Uomini di Dio

Il massacro dei monaci a Tibhirine, in Algeria, nel 1996, ancora senza verità

di Christian Elia

“Sia fatta la volontà di Dio, preghiamo”. “Si, preghiamo, ma se conosco la verità prego meglio”.
A volte basta una battuta per inquadrare un personaggio. Don Armand Veilleux, abate del monastero trappista di Scourmont, in Belgio, è una persona che sa prendere in contropiede.

Come quando, durante i funerali dei sette fratelli del suo ordine, rapiti e poi uccisi in Algeria nel 1996, lasciò senza parole i suoi superiori, per non parlare dei volti rigidi delle autorità francesi e algerine, chiedendo di aprire le sette bare.

“L’ho chiesto perché, ora come allora, cerco la verità. E guardare quelle teste dei miei fratelli, perché i loro corpi non sono mai stati ritrovati, era un modo per farlo. Un punto di partenza. Ad oggi restano poche certezze: la notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette monaci vennero rapiti da un gruppo di uomini armati dal monastero di Tibhirine, in Algeria. E dopo due mesi le loro teste decapitate vennero rinvenute, uccisi probabilmente dopo un mese e mezzo dal rapimento. Il resto è ancora un mistero”.

L’abate Armand, lunga barba bianca e occhiali spessi, sembra innocuo. Chissà, magari questo è stato uno degli errori di tutti quelli, e sono tanti, che volevano che questa storia venisse dimenticata in fretta. Lo hanno sottovalutato. L’abate invece, che all’epoca dei fatti era procuratore generale dell’ordine al quale appartenevano le sette vittime, non ha mai voluto smettere di chiedere la verità.

Il Festival di Mantova accoglie una storia fuori dai canoni della kermesse letteraria, lasciando alla presentazione del veterano degli inviati di guerra Valerio Pellizzari, che ha seguito per anni la vicenda, e al dott. Giandomenico Picco – per anni mediatore Onu nei casi di sequestri in zone di conflitto – il ruolo di accompagnatori dell’abate Veilleux.

Quest’ultimo parte da un passaggio fondamentale per capire l’Algeria di allora e tutto quelo che, a suo dire, “trova una sorta di prova generale di situazione che oggi accadono in tante, troppe zone di conflitto”. E il pensiero, per forza di cose, corre a padre Dall’Oglio e al suo impegno nel conflitto siriano, prima di scomparire senza lasciare tracce orami due anni fa.


UOMINI DI DIO, IL FILM TRATTO DALLA VICENDA

“L’ultima volta che ho fatto visita ai fratelli”, racconta l’abate, “la guerra civile era già devastante. Il Priore, padre Christian de Chergé, mi disse con chiarezza che gli insorti uccidevano le famiglie dei ragazzi che si arruolavano, mentre i militari uccidevano le famiglie di quelli che si univano ai ribelli. Loro avevano scelto di stare con le vittime, praticando il diritto alla differenza. E chiamavano i militari i ‘fratelli della pinaura’ e i ribelli i ‘fratelli della montagna’”.

Una non scelta di campo che, in molti casi, fa più rumore di una scelta. Perché finisce per svelare i massacri dell’uno e dell’altro schieramento. E questo, all’epoca, infastidì molto qualcuno. Il contesto, come ricorda padre Armand, è importante. Nel 1991 il partito islamista stravince il primo turno delle elezioni. I militari attuano un colpo di mano, per impedire il secondo turno. I radicali islamisti reagiscono, scoppia una guerra civile che costò la vita a 200mila persone.

Non è che quelle sette vite fossero più importanti delle altre, l’abate lo ricorda spesso, ma è importante capire come nei conflitti moderni (e lo ribadisce anche Picco, ricordando come fosse più facile il suo lavoro durante la Guerra Fredda) gli attori sono tanti e giocano sporco.

“Il magistrato che dal 2003 si è occupato dell’inchiesta, e che ringrazio, ha dovuto lasciare per la legge francese che dopo dieci anni impone un cambio degli inquirenti. E ha lasciato dicendo: io sono arrivato fin dove poteva la giustizia, ora tocca alla politica. Ecco, è questo il nodo: superiamolo”, chiede l’abate. “I servizi segreti francesi e algerini, i governi francesi e algerini, non hanno mai davvero aiutato la ricerca della verità. E’ una ragion di Stato inaccettabile, che dovrebbe portare a conoscere zone d’ombra di quel conflitto, dove l’uno dava la colpa all’altro anche con finti massacri. E’ tempo di fare chiarezza”.

Per i sette monaci, per le loro famiglie, ma anche per tutte le vittime di quella drammatica guerra civile, che l’attuale presidente Bouteflika ha tentato di cancellare con un colpo di spugna, con un’amnistia per i militari e un’offerta di riconciliazione agli insorti.

“L’ultima prova dell’esistenza in vita dei miei fratelli è un nastro, con le loro voci registrate. Da un chiaro riferimento temporale, si intuisce che è passato un mese e mezzo dal rapimento. Mi ha sempre colpito la serenità delle loro voci, che quasi sembrano avere un rapporto cordiale con i rapitori, che sollecitano anche mentre parlano”, racconta Veilleux.

“Quei frati non sono più quelli che hanno avanzato con i colonizzatori, erano parte dei poveri, con i poveri. Erano amati per questo e ancora oggi ci sono pellegrinaggi di fratelli musulmani alla loro tomba. Tutti meritiamo di sapere, perché i copri che mancano sono in quella terra d’Algeria che hanno amato per tutta la vita. Ancora ostaggi, come tutte le vittime, delle menzogne delle guerre”.