La modernità del paesaggio emiliano è uno strano concetto di abbandono

Una riflessione sul paesaggio emiliano/padano attraverso i testi di Giovanni Lindo Ferretti, Gianni Celati e le fotografie di Luigi Ghirri

di Matteo Pioppi

Ogni volta che vado in un posto nuovo, l’unica cosa dalla quale non riesco a prescindere è il paesaggio. Subisco il fascino delle zone industriali, delle periferie, delle prospettive degli edifici nei quartieri dormitorio e dei bar che li popolano. Credo che questo derivi dal fatto che sono nato in un paese, Scandiano (provincia di Reggio Emilia), ai margini del distretto ceramico, un paese senza grandi attività produttive ma con una grande settore terziario. Il mio paesaggio l’ho sempre riconosciuto nei cavalcavia, nei capannoni, nelle fabbriche, nei parcheggi vuoti e in tutto quello che poteva derivare da quell’immaginario industrializzato.

L’immaginario meccanico del paesaggio che vivevo quotidianamente l’ho ritrovato, da adolescente, nelle canzoni dei CCCP. I testi di Ferretti hanno iniziato a farmi ragionare su che cosa volesse dire abitare in Emilia.

Ne parlava come della periferia del patto di Varsavia, in un connubio tra politica, visioni oniriche e una certa volontà di far credere questo un posto speciale. Ma come tutti i posti, ho scoperto più avanti, ha tutto e niente di speciale. Canzoni come “Emilia paranoica” (il cui testo tutto è un manifesto esistenziale), “Live in Pankow” (Qua e di la del muro, l’Europa persa in trance/ In Alexander Platz, come in Piazza del Duomo [piazza Prampolini a Reggio Emilia ndr]/ L’Europa persa in trance ultimamente, i miei amici anche) e “Rozzemilia” (dammi una mano ad incendiare il piano padano/ provincia di due imperi/ provincia industrializzata/ provincia terzializzata/provincia di gente squartata ), hanno spietatamente contribuito a decodificare l’esterno che in quel periodo mi sovrastava.

Il mio immaginario, la mia presa di coscienza di quello che vedevo attorno stava prendendo forma. Nonostante la posizione di Scandiano le permetta di raggiungere posti molto più belli nel primo appennino in meno di trenta minuti, per una serie di ragioni, appena ebbi la possibilità di girare in motorino, le compagnie e le persone che frequentavo erano tutte localizzate nel contesto industriale del distretto ceramico. L’alienazione del lavoro, la fatica e tutto quello che derivava dal lavoro in fabbrica, aveva creato un tessuto fertile per un forte disagio sociale. Quest’ultimo faceva in modo che io non percepissi minimamente quello che di positivo c’era, ma solamente tutto il malessere e il lascito magmatico del lavoro salariato. Nei testi dei CCCP trovavo le narrazioni necessarie per non sentirmi isolato.

 

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Più tardi, leggendo i libri e i guardando i documentari di Gianni Celati, ho rimesso tutto in discussione, o meglio, ho dato un’altra possibilità al paesaggio. Ho contaminato la mia con un’altra visione, con un differente modo di percepire l’esterno. Quello che ha apportato Celati nella mia vita è stata la comprensione del paesaggio altro.

“Verso la foce” (Feltrinelli, 1989), uno dei suoi libri più belli, è un viaggio dentro a tutto quello che io ho sempre percepito ma che non sono mai riuscito a definire. È un libro pieno di corsi d’acqua, di malinconia e di tempo bloccato in mezzo alla storia senza la possibilità di una seconda opportunità.

Verso la foce è un libro breve, vivo, che nasce da una necessità di raccontare delle storie:

Questi quattro diari di viaggio […] li chiamerei racconti d’osservazione.

Viaggiando nelle campagne della valle padana è difficile non sentirsi stranieri. Più dell’inquinamento del Po, degli alberi malati, delle puzze industriali, dello stato d’abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, e infine d’una edilizia fatta per domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione – più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un’aria di solitudine urbana.

I quattro viaggi qui presenti narrano dunque l’attraversamento d’una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni.

Sempre di Celati, il documentario “Case sparse – Visioni di case che crollano” è un piccolo gioiello sugli effetti della modernità nelle campagne emiliane. Il punto focale del documentario è la figura di John Berger che, utilizzato come un moderno Virgilio, racconta gli infiniti paesaggi che la attraversano:

Questo è un film sulle case in rovina nella valle del Po, sui casali che crollano in abbandono in seguito ai cambiamenti nell’agricoltura e alla migrazione degli abitanti verso aree più urbane. […] quando ci accostiamo a quelle macerie non sappiamo veramente cosa pensare. In qualche modo sentiamo che c’è bisogno di nuovi concetti, di nuovi modi di pensiero che vadano d’accordo con la nostra percezione.

Le case che crollano rappresentano in un certo qual modo la modernità. Il lascito del moderno non sono gli edifici edificati con vetro e acciaio, non sono i nuovi distretti artigianali, non sono le varianti di valico né i raccordi autostradali. La modernità è uno strano concetto di abbandono, tutto indirizzato verso una vita nucleare che segue l’andamento contemporaneo di un’estetica del rinnovamento che mai deve mostrarsi fedele agli anni che passano:

Al giorno d’oggi, uomini e donne si restaurano la faccia cadente, cioè le facce che a poco a poco a causa dell’età crollano e diventano una specie di rovina. Poiché tutto ciò che porta il segno e le tracce del passar del tempo in qualche modo ci spaventa. E così le case che crollano sono sentite come una specie di malattia, una malattia che semplicemente è l’effetto del tempo che passa […] Data l’idea corrente della vita pubblica, cioè della vita intesa come un fatto spettacolare, c’è da aspettarsi che tutto quello che non vada d’accordo con questa parata, con questa idea di vita come spettacolo, dovrà essere cancellato, spazzato via, oppure restaurato, rinnovato con qualche tipo di chirurgia cosmetica

 

scandiano

 

La modernità risulta quindi implacabile. Grazie a queste piccole visioni ho iniziato a percepire il paesaggio ribaltando la mia, di visione, dimenticando di essere fedele ad un immaginario e riservandomi la possibilità di non prendere nulla come consolidato o perpetuo, riuscendo, in questo modo, a non mitizzare il territorio in cui vivo.

Questa nuova visione del paesaggio che piano piano si stava delineando, ci ha pensato di Luigi Ghirri e le sue foto a farmela apprezzare. Da esse emerge preponderante il perdersi nel quotidiano, l’abituare l’occhio a trovare la bellezza nei tragitti giornalieri, analizzarli, per riuscire a guardare quello a cui non badiamo e che tendiamo a sottostimare. Essenzialmente Ghirri fotografava quello che nessuno vuole mai guardare. Penso solo al progetto “Atlante”, una sorta di viaggio nel geografio-totale o alla sua idea di paesaggio come “luogo dell’attenzione infinita” in cui non si riesce mai a trovare “un punto definitivo per determinate un ambiente”.

Dal documentario “Strada provinciale delle anime” di Gianni Celati:

[…] il paesaggio è il luogo dell’attenzione infinita, in questo senso non riesci mai a trovare un punto definitivo per determinare un ambiente. In questo senso non è delimitabile e ha un specie di circolarità anche della visone che non finisce mai.

 

Ghirri-Modena-1973

 

La conoscenza di questi punti diversi, di questi ribaltamenti concettuali, dà un senso all’osservazione degli spazi.

Il paesaggio, poi, è quello che resta dopo tutto, resistendo anche ai conflitti della storia. Nomade a seconda del tempo che vive, non comprimibile a storicizzazione, a sedimentazioni narrative, a esaltazioni folkloristiche, a propagande campaniliste.

Il paesaggio ha resisto al crollo di tutto, avendo le capacità di essere narrato se guardato in modo obliquo.

Nel documentario “Sul 45°parallelo” di Davide Ferrario, a proposito di sguardi obliqui, viene intervistato il fotografo Attilio Concari:

Nella pianura padana non ci sono mai gli orizzonti. Gli orizzonti te li devi sempre andare a cercare, devi sempre salire su qualcosa per vederli. Il fatto di non vedere gli orizzonti, di doverli andare a cercare, fa si che tu ti muova.

Si prova cioè a crearselo questo orizzonte che non c’è, diventando nomadi, che non per forza è sinonimo di spostamento fisico da una parte all’altra di un territorio, ma può anche essere uno spostamento di sguardo sulla quotidianità. E forse è proprio da questa ricerca che derivano queste visioni, questi ribaltamenti di prospettiva e questa necessità, a tratti disperata, di un orizzonte possibile da raccontare.