Diada 2015

Quello del plebiscito quotidiano è oramai uno dei più antichi e usurati paradigmi dell’appartenenza stato-nazionale.

di Andrea Geniola

Quando nel 1882 Ernest Renan volle sostenere la causa e identità nazionale francese contro il nemico esterno tedesco usò appunto quello del plébiscite de tous les jours per caratterizzare il suo nazionalismo francese come intrinsecamente civico contro appunto quello del nemico patrio. Fu compito poi di altri grossi nomi della storiografia nazionale francese, come Guy Hermet, quello di riprodurre fino ai nostri giorni una visione dicotomica tra un nazionalismo buono (il proprio), ritenuto civico e quasi non-nazionalista, ed uno cattivo (quello altrui), catalogato come etnico. L’altro nazionalista di questa intellettualità francese era la Germania ma ben presto questo modello fu applicato anche alla dialettica tra nazionalismo dello stato-nazione e nazionalismo sub-statale o periferico. Al demos universale del nazionalismo civico legato allo stato-nazione si contrapporrebbe, quindi, l’ethnos particolare del nazionalismo etnoculturale delle cosiddette nazioni senza stato. Pur trattandosi di categorie che sono state abbondantemente messe in discussione dal progresso degli studi nazionali degli ultimi lustri, si tratta di paradigmi che fanno tuttora fatica a scomparire dall’attualità politico-giornalistica a causa della loro forte presa mediatica ed enorme capacità semplificatrice. Resta però l’intuizione della nazione come plebiscito quotidiano, cosa che può servirci a meglio interpretare il senso civico di determinati processi. Se è vero che il plebiscito che quotidianamente permette all’identità nazionale di riprodursi e giustificarsi è anche una sorta di termometro dello stato di salute delle identità stato-nazionali, ritenute civiche, contro quelle sub-statali, ritenute etniche, diremmo che in Catalogna l’identità nazionale spagnola civica (sempre che questa dicotomia esista) non gode affatto di buona salute.

La Diada e i suoi contorni

Molti osservatori insistono sulla spiegazione delle origini della Diada, l’11 settembre catalano, sulle giustificazioni storiche della giornata, insomma sul fatto che essa celebri la caduta della città dinnanzi all’assedio borbonico del 1714, come momento chiave di un processo di assimilazione nazionale e omogeneizzazione statale in cui i catalani avrebbero perso parti della loro sovranità. Sebbene questa giustificazione storicista sia presente a livello formale ed elementi di tipo sentimental-organicista sono presenti in tutte le identità nazionali e nelle rispettive rappresentazioni, nulla o poco ha a che vedere tutto ciò con l’attualità politica, esattamente come nulla hanno a che spartire considerazioni di tipo etnico con l’esplosione indipendentista di questi anni. Chi fa questa lettura, da una parte o dall’altra della barricata dialettica, ha probabilmente sbagliato luogo e forse anche secolo. La manifestazione in questione è tutt’altro e il surreale ballo delle cifre di partecipazione è solamente una cortina di fumo che nasconde altre questioni. Infatti oramai nessuno discute più sulle dimensioni di massa delle manifestazioni indipendentiste in Catalogna. Dimensioni che, per altro, nessun altro partito o movimento riesce a mettere in campo in Europa, considerando anche che la popolazione catalana si aggira attorno ai sette milioni. L’Avinguda Meridiana, lo scenario scelto quest’anno per la rivendicazione, è stata letteralmente collassata per cinque chilometri e in molti casi anche lungo le arterie laterali, mentre migliaia di persone rimanevano intrappolate nelle stazioni della metropolitana senza poter nemmeno arrivare a destinazione. Gli organizzatori parlano di 2 milioni di persone, la Delegazione del Governo spagnolo di 500.000, la Guardia Urbana (la polizia municipale della città) parla di 1-400.000 partecipanti. Eppure, si tratta di schermaglie di piccolo cabotaggio quando in realtà al centro del dibattito oggi non vi sono le dimensioni della manifestazione bensì il suo contenuto e legittimità. Oggi la questione è diventata qualitativa e non quantitativa, contenutistica e non formale. La Via Lliure a la República Catalana, organizzata dall’Assemblea Nacional Catalana, ha rappresentato un salto di qualità rispetto agli anni passati. In primo luogo, ha messo al centro della rivendicazione l’indipendenza e non più solamente il cosiddetto diritto a decidere. Questa è probabilmente una conseguenza diretta della chiusura totale al dialogo da parte del governo spagnolo ma si tratta anche dell’inevitabile esito della consulta del 9 novembre dell’anno scorso e dei suoi risultati ritenuti sostanzialmente positivi. In secondo luogo, questa manifestazione è andata oltre la rivendicazione, con l’obiettivo di riempire di contenuto l’opzione indipendentista. Negli ultimi mesi infatti l’organizzazione aveva puntato sulle ragioni economiche e sociali dell’indipendenza e sul suo contenuto progressista e progressivo. Diremmo che la nazione degli indipendentisti catalani sembra essere oggi una sorta di spazio di welfare piuttosto che un rifugio delle essenze etniche della patria irredenta. Ovviamente permangono elementi anche di altro tipo ma sembrano essere assolutamente secondari, almeno per quello che si può osservare sul campo. La “Via Lliure” si presentava come un arcobaleno di colori, ognuno dei quali rappresentava un contenuto, una questione sulla quale la nuova Catalogna dovrebbe/vorrebbe costruirsi: cultura ed educazione, innovazione, giustizia sociale, uguaglianza, sostenibilità, diversità, mondo, solidarietà, equilibrio territoriale e democrazia. Ovviamente, si tratta di questioni che non rappresentano in sé un elemento progressivo. La linea divisoria sta nel mondo in cui tali questioni si riempiono di contenuti reali, misure concrete, politiche attive e priorità di governo. Ciononostante rappresenta un fatto di un certo rilievo che una società civile mobilitata in senso indipendentista, nella sua pluralità ed espressione maggioritaria voglia accedere a livelli maggiori di sovranità per costruire un paese migliore piuttosto che per preservare privilegi o difendere una sopposta superiorità. Seguendo la linea del plebiscito quotidiano potremmo affermare che tale plebiscito sta costruendo l’immaginario della nazione catalana come un luogo prospetticamente migliore rispetto a quello in cui si trova attualmente e la convinzione che questo luogo migliore possa costruirsi solamente con un recupero della sovranità popolare al di fuori della legalità vigente dello stato-nazione spagnolo. È curioso, appare curioso, ma la realtà spesso lo è più delle costruzioni che si di essa si fanno.

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La Diada di quest’anno è stata anche il primo giorno di campagna per le elezioni per il rinnovo del Parlament autonomo. A nostro modo di vedere si tratta di un avvio di campagna elettorale alquanto insolito. Rappresenta infatti un’insolita circostanza il fatto che il primo giorno di campagna elettorale non si parli di liste, partiti e candidati bensì di futuro e di politica con sullo sfondo una manifestazione di massa come oramai se ne vedono poche in giro. E non sorprende affatto che i partiti favorevoli alla conservazione dello statu quo si lamentino di questo. La campagna elettorale, non senza un accurato calcolo, iniziava alla mezzanotte del’11 settembre ma durante la giornata il protagonismo è stato dei contenuti dell’indipendenza piuttosto che delle liste in lizza. E mentre in Catalogna si parlava di politica, del futuro istituzionale e politico (anche della Spagna), e le televisioni pubbliche e locali si mettevano al servizio di questo (non senza limiti e scelte editoriali magari discutibili), la maggior parte dei telespettatori del resto della Spagna era rapita da quello che mezzi di comunicazione main-stream e opinion makers spagnoli avevano deciso essere davvero importante: rotocalchi, reality show, gossip e qualche bel film di violenza gratuita in stile holywoodiano.

Sempre i partiti non indipendentisti (PSOE, PP, Ciudadanos) hanno insistito nel condannare l’appopriazione indebita da parte degli indipendentisti della Diada. Anche in questo caso si tratta di un’affermazione polemica con poco fondamento. In realtà le celebrazioni popolari dell’11 Settembre, più o meno numerose, sono sempre state appannaggio della sinistra indipendentista mentre i partiti si sono sempre limitati a piccole celebrazioni istituzionali. Dagli anni ottanta in poi fu la sinistra indipendentista, quella che oggi si riconosce nella CUP, a manifestare al Fossar de les Moreres al mattino e celebrare un corteo serale. Dal 2012 la Diada è diventata il momento algido, di massima visibilità, della nuova trasversalità dell’indipendentismo nato dal fallimento del processo di riforma (e ampliamento) dello Statuto di Autonomia. Fino all’anno scorso si è trattato però di una manifestazione pel dret a decidir, declinazione catalana del diritto all’autodeterminazione. L’indipendentismo catalano chiedeva maggioritariamente e assieme ai settori non indipendentisti il rispetto della decisione della cittadinanza, cioè la celebrazione di un referendum sul futuro politico della Catalogna. La Diada di quest’anno è stata una manifestazione che potremmo definire come definitivamente indipendentista. Siamo certi che se fossero stati in centinaia di migliaia a manifestare contro l’indipendenza né il PP né il PSOE né Ciudadanos né i mezzi di comunicazione spagnoli si sarebbero lamentati. E comunque risulta davvero poco credibile l’amore retro per la Diada che questi partiti stanno mostrando in questi giorni. Su questa linea si sistema l’editoriale de “El País” del giorno dopo, secondo il quale vi fu un tempo in cui la Diada era una giornata di celebrazione di tutti i catalani mentre oggi lo è solo di alcuni, quindi la Diada di quest’anno avrebbe il peccato originale di essere stata egemonizzata dall’indipendentismo (Diada electoral, “El País”, 12/9/2015, p. 10).

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Una piccola osservazione merita anche il ballo delle opinioni e accuse di questi giorni. Il 30 agosto un ex Presidente spagnolo, il socialista Felipe González, si produce in un articolo di opinione che il quotidiano che lo ospita, l’altolocato e prestigioso “El País”, accompagna con un editoriale di aperto sostegno. L’argomento centrale dell’intervento di González (El desafío soberanista: A los catalanes) è che una Catalogna indipendente sarebbe una specie di Albania del XXI secolo e che l’attuale momento politico catalano è quanto di più simile possa esserci all’avventura tedesca o italiana degli anni trenta del secolo scorso. Due argomentazioni che già da sole sono poco sostenibili e che messe assieme creano un cortocircuito politico-culturale non di poco conto. Innanzitutto per il trasfondo di razzismo che vorrebbe identificare l’Albania come un modello negativo. L’illustre ex Presidente avrebbe potuto semplicemente dire che una Catalogna indipendente sarebbe un paese arretrato, non democratico e in preda al disordine istituzionale, le mafie, l’arbitrio del più forte, se è quello che voleva dire. Oppure avrebbe potuto dire che sarebbe una dittatura in preda al socialismo reale. Invece ha scelto la finezza dialettica di accusare gli indipendentisti di essere degli albanesi e di usare l’esempio dell’Albania (supponiamo quella socialista) come summa di tutti i mali. In secondo luogo, accusare gli indipendentisti di essere dei nazi-fascisti è una maniera pericolosa, oltre che manifestamente avulsa dalla realtà, di frivolizzare l’esperienza del fascismo e del nazismo. Certo, accusare una classe dirigente come quella del Governo della Generalitat, di timide tradizioni liberaldemocratiche, di essere al tempo stesso dei comunisti albanesi, dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani è una bella prova di astrazione letteraria. Nell’editoriale a sostegno delle tesi appena citate (González a los catalanes) “El País” spiega che González dice ai catalani che se se ne vanno dalla Spagna oltre a commettere una violazione della legalità democratica e materializzare un passo indietro storico, non solo vivranno peggio ma si ritroveranno gli uni contro gli altri e si troveranno contro gli spagnoli durante molte decadi. Una previsione apocalittica che sembra essere un desiderio nascosto o un maleficio vudù piuttosto che una fredda analisi politica. In realtà ciò che preoccupa “El País” è la Spagna e la sua scarsa tenuta senza uno dei suoi motori economici e fattori di progresso politico e culturale, per non parlare dell’effetto domino che una Catalogna indipendente avrebbe su baschi, galiziani e chissà quanti altri vorranno abbandonare la nave spagnola prima del naufragio. Ma ciò su cui ci vorremmo soffermare è quel passo indietro storico che rappresenterebbe l’indipendenza della Catalogna, come se ci fosse una sola via verso il benessere e la prosperità e se Spagna fosse sinonimo di progresso e civilizzazione. Non solo. Sembrerebbe che la storia dell’umanità fosse una linea retta in cui la linea del progresso e del benessere passa irrimediabilmente per l’esistenza della Spagna e che al di fuori di questa ci sarebbe solo posto per la barbarie. Certe affermazioni vanno anche contestualizzate nel momento e nel luogo in cui si producono. Infatti l’8 settembre il Ministro della Difesa spagnolo, Pedro Morenés, ricordava in un atto ufficiale che è compito dell’esercito difendere la legalità e l’unità territoriale della Spagna.

 

Come se tutto questo corpus di opinioni, rispettabili ma alquanto sconclusionate, non bastasse González dichiara alcuni giorni dopo in un’intervista al quotidiano catalano “La Vanguardia” che non voleva dire che la Catalogna fosse alle porte del fascismo e che sarebbe a favore del riconoscimento della Catalogna come una nazione. In un ulteriore colpo di scena González smentisce di aver parlato di riconoscimento nazionale e il giornalista intervistatore fornisce prova audio della suddetta intervista. Ci chiediamo per quale motivo un uomo così rispettato e oramai in là con gli anni abbia scelto di compromettere fino a questo punto la propria immagine in una ridda di dichiarazioni incontinenti. Esiste una classe dirigente, non solo di destra, profondamente preoccupata non tanto per la Catalogna quanto per la Spagna, per il destino della propria patria amata in pericolo di amputazione; un’amputazione non solo territoriale ma anche economica, culturale, politica, d’immagine, sportiva, ecc. Forse la questione che tutti oggi si stanno ponendo della fattibilità di una Catalogna indipendente, che non sarebbe affatto risparmiata da problemi di ogni tipo sia chiaro, andrebbe ribaltata. Probabilmente è la classe dirigente spagnola a temere una secessione e non certo per il bene dei catalani bensì per la sua stessa sopravvivenza. In realtà “El País” persegue proprio questa linea editoriale, compaginando queste performance con una progressiva simpatia dell’ultima ora per la via della riforma costituzionale in senso federale, offrendo un’immagine della Diada indipendentista tra il complottista e il caricaturale. Infatti sembra che qualsiasi cosa accada risponda a un disegno del male o a una caricatura provinciale. Poniamo solamente altri due esempi. L’articolo di opinione a firma di Rubén Amón (Independencia: siga la flecha, “El País”, 12/9/2015, p. 15) ci appare come una forzata caricatura degli elementi organizzativi e scenografici della “Via Lliure” in cui si arriva ad affermare che in Corea del Nord ci sarebbero riusciti certo meglio. Tra le righe si legge una tendenziale condanna delle manifestazioni di massa come espressione civica. La cronaca che Manuel Jabois ci consegna della conferenza stampa di Artur Mas, Oriol Junqueras e Raul Romeva dinnazi ai media internazionali accorsi a Barcellona ha del surreale (La gran ilusión de Junqueras, “El País”, 12/9/2015, pp. 14-15). Quella che sarebbe una caratteristica positiva nel mondo cosmopolita di oggi, sapere con scioltezza una o più lingue e rispondere in modo corretto e cortese alle domande della stampa (la conferenza stampa si è svolta in castigliano, catalano, inglese, francese e italiano senza interpreti), si trasforma per l’autore della cronaca in una sorta di peccato di vanità. E questo in un paese in cui il Presidente del Governo di solito non parla altro che castigliano e nei consessi internazionali non ispanici dev’essere scortato dagli interpreti anche per svolgere le funzioni vitali più elementari.

Verso il plebiscito imperfetto

Gli effetti di questa Diada, al contrario delle altre, saranno immediatamente misurabili in voti. Il 27 settembre i catalani saranno chiamati a rinnovare il parlamento autonomo con la prospettiva di rendere materiale e visibile il plebiscito quotidiano in un senso o nell’altro. Il lasso di tempo trascorso tra le elezioni municipali del 24 maggio scorso e l’attuale campagna elettorale ci ha consegnato la maturazione di alcuni passaggi politici che mettono in rilievo fino a che punto l’attuale processo di autodeterminazione stia modificando l’attuale scenario politico spostandolo progressivamente a sinistra e, al tempo stesso, lo stia saldando con differenti gradi di riconoscimento dei nuovi parametri della questione catalana. Infatti le coordinate del cambiamento politico in corso in Catalogna non sono assimilabili a quelle del resto della Spagna, né per dimensioni né per profondità. Una diversità non segregabile dalla rottura nazionale in corso e dalla profondità che questa comporta in termini di rottura con lo statu quo e rivoluzione democratica. In questo contesto infatti l’imminenza della scadenza elettorale ha portato ad una sorprendente ridefinizione dell’offerta politica su entrambe queste linee. La crescita e spesso vittoria di ipotesi di sinistra alternativa o di rottura in importanti comuni, tra cui Barcellona, ha messo all’ordine del giorno la possibilità di un’alternativa di sinistra possibile dopo anni di crisi economica e tagli indiscriminati al welfare. Parallelamente, però, la crescita elettorale dell’indipendentismo ha provocato ulteriori movimenti tellurici. Due gli esempi in questo senso. In primo luogo, il cambio di linea politica da parte di Podemos in materia di alleanze. Il successo della lista di Ada Colau e probabilmente anche i sondaggi che in Catalogna non li davano oltre un risicato 7% hanno convito il partito a rivedere la politica di alleanze. Solo qualche mese prima avevano ribadito la scelta di partecipare da soli alle elezioni catalane per vincerle e dopo le elezioni municipali hanno preso la strada (opposta) della coalizione. Ma senza dubbio l’esempio di maggior rilievo è quello della rottura della coalizione centrista catalanista di Convergència i Unió. In questo caso la causa diretta è stata la necessità di prendere una posizione netta nei confronti del processo di autodeterminazione. Tra giugno e luglio i contrasti in materia di progettualità nazionale e alleanze elettorali tra i due partiti della coalizione, i liberaldemocratici di CDC e i democristiani di UDC, hanno condotto allo scioglimento della stessa. Il detonante è stata una consulta interna a UDC sul da farsi che ha spaccato il partito in due tronconi. Una dirigenza in crisi ha adottato la linea uscita dalla consulta interna, che sancisce un raffreddamento nei confronti del processo di autodeterminazione e l’adozione ufficiale di una terza via favorevole ad una riforma costituzionale pattata con i partiti spagnoli e il governo di Madrid. Una corposa opposizione interna è uscita del partito in linea di continuità con la rivendicazione indipendentista fondando Demòcrates de Catalunya (DC). In definitiva, le possibilità reali di alternativa politica ai sanguinosi tagli al welfare e il modo attraverso il quale sbloccare la situazione politica sul fronte della rivendicazione nazionale hanno determinato il modo in cui si sono riarticolati gli attori politici in Catalogna. E questa riarticolazione ha segnato la crisi della rappresentazione politica delle classi dirigenti catalane che, lungi dall’avere il controllo della situazione e di fatto superate dagli eventi, si trovano oggi fortemente disorientate.

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Se la situazione politica a livello di massa e di strada sembra particolarmente effervescente a livello politico istituzionale si osserva un blocco, una situazione di stallo. I due assi dello stallo sono rappresentati dalla chiusura a ogni tipo di dialogo o concessione da parte del governo spagnolo e dalla tensione (o diremmo piuttosto contraddizione in termini) rappresentata dal fatto che a guidare l’eventuale secessione dovrebbe essere la Generalitat de Catalunya che, in fin dei conti, è pur sempre un’istituzione decentrata dello stato spagnolo. La via scelta dal governo catalano per uscire dall’impasse è stata quella di convocare delle elezioni definite plebiscitarie come sostituto del referendum e surrogato della consulta. Delle elezioni che, secondo le tesi indipendentiste, dovrebbero servire a contare favorevoli e contrari all’indipendenza ed avviare un processo al tempo stesso costituente e di secessione. Attorno a questi assi si sono costruite tre liste che possiamo definire di trasformazione: Junts Pel Sí (JPS), Catalunya Sí Que Es Pot (CSQEP) e Candidatura d’Unitat Popular-Crida Constituent (CUP). La tesi indipendentista maggioritaria è stata il prodotto di un lungo tira e molla tra CDC ed ERC, con la partecipazione dell’ANC, di Omnium Cultural, di Súmate e dei fuoriusciti indipendentisti di socialisti e democristiani: MES e DC. In realtà possiamo dire che la vittoria di Barcelona en Comú alle municipali di Barcellona ha fatto scattare l’allarme nel fronte indipendentista. Si ha l’impressione che l’indipendentismo temesse di perdere quell’aura di fattore rigenerante della vita politica contro il binomio corruzione/tagli. Di fatti i casi di corruzione che hanno toccato CiU e le politiche antipopolari che questa ha portato avanti rischiavano di scavare un vallo con ampi strati di popolazione. Inoltre, la logica stessa delle cosiddette elezioni plebiscitarie, che dovrebbero determinare cioè quale via prendere tra la riforma dello statu quo e la secessione, portava con sé la soluzione di una lista indipendentista unitaria con l’obiettivo di ottenere un’ampia maggioranza assoluta, conditio sine que non per portare avanti il progetto indipendentista. Su queste basi i partiti CDC, ERC, MES e DC e le entità civiche ANC, Súmate e Omnium Cultural costruiscono la lista JPS. Una decisione questa che rappresenta un cambiamento notevole, ad esempio nella posizione di ERC, per lunghi mesi contraria alla lista unitaria con CDC. Ovviamente, lo scioglimento di CiU ha aperto uno spazio politico in questo senso, liberando in un certo senso il campo da una forza più conservatrice e meno indipendentista, com’è UDC. JPS si caratterizza come una lista di centro progressista che intende congelare le differenze politiche nel campo ideologico per rinviarle al day after dell’indipendenza. Ciò non significa che non abbia programma politico ma questo diventa secondario rispetto alla conquista degli strumenti per rendere effettivo tale programma. E questi strumenti sono la sovranità necessaria a risolvere alla radice le problematiche sociali e la copertura finanziaria di tali obiettivi. Insomma, la riflessione di JPS si fonda sul fatto che senza sovranità reale e senza uno stato proprio tali problematiche non sono risolvibili e che l’indipendenza serve anche a risolvere tali questioni. JPS si compromette quindi a mettere in essere quelle misure di sovranità e avvio della costruzione statale in caso di vittoria. Per far questo, in un paese come la Catalogna che vota a sinistra, ha incassato l’appoggio di personalità storiche della sinistra e delle cultura catalana e ha candidato come capolista l’ex deputato europeo dell’ecosocialista ICV, Raul Romeva. Ovviamente, non mancano interrogativi e perplessità circa la fattibilità di questo progetto. Ad esempio, non rappresenta un buon viatico per la rigenerazione democratica e la difesa dello stato sociale il fatto che secondo gli accordi di lista sarà comunque Artur Mas (President uscente e numero quattro della lista) il papabile alla guida della Generalitat. È infatti poco credibile che il capo del gabinetto che ha massacrato il welfare catalano, imposto sanguinose misure di austerità e dilapidato il patrimonio pubblico seguendo i dettami europei e spagnoli in campo socio-economico possa invece guidare un processo di liberazione anche sociale. Una contraddizione che sul lungo periodo si potrebbe rivelare fatale, ad esempio, per ERC. Resta comunque un fatto che CDC abbia sottoscritto un programma politico anni luce più progressista rispetto a quelli che era abituata a proporre all’elettorato e abbia abbracciato, già libera dal freno rappresentato da UDC, la causa indipendentista in maniera ancor più determinata.

Su questa tensione agisce invece la proposta elettorale di CSQEP, la colazione tra ICV, EUiA, Podemos ed Equo, che denuncia il fatto che in tutti questi anni di tagli, sacrifici e austerità si sarebbero potute e dovute prendere altre misure e adottare un’altra linea. Inoltre, in alternativa all’opzione indipendentista questi propongono una fase costituente spagnola in cui verrebbe finalmente ed effettivamente riconosciuto il carattere nazionale della Catalogna e la plurinazionalità della Spagna. Si tratta di una scommessa politica che, ciononostante, non fa i conti con la reale portata del cambiamento politico che porteranno le elezioni politiche spagnole di dicembre, dando per scontato che gli spagnoli voteranno in questa direzione e soprattutto che sopporteranno il peso psicologico di una tale riforma, dopo anni di forte rinascita del sentimento nazionale spagnolo, spesso anche in contrapposizione con quello catalano. Da questo punto di vista CSQEP non sembra prevedere un piano B. Il problema di fondo di questa lista della sinistra alternativa è quello dell’effettiva capacità di sovranità. Senza una rottura con lo Stato sarà impossibile portare avanti le politiche promesse ed imbarcarsi in una riforma delle istituzioni spagnole potrebbe trasformarsi un’ulteriore palude. Senza sovranità effettiva, e oggi questa con tutti i suoi limiti può tentare di esercitarla solo uno Stato indipendente, nulla di quello che vogliono fare sarà possibile, o perlomeno nulla di radicalmente avanzato. Ad esempio, un governo regionale per molto autonomo che sia non ha le competenze legali per chiudere la vergogna dei CIE. Sulle opportunità di vittoria di questa lista pesano anche altri fattori. In primo luogo, e paradossalmente, il paragone con la sindachessa di Barcellona Ada Colau non fa bene al candidato presidente Lluis Rabell. Questi pur essendo molto conosciuto per il suo attivismo nei movimenti di quartiere non ha né il carisma né la presenza scenica della Colau. Se questi possono considerarsi fattori secondari, non lo è il fatto che Rabell non ha alle spalle un progetto politico proprio come aveva la Colau con Guanyem e precedentemente con la piattaforma antisfratto. Non lo è nemmeno il fatto che la presenza territoriale della lista è ridotta alla struttura delle sole ICV e EUiA, che Podemos in Catalogna è ancora per il momento un’astrazione intellettuale e che il movimento Procès Constituent non ha appoggiato la lista. Quello che sembra essere incompatibile alternativamente per JPS e CSQEP nel caso della CUP diventa il doppio binario centrale di un programma di rottura con lo stato e con le classi dirigenti, in cui una Catalogna indipendente dovrà rompere con il sistema di privilegi e ingiustizia generato dall’organizzazione capitalista del lavoro. I due aspetti del programma della CUP, la disobbedienza alle leggi spagnole e un processo costituente per la riappropriazione della sovranità sociale e nazionale capace di estromettere dal potere le classi dirigenti, rappresentano l’unica alternativa anticapitalista in lizza in queste elezioni catalane, oltre che un’eccezione a livello europeo.

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Le opportunità di trasformazione e cambiamento dello statu quo se le giocheranno queste tre liste, quindi. Una lista trasversale indipendentista (dal centro-destra liberal-democratico alla sinistra socialdemocratica) ad egemonia socialdemocratica ma che esprimerà un presidente liberaldemocratico, una lista di sinistra alternativa neo-socialdemocratica e favorevole al dret a decidir ma non all’indipendenza e la sinistra indipendentista a fare da outsider, si contenderanno la vittoria elettorale. Tutto il resto sarà una battaglia per l’egemonia all’interno del nazionalismo spagnolo tra Cs e PP e i resti del PSC-PSOE ovvero i resti del tentativo di convivenza tra socialismo catalanista e socialismo spagnolo. I socialisti stanno riproponendo lo stesso discorso che fece (e non mantenne) Rodríguez Zapatero più di due lustri orsono: una riforma capace di accogliere la differenzialità catalana senza mettere in discussione l’unità della nazione spagnola. I popolari si sono affidati all’ex sindaco di Badalona, García Albiol, noto per le sue esternazioni e pratiche xenofobe, con l’obiettivo di fare breccia in un elettorato che in altri luoghi, come in Francia, è appannaggio dell’estrema destra. La formazione spagnolista giacobina ultraliberale Ciudadanos tocca con mano la possibilità di diventare il primo tra i partiti spagnolisti, egemonizzando il discorso dell’unità della patria in vista delle elezioni spagnole di dicembre.

Oltre questa prospettiva potremo leggere posizioni e letture di ogni tipo, classe e prestigio. Troveremo prestigiosi storici a favore del processo e altrettanto prestigiosi storici contro, intellettuali che mettono la loro faccia al servizio della conservazione dello statu quo o sua profonda riforma e intellettuali che firmano per la causa indipendentista. Non si tratta di una situazione dalla quale si esce con la dialettica o il prestigio di una firma bensì con l’apertura di un processo decisionale a 360 gradi in cui nessuna barriera della legalità dovrebbe agire da coercizione della volontà popolare, permettendo al plebiscito quotidiano di realizzarsi in tutta la sua profondità e generare così una nuova legalità, carica di una nuova legittimazione che oggi non c’è. Dire che non si può o che non è legale è una risposta inaccettabile democraticamente.

Stando a quanto ci consegnano i sondaggi il 27 settembre potrebbe essere la giornata del plebiscito imperfetto. Imperfetto perché le liste indipendentiste potrebbero non ottenere la maggioranza dei voti e forse nemmeno quella parlamentare in seggi. Imperfetto perché sancirebbe la dualità di sentimenti nazionali in Catalogna, cosa già nota ma che in questi anni ha visto uno spostamento dell’identità catalana verso una rivendicazione di uno stato proprio già fuori dalla Spagna. Imperfetto perché questa dualità renderebbe irrealizzabile il plebiscito quotidiano di renaniana memoria continuando a mettere in crisi l’identità nazionale spagnola. Quello che certamente sancirà il 27 settembre sarà l’ennesima materializzazione dello scontro tra la società civile catalana (intesa come massa critica di persone mobilitate) e lo stato-nazione spagnolo. Imperfetto perché potrebbe avere non già il significato di dare una sterzata verso l’indipendenza bensì riedificare le basi per un nuovo negoziato tra la Catalogna del 27 settembre e la Spagna del 20 dicembre. Quello che sembra aspettarci nei prossimi mesi è forse un orizzonte di negoziato all’interno del tentativo di ricondurre alla normalità una situazione di eccezionale e forse scomoda partecipazione civile. Potrebbe accadere però anche il contrario, nella forma del processo costituente dal basso in un orizzonte di crisi non già dello stato spagnolo quanto degli interessi economici che lo sorreggono e puntellano.