This is Palestine

Vivere in West Bank tra demolizioni, formaggi e sottomarini

di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Un occhio su Gaza e uno sulla West Bank, è così che si vive in Palestina. Ne mancherebbe un altro per Gerusalemme Est. Non ti puoi distrarre un attimo, o meglio assisti, più o meno impotentemente, ad una vicenda dopo l’altra. Perché, è bene ricordarlo, come già scritto in queste pagine, questo è un conflitto che si gioca su molti fronti, e non deve essere una guerra numero mille a ricordarcelo.

Se quest’estate Gaza ha tirato il fiato, se così si può definire l’assenza di un ennesimo scontro armato in un contesto ormai invivibile, la West Bank, la riva occidentale del fiume Giordano, il nome geografico che identifica il territorio dello Stato di Palestina tra Gerusalemme e il confine con la Giordania, non ha avuto un attimo di pace.

Solo nel mese di agosto sono state demolite le abitazioni di 228 persone, di cui 124 bambini. Tutti gli edifici palestinesi privi di permesso su suolo fuori dalla giurisdizione dell’Autorità Palestinese sono infatti soggetti a ordini di demolizione.

Serve un permesso per allargare la casa, modificare l’aspetto esteriore, cambiare la destinazione d’uso, aggiungere una stanza o una aula scolastica. Di tutte le violazioni che avvengono quotidianamente, le demolizioni delle infrastrutture palestinesi sono una di quelle che devono essere tenute d’occhio e monitorate nel corso degli anni. L’emissione di ordini di demolizione è praticamente una costante nelle zone occupate ancora contese e sotto il controllo israeliano, Gerusalemme ed Area C della West Bank., data l’impossibilità di avere permessi. Al momento ci sono 11,000 ordini di demolizione pendenti. 13,000 persone che aspettano di rimanere senza un tetto sopra la testa da un giorno all’altro.

Noi che viviamo qui, che lavoriamo qui, e soprattutto coloro che ci nascono e vivono – e spesso muoiono, abbiamo smesso da tempo di stupirci e indignarci. Cerchiamo piuttosto di essere utili, di attivarci, in ufficio e fuori, e di far capire quale è il contesto politico, economico e sociale che rende possibile il verificarsi di questi eventi.

Ma cominciamo dall’inizio. La complessa geografia palestinese, una geografia in cui, come in nessuna altra parte del mondo, territorio e demografia non solo non coincidono, ma gridano aiuto, può essere spiegata con due esempi: il formaggio olandese, quello con i buchi, e il sottomarino.

Immaginiamo la West Bank come una fetta di formaggio olandese.

Secondo gli accordi di Oslo, che altro non erano che un accordo legale “temporaneo” in vigore dal 1994 per un periodo, cosiddetto di interim, di cinque anni, in attesa di essere sostituito da un accordo “finale”, i territori occupati e controllati da Israele alla fine della guerra del 1967, sarebbero passati sotto il controllo di una autorità autoctona creata ad hoc, l’Autorità Palestinese, una pre-istituzione governativa. Fatto il governo, bisognava quindi fare il paese, cioè lo stato palestinese. Il passaggio di consegne del territorio palestinese sarebbe avvenuto in varie fasi, man mano che la nuova autorità avrebbe costituito pieni poteri e “dimostrato” di avere capacità e funzioni statali.

Nonostante la buona fede dei negoziatori, come Yossi Beilin, l’inviato della delegazione israeliana a Oslo, spiega molto bene nel suo libro “Touching Peace”, rimanevano varie zone d’ombra. Da un lato si spingeva la creazione di uno stato palestinese partendo da un governo nominato, e forse poi non così rappresentativo, poiché Arafat e l’OLP tutta venivano da Tunisi, da Beirut, da Amman, da decenni di quella che è stata chiamata resistenza “dall’esterno”, sicuramente avulsa dalle realtà che portarono, nel bene e nel male, alla Prima Intifada. Un pre-governo che avrebbe avuto potere governativo solo e soltanto se avesse dimostrato di saperlo gestire durante l’interim. Dall’altro creava un vuoto normativo e legale non indifferente, poiché, in mancanza di uno stato palestinese e di un accordo definitivo, ogni singolo aspetto della gestione dei territori, del loro sviluppo economico, sociale, infrastrutturale, rimaneva sotto il controllo israeliano, e sotto le mille legislazioni precedenti ancora in vigore, da quella ottomana, a quella inglese, giordana – per la West Bank, egiziana – per Gaza.

Secondo Oslo, il territorio di West Bank e Gaza – perché Gerusalemme Est era stata già annessa con legge ordinaria da Israele nel 1980 e il suo status non fu mai oggetto di negoziazioni – fu diviso in area A, B e C. Le aree A, “Gaza and Jericho first” e le grandi città – Ramallah, Betlemme, Hebron, Jenin, Nablus, e le aree B, ovvero le aree maggiormente popolate dai palestinesi, i centri abitati, i villaggi, sarebbero subito passate sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (ma con gestione della sicurezza israeliana). L’area C, principalmente territorio agricolo e meno urbanizzato dai Palestinesi, e strategicamente importante, poiché include i confini, i bacini idrici, le zone agricole, le colonie, rimaneva in uno status non definito. Sarebbe passata all’Autorità Palestinese? Se sì, come e quando? Nel frattempo, rimaneva sotto controllo militare e civile israeliano.

In questo vuoto normativo, è stato facile modificare la geografia attraverso “fatti compiuti” ormai irreversibili. In 20 anni gli insediamenti non palestinesi si sono moltiplicati (150 settlements e 100 outposts è il dato più aggiornato): più di 340,000 israeliani vivono in area C, che costituisce il 64 % della sola West Bank, sottraendo, come si può immaginare, territorio, risorse, opportunità di sviluppo alla Palestina.

Perché, piccolo particolare, mentre l’area C è contigua, le aree A e B non lo sono.

Ecco allora la fetta di formaggio olandese, dove l’area C è la pasta, mentre le aree A e B (le B intorno alle A), sono i buchi. Non comunicano. Non sono collegate. La pasta e chi ci abita, i 341,000 coloni, illegali secondo il diritto internazionale, hanno riscritto la geografia rispetto ai buchi. Le bypass roads, da quella per Gilo e Beit Jala alla famosa 443 per Mod’in, che permette, ai non palestinesi, di saltare le curve e i lavori in corso della route 1, i soldati per proteggere i coloni, i campi agricoli per i coloni, le infrastrutture (acqua, elettricità, telecomunicazioni) per i coloni, le attività economiche dei coloni, dalle fattorie ai centri benessere, alle pompe di benzina, ai supermercati, hanno la priorità. L’area C ospita anche riserve naturali, no-fire zones e centri di addestramento militare. Guidando sulla 90, la strada che percorre la valle del Giordano da nord a sud, si scorgono hangar di droni, mentre guidando sulla 60, la strada centrale che va a nord verso Nablus e a sud verso Hebron, si avvistano vigneti, fattorie, campi agricoli. E soldati, tanti soldati.

E’ chiaro che in tale contesto, l’insediamento e i loro abitanti diventano una delle armi a disposizione dell’occupazione. Perché, se ai coloni fa comodo una casa, sussidiata, in campagna, al governo fa ancora più comodo che i coloni se ne stiano ben bene lì.

E come proteggiamo gli interessi geopolitici – confini, risorse, controllo – di chi questa geografia la controlla? Con il sottomarino.

Il sistema di chiuse di un sottomarino assicura che, nel caso si verificasse una falla in una cabina, si possano chiudere tutte le porte, isolare ogni stanza, ogni spazio, e contenere il danno. Allo stesso modo, il sistema di closures, cioè il nome in gergo di check-points volanti e fissi, di barriere, di strade vietate, permessi e residenze, in vigore in West Bank dal 2001, dalla Seconda intifada, come strategia – divenuta permanente – di repressione della stessa, permette di isolare perfettamente le comunità, le città, le famiglie, le attività economiche, le vite dei palestinesi le une dalle altre. La percezione, e purtroppo anche la realtà, è una evidente riduzione della vita di un palestinese medio a quella di un detenuto senza presunzione di innocenza, per andar di metafora.

Va da sé che demolizioni di case senza permesso e attacchi razzisti contro scuole, abitazioni, campi di olivi e greggi, da un lato, e frustrazione e violenza e rabbia dall’altro, rientrano tutte in questo contesto. Così come il nascere e ritrovarsi bloccati a casa propria, o peggio, con la casa demolita.

“Questa è l’occupazione”, dicono i palestinesi. L’occupazione dello spazio, l’occupazione delle vite altrui. La riduzione della vita quotidiana a una richiesta continua di permessi e approvazioni. L’occupazione della dignità. Del tempo. Delle libertà, di muoversi, di accedere a servizi di base come istruzione e sanità. Della libertà di crescere. L’occupazione delle opportunità, poiché in area C non si possono installare infrastrutture pubbliche o sociali, dai pozzi ai cavi di fibra ottica, dalle scuole alle case, dalle strade ai ponti dalle linee per i bancomat a quelle telefoniche. Il 4G della Orange, la compagnia al di qua del muro, va una meraviglia intorno alle colonie, mentre Jawwal e Paltel, le due compagnie palestinesi – non hanno l’autorizzazione per accedere alla banda larga, figuriamoci il 3G.

Qualche giorno fa è morta anche Reham, mamma di Ali e moglie di Saad, già morti bruciati dall’odio ormai un mese fa. In nome di Ali, a Douma, la città della famiglia, è stata realizzata una scuola. Un poster sul muro della scuola dice: “L’occupazione è il crimine più grande”. Ogni bambino che entrerà nella scuola sarà segnato da quel ricordo, scrive Gideon Levy in uno dei suoi taglienti ed amarissimi editoriali. E ricorderà il potere enorme dell’odio, quando nessun freno, argine, gli viene posto. È un messaggio enorme, con conseguenze devastanti. Se loro possono, possiamo anche noi? Vince il più forte? Vince chi odia di più?

L’impunità di chi vive nei territori palestinesi e appartiene invece allo stato occupante è uno dei grandi corollari dell’occupazione, e il più terribile. Quando gli incentivi all’odio superano quelli alla tolleranza, al rispetto, è evidente che è troppo, troppo tardi.

E’ tutto storto, tutto deviato, tutto sformato in Palestina. Le proporzioni non esistono, se da un lato i bambini sono messi in prigione con gli adulti e per loro vige la legge militare, mentre altri sono autorizzati a girare con i mitra appesi alla spalla, sul trenino metropolitano come all’ufficio postale. Se una parte ha bisogno di permessi per cercare un pozzo d’acqua e l’altra può mettere containers e bandiere a piacimento su ogni collina. A Gerusalemme nemmeno ne parliamo, che appendere bandiere palestinesi costituisce un reato. È facile fare la guerra quando il tuo nemico non è umano. E’ ancora peggio ucciderli lentamente, killing them softly, come dice la canzone, uno ad uno, costringendoli a demolire le proprie case con le loro mani, per evitare “i traumi ai bambini”, a rinunciare a viaggiare, studiare, curarsi.

L’Ihtilal è una grande pentola che bolle in continuazione, che genera dimensioni ancora più distorte, nemici che nemmeno si conoscono, meccanismi negativi, violenza e odio, da entrambe le parti. E’ causa e conseguenza, un circolo vizioso mortale che deve essere fermato anche quando ci sembra che i danni siano ormai irreparabili. E la parte che paga il prezzo più alto è, come sempre, quella più vulnerabile, chi ha meno potere, chi non può scegliere. A grandi poteri spettano grandi responsabilità, chissà se un giorno si capirà anche qui l’importanza di questo detto, che altro non è che lo Human-Rights Based Approach che detta i programmi umanitari e di sviluppo. Far in modo che chi ha diritto sia protetto, e chi ha la responsabilità di farlo rispettare, lo faccia, qualsiasi colore abbia la sua stanza dei bottoni.

“This is occupation, welcome to Palestine”, mi dicono sorridendo appena passato il checkpoint. “Ma non ti preoccupare”, mi rassicurano, “un giorno finirà”.