Una guerra mai finita

A due anni dal ritiro degli Stati Uniti il conflitto in Afghanistan è vivo più che mai. Un film lo racconta, un’inchiesta del NYT svela un nuovo scandalo

di Antonio Marafioti

Il dato di fatto è che in Afghanistan si spara ancora, si muore ancora e la guerra non è mai finita. Il commento al dato è che nessuno ne parla più. Perché la Nato e gli Stati Uniti, si sono ritirati da due anni e ciò è molto simile alla storia dell’albero che cade nella foresta e non fa rumore perché nessuno lo sente. Ma la guerra nel territorio della Repubblica Islamica ha un suono ancora devastante. Tell the spring not to come this year lo racconta senza lasciare spazio al dubbio. L’opera dei registi Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy è un’apologia della consapevolezza su un conflitto che dura da oltre dieci anni e che si alimenta di motivazioni e protagonisti sempre differenti. La critica ha dato ragione ai due cineasti, già vincitori del premio Amnesty alla Berlinale 2015 e del premio del pubblico al Human Rights Award. In Italia, l’opera, ottantadue minuti che incollano lo spettatore allo schermo, è stata proiettata al Milano Film Festival, categoria Colpe di Stato. È un film da vedere per almeno due buone ragioni. La prima, tecnica, è l’esclusività del materiale girato e montato. Farouki e McEvoy sono i primi filmakers ad avere ottenuto il permesso di portare la loro cinepresa dentro le azioni del nuovo Esercito nazionale afgano (ANA – Afghanistan National Army).

Embedded, integrati in gergo militare, al terzo battaglione di stanza ad Helmand, provincia meridonale del Paese. Da questo punto privilegiato i registi costruiscono una narrazione esaustiva e mai scontata della vita che scorre fra le fila dell’esercito.

Ne conoscono i membri, le loro idee politiche e personali, il loro stile di vita, il modus operandi durante le operazioni. Questo è uno dei tanti lasciti degli statunitensi insieme agli M16, gli Humvee e altri armamenti made in USA. C’è un registro militare, quello impartito nelle caserme del Pentagono e poi tramandato ai soldati afgani, che la pellicola ricostruisce grazie a immagini inedite. L’intimidazione, gli interrogatori, il rapimento, di fatto, dei civili sospettati di connivenza con il nemico; finanche le forze di polizia locale che vengono minacciate dai compatrioti militanti nell’esercito. È un’impreparazione totale e lampante che riporta la memoria agli anni Sessanta e ai soldati sudvietnamiti di Ngi Dinh Diem addestrati dagli uomini di William Westmoreland. Nel Sudest asiatico tutti avevano paura dei vietcong. A Helmand la Storia si ripete. Più di una volta il microfono di Farouky e McEvoy cattura espressioni come “se lì fuori ci fossero davvero i talebani saremmo già morti”.

Contrariamente ai proclami della Storia “ufficiale”, i guerriglieri afgani non sono stati mai definitivamente sconfitti; la loro guerra continua, invece, con sempre maggiore determinazione. Non mollano un centimetro, minacciano, si insediano e conquistano le armi della polizia nazionale, o locale, dopo averne assaltato e occupato le basi. Poi attaccano e uccidono.

Le telecamere dei due cineasti riprendono anche la morte durante un assedio a Sangin, con gli uomini del Terzo asserragliati in un rudere circondato dai talebani. Riusciranno a scappare e a portare il loro cecchino ferito nell’infermeria della caserma, ma questi morirà poco dopo. «L’esercito prende i poveracci e i mendicati e gli dice “servi la nazione”, poi li manda a casa avvolti in una bandiera e dà al popolo i suoi martiri. Soltanto che il lutto vero è quello delle loro famiglie», raccontano i militari intervistati dai filmakers. In realtà il lutto è ancora più grande e riguarda tutta la popolazione civile intrappolata nelle minacce fisiche e verbali delle due fazioni in lotta. Un militare che minaccia un contadino di bruciare il suo raccolto si sentirà rispondere: «Anche se protesto lo farai lo stesso, o mi ucciderai, non ti serve a questo il fucile che porti in spalla?».

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E qui si arriva alla seconda grande motivazione per vedere il film, quella politica. Sta tutta, o in buona parte, nel rancore profondo dei soldati nei confronti del Paese che ha iniziato tutto: gli Stati Uniti. Loro è la colpa di averli lasciati soli (il film viene girato alla vigilia della partenza definitiva delle truppe USA), e sostanzialmente impreparati, a combattere un nemico potente e con un gruppo ancora molto numeroso. Degli States è la colpa di aver depredato una terra per poi scappare alla fine del “raccolto”. Poi le critiche ad Hamid Karzai, l’uomo di Washington, giudicato inutile da alcuni soldati, reputato l’unica alternativa possibile ai talebani, da altri.
Infine i sentimenti contrastanti verso il proprio popolo che deve essere protetto, ma che può tradire quando meno ce lo si aspetta; che dev’essere interrogato e fatto parlare, ma non trattenuto in carcere e sottoposto a violenze. “Morirei per il mio popolo, ma non verserei una goccia di sangue per i nostri politici”, ammette uno degli uomini in divisa.
Il film acquista ancor più significato nelle ore in cui il New York Times rivela uno dei tanti scandali legati alla presenza statunitense in Afghanistan. È una storia di omertà all’interno dell’esercito resa nota da Gregory Buckley senior, padre del caporale dell’esercito, Gregory Buckley junior ucciso in un agguato nel 2012. In una delle sue ultime telefonate a casa il militare rivelò al genitore di aver sentito più volte gli uomini della polizia afgana commettere violenze di natura sessuale su giovanissimi connazionali. Era una pratica chiamata “bacha bazy” (gioco sui bambini) che consisteva nel farli vestire da ragazze, farli ballare per loro e alla fine abusare di loro sessualmente. “Li sentivamo gridare, ma non potevamo fare nulla”, disse Gregory al padre che, nel raccontare la storia al cronista del Times, ricorda le parole con cui il figlio giustificò l’immobilismo suo e dei suoi commilitoni: “i nostri ufficiali ci dicevano di guardare da un’altra parte perché queste cose fanno parte della loro cultura”.
La condotta degli statunitensi in guerra, invece, sembra essere il prodotto di una cultura a se stante. È un copione che si ripete da decenni. Un interesse, un pretesto, un’invasione, più e più danni collaterali, l’uso di militare di povera gente addestrata in modo approssimativo, la violenza sui civili, la conquista degli interessi di cui sopra, la partenza in massa, l’oblio delle proprie responsabilità.

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