La crisi dei rifugiati in Serbia

La società civile serba gioca un ruolo importante nel fornire ai rifugiati il necessario supporto durante la loro permanenza nel paese

di Tijana Moraca

Decine di migliaia di rifugiati, la maggior parte dei quali dalla Siria, stanno attraversando la Serbia. Hanno già viaggiato per più di 1.500 chilometri e, fino a poco tempo fa, cercavano di continuare il loro viaggio dalla Serbia fino all’Europa occidentale e settentrionale saltando, strisciando sotto o attraverso uno dei buchi nella recinzione di filo spinato al confine con l’Ungheria.
Da quando l’Ungheria ha criminalizzato gli attraversamenti illegali della frontiera e la polizia in assetto sommossa ha usato la forza per impedire ai rifugiati di entrare nel paese, questi ultimi stanno cercando una nuova rotta per l’UE attraverso la Croazia.

Ad eccezione di quei rifugiati e sfollati che cercarono protezione in Serbia in fuga dai conflitti armati nell’ex Jugoslavia negli anni ’90 e nei primi anni 2000 (in tutto più di 800.000 persone), la Serbia in genere non è un paese di destinazione nelle rotte migratorie transnazionali.

Al contrario, è un paese di provenienza – era la quinta per numero di cittadini richiedenti asilo nell’Unione Europea nel 2014 (dopo la Siria, l’Afghanistan, il Kosovo e l’Eritrea). Dal momento che motivo della migrazione è la pessima situazione socio-economica e non una persecuzione o una guerra, la gran parte delle richieste vengono rigettate come prive di fondamento. Il drastico aumento nel numero di “falsi migranti” come queste persone sono spesso chiamate, viene considerato un abuso del sistema che ha previsto l’abolizione dei visti garantito alla Serbia nel 2009. Da ciò sono nate le ferme richieste dell’UE alla Serbia di garantire una migliore sicurezza delle sue frontiere e di impedire un ulteriore afflusso di questi migranti indesiderati.
Tuttavia, la Serbia, essendo anche un paese di transito sulla rotta migratoria dal Medio Oriente e l’Afghanistan, è diventata uno dei punti focali della crisi migratoria attuale in Europa.

Circa 23.000 persone, in gran parte profughi siriani, sono entrati nel paese nell’arco di due settimane in agosto con un picco di 7.000 entrate in un giorno (secondo le stime della Reuters).

La Serbia è l’ultimo paese non appartenente all’Unione Europea sulla rotta che congiunge la Grecia e la Macedonia, con l’Ungheria, il più vicino stato Schengen. Pe prevenire l’afflusso di rifugiati sul suo territorio, l’Ungheria ha iniziato a costruire una recinzione di filo spinato in luglio che li ha obbligati a trascorrere più tempo in Serbia e aumentato le possibilità che fossero esposti al rischio di diventare vittime di trafficanti.
L’UNHCR e l’UE hanno in genere commentato positivamente il modo in cui le autorità serve hanno gestito la situazione, probabilmente alla luce di altre reazioni – oltre al vergognoso comportamento delle autorità ungheresi, anche la polizia macedone ha sparato gas lacrimogeni contro i migranti. Dall’altra parte la Bulgaria ha già costruito nel 2014 un muro al confine con la Turchia.

La società civile serba gioca un ruolo importante nel fornire ai rifugiati il necessario supporto durante la loro permanenza nel paese. Oltre alle immagini di migliaia di donne, bambini e uomini esausti, in gran parte concentrati intorno alla stazione centrale degli autobus di Belgrado, ci sono notizie incoraggianti sugli aiuti raccolti da individui o organizzati attraverso alcune delle piattaforme o delle organizzazioni ad hoc della società civile (queste reti in parte si sovrappongono).

Gli aiuti sono stati inviati anche dalle confinanti Bosnia Erzegovina e Croazia. Nel tentativo di evitare un approccio strettamente umanitario di invio degli aiuti, alcuni hanno cercato di organizzare attività come la colazione con i rifugiati o workshop per i bambini.
La necessità di supporto e la solidarietà dimostrata sono incontestabili.
Ugualmente significativa è l’osservazione di uno di coloro che hanno partecipato a queste iniziative, secondo il quale staremmo assistenza a una “reale” società civile (intesa in senso positivo come una rete di cittadini autorganizzati).
Tuttavia, questo tipo di aiuti rimarranno limitati nel loro scopo se non verranno sollevate alcune questioni strutturali e politiche più ampie. Una di questa sono le politiche migratorie UE, che consistono spesso in rivendicazioni contraddittorie su valori standard europei, e che non portano a decisioni. Le tiepide reazioni alla decisioni ungheresi di erigere una recinzione e alla violenza utilizzata al confine dalla polizia sembrano dimostrarlo. Lo stesso vale per lo stringente regime dei visti, a cui fino al 2009 era soggetta la Serbia, o l’attuale ruolo ambiguo dei paesi dei Balcani occidentali come “guardiani della frontiera”. Mentre le misure prese e le politiche delle strutture di governo UE evocano disappunto e incentivano dibattiti all’interno della stessa UE, questo non è il caso della Serbia.

Importanti associazioni che godono di riconoscimento internazionale come partner nei processi di democratizzazione e riforme si concentrano sui diritti civili e politici, protezione sociale (attraverso gli attuali concetti in uso nelle politiche come la riduzione della povertà o l’inclusione sociale), la posizione delle minoranze e in un senso più ampio la promozione dell’integrazione euro-atlantica.

Il supporto ai gruppi marginalizzati viene offerto sia attraverso la promozione di servizi di base o attraverso una miriadi di programmi “educativi” e di “capacity building” finalizzati all’integrazione sociale e all’ingresso nel (non promettente) mercato del lavoro. Mettere in discussione le cause della pesante situazione economica, le riforme strutturali, tra cui la flessibilizzazione del mercato del lavoro e i tagli di salari e pensioni, sono in gran parte assenti dalle preoccupazioni della società civile (con l’eccezione di rari collettivi di sinistra e di sporadiche attività dei sindacati). Inoltre, il settore civile è uno dei più rumorosi proponenti della necessità di una transizione da una Serbia arretrata (socialista e autoritaria) a una società “decente” e “normale” che dovrebbe culminare con l’ingresso nell’UE.
In questo contesto, non è sorprendente che generalmente in Serbia non ci sia alcuna significativa riflessione critica sul lavoro dell’UE articolato nella sfera della società civile, comprese le omissioni nella gestione dell’attuale crisi dei rifugiati.
Dall’altra parte, quello che viene messo sotto il tappeto dalla società civile viene usato con successo negli argomenti dei circoli definiti patriottici. Il movimento “Dveri” infatti afferma di non avere problemi con i migranti, ma con i doppi standard e l’ipocrisia dell’UE. La loro proposta è che la Serbia debba costruire un suo muro per impedire l’afflusso dei rifugiato, facendo esplicito riferimento alla pratica presente nell’UE.
Questo ha ricevuto risposte negative all’interno dei circoli della società civile (come dai funzionari del governo). Tuttavia, continuare a reagire solo alla demagogia dei nazionalisti locale è quanto mai futile se non si mettono in discussione criticamente le più ampie relazioni di potere e le discrepanze tra la retoriche UE sui “valori europei” e le sue pratiche attuali.

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