queste le persone scese in piazza. Poi la repressione ha fatto il resto, fino all’orrore di oggi”.

Ascoltare un diplomatico esperto è doloroso: se si fosse sostenuta la società civile siriana, non saremmo arrivati a questo punto. E guardando e ascoltando la Mirachian, resta l’immagine di suo nonno, in fuga. Quanti intellettuali di oggi non nasceranno mai, perché figli di profughi che non ce la fanno? E il piccolo Aylan, chi sarebbe diventato? Ogni tragedia, invece di insegnare, sembra annunciarne un’altra. He ricorderemo poi, cento anni dopo, con vergogna.