Salè e la generazione dell’inglese politico

Non usare il francese e imparare l’inglese in Marocco
è un atto di protesta. Che alcuni giovani rivendicano
contro l’élite che governa il Paese e che mantiene il potere grazie al sistema scolastico

di Francesca Tomasso, da Rabat

In Marocco c’è un muro invisibile ma altrettanto spesso che divide, irrimediabilmente, le classi abbienti da quelle che lo sono meno: è il francese. Lingua dei colonizzatori e dell’élite marocchina che li sosteneva, rimane oggi veicolo immaginario e reale di status sociale elevato e buona istruzione. Non solo perché è la lingua franca utilizzata dalla maggior parte degli internazionali (cooperanti, personale d’ambasciata, ricercatori, intellettuali stranieri a vario titolo) che la adotta e che usa per parlare, scrivere e lavorare. Ma soprattutto, ed è qui che i nodi di un regime classista vengono al pettine, è la lingua dell’istruzione universitaria. Che un ricercatore spagnolo o uno italiano, in Marocco, preferiscano parlare francese invece che imparare l’arabo, ha senso. Che l’istruzione superiore di un intero paese sia insegnata nella seconda lingua parlata dagli abitanti, invece che nella prima, un po’ meno. E allora come funziona?

Rabat - Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Rabat – Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Nelle scuole primarie e secondarie pubbliche tutte le materie sono insegnate in arabo, salvo poi l’introduzione della lingua francese come lingua straniera alle superiori. Le scuole private, al contrario, sono a maggioranza francofona: vuol dire che non solo il francese è insegnato come lingua della grammatica, ma anche tutte le altre materie sono in francese, mentre l’arabo è la lingua straniera. L’iscrizione in una scuola privata del circuito AEFE (Agence pour l’Enseignement du Français à l’étranger, Agenzia per l’Insegnamento del Francese all’Estero n.d.r.) costa dai 28000 dirham l’anno alla Scuola Claude Bernard di Casablanca, ai 38000 dirham all’istituto Descartes di Rabat, per gli anni della materna, cioè circa rispettivamente 2500 e 3500 euro. Ovviamente il prezzo cresce con il crescere del livello dell’insegnamento: 43000 dirham (3900 euro) per un anno di superiori al liceo Descartes, con 20000 dirham aggiuntivi (1800 euro) di tassa di “prima iscrizione”, da pagare solo il primo anno. L’ècole belge (scuola belga) di Casablanca è più cara, 47000 dirham (4300 euro) per un anno di materna, 57000 (5200 euro) per le elementari e 67000 (6100 euro) per le superiori.

Rabat - Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Rabat – Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Il salario minimo garantito per legge è di 13,46 dirham l’ora, cioè meno di un euro e mezzo, per uno stipendio complessivo che si aggira attorno ai 2500 dirham mensili, 230 euro.Un infermiere prende circa 6000 dirham, 550 euro al mese, un professore universitario circa 25000. Un anno in un liceo francese costa un anno di stipendio a salario minimo, 6 mesi di stipendio da infermiere, un mese di stipendio da professore.

Un anno nella Scuola Belga costa più di 24 stipendi minimi, quasi un anno di stipendi da infermiere, più di due mesi di stipendio da professore.

Ma il problema più grande non è solo il costo spropositato delle scuole francesi in sé, o al fatto che la migliore istruzione sia privata (e quindi completamente fuori portata della maggior parte della popolazione). Il problema è che chi non va in una di quelle scuole poi di fatto non può andare all’università. Il sillogismo è questo: solo chi sa il francese può andare all’università, solo (o quasi) chi viene da una famiglia abbiente parla francese fluente –appunto perché viene da un istituto privato – quindi, in pratica, va all’università solo chi viene già da una famiglia abbiente.

Di fatto, l’istruzione viaggia sempre nelle stesse famiglie, produce e riproduce potere seguendo l’albero genealogico ed è così che il sistema cortocircuita, amputando alla base il rinnovamento sociale.

In un paese dove il 40 per cento circa della popolazione è analfabeta, andare all’università e conseguire una laurea può davvero voler dire fare la scalata sociale. Soprattutto da quando, più o meno un ventennio a questa parte, avere la licenza superiore non assicura più un “buon” lavoro da quadro o nei ministeri, come testimoniano le manifestazioni giornaliere dei diplomés chomeurs, i diplomati disoccupati, in tutto il paese.

Il cambiamento però arriva sempre dove meno te lo aspetti. Iniziamo da Salè.

Cos’è? Salè (nella foto in apertura) è una città del Marocco, ad un letto di fiume di distanza – il Bouregreg – da Rabat. Città geograficamente speculari, ma ontologicamente molto diverse, Rabat e Salé sono unite dalla linea tranviaria che in mezz’ora ti porta dal cuore dell’una al cuore dell’altra. Salè, città di corsari, fu repubblica autonoma in un esperimento di autogoverno dal 1627 al 1668 e inglobava all’epoca anche Rabat. Oggi è il contrario, è Rabat che conquista Salè: negli anni, oltre che città in sé, è diventata anche una specie di gigante banlieu che funge da periferia urbana della presidenziale, istituzionale e ministeriale Rabat e che raccoglie le ondate di persone che abbandonano la capitale per il carovita e il caro affitti.

Rabat - Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Rabat – Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

A Salé c’è oggi questa generazione di ventenni che non parla francese perché proviene dalla classe medio bassa o bassa della popolazione e a cui quindi non è stato insegnato né a casa né a scuola: figli di piccoli artigiani, contadini, commercianti, impiegati pubblici. Ma questa esclusione di fatto dall’università prima, e dai circoli dell’élite politico-culturale poi, non impedisce loro di avere una visione critica della questione e di prendere posizione. Hanno ripudiato il francese anche in età adulta quando avrebbero potuto apprenderlo da soli, parlano di «élite che riproducono se stesse dai tempi dei colonizzatori» e mi dicono che «sono sempre quelle dieci famiglie a contare». Hanno tra i 20 e i 30 anni, fanno i lavori più diversi, dal commesso di negozio all’istruttore di surf, dal venditore di strada al musicista; molto spesso hanno partner stranieri, sono connessi ai social network e all’informazione, sono musulmani ma reinterpretano divieti e costumi, adattano la regola religiosa alla loro prassi, cercando una coerenza tra il loro essere internazionalizzati e profondamente marocchini allo stesso tempo.

Riguardo il francese mi spiegano che «non parlo, non parliamo francese per ragioni politiche. Alcuni di noi lo conoscono, ma non lo parlano. Quando parli francese qui, affermi qualcosa, uno status, una particolare visione delle cose, vuol dire essere di un’élite di cui noi invece non siamo parte, di cui non possiamo essere parte».

Un’aristocrazia urbana e francofona li ha esclusi, li ha chiusi fuori dal cerchio, ma loro hanno trovato un’altra via e un altro cerchio di cui essere parte. «Dovendo scegliere tra imparare da zero il francese e imparare da zero l’inglese, ho scelto l’inglese. Se impari il francese sei in contatto con la Francia e con una certa élite marocchina, e poi? Se impari l’inglese sei a contatto con il mondo». E magari il mondo ti dà altre opportunità. C’è chi ha una compagna svedese, che spera di sposare e poter raggiungere, c’è chi ha trovato un produttore americano e sta incidendo un disco, c’è chi compra abiti usati alla medina e li rivende online in tutto il mondo a prezzi maggiorati.

Rabat - Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC

Rabat – Foto di Andrea Moroni, via Flickr in CC


Nel 1952 Frantz Fanon, nel suo celebre Peau Noir. Masques Blancs scriveva che parlare vuol dire utilizzare una certa sintassi, possedere la morfologia di una lingua invece che di un’altra, ma soprattutto parlare vuole dire assumere, nel senso di adottare, una certa cultura, vuol dire sopportare il peso di una civiltà. Siamo ciò che parliamo, o il più noto «le parole sono importanti» urlato da Nanni Moretti in Palombella Rossa, non è mai stato così vero. Parlare francese ha un significato politico, si porta dietro retaggi coloniali che oggi si reinventano sotto la faccia di un elitismo marocchino vecchio e nuovo allo stesso tempo, che non è solo immaginato e intellettuale, ma che determina e dà forma alla piramide sociale. Se parlare francese è sopportare il peso di una determinata civiltà e cultura, allora imparare inglese diventa una scelta politica ben precisa, un gesto di contro-cultura.

Come il potere è liquido, si insinua ovunque ci sia un vuoto, così anche è la protesta: non ha necessariamente bisogno di armi e arriva in angoli sconosciuti prima. È esattamente quello che i ragazzi dell’inglese politico stanno facendo, si stanno ribellando.

Se questa “generazione di Salé” prenderà coscienza di questo, se riuscirà a fare gruppo, a incanalare questo senso di ingiustizia che ha prima percepito e poi compreso e di cui il francese è solo la punta manifesta, quella che esce allo scoperto ma che nasconde ineguaglianze sociali profondissime, in una rivendicazione strutturata per un diritto all’istruzione secondaria e universitaria di qualità per tutti, ci sarà davvero un nuovo capitolo per la società marocchina. Questa generazione di Salè sta sovvertendo, in modo non violento, un potere che l’aveva rinchiusa in un ghetto reale e immaginario di una città e di uno status secondarii. Sta sovvertendo, poco a poco, una gerarchia sociale già scritta: deve solo accorgersene.