Il plebiscito imperfetto

Un punto di vista sulle elezioni catalane del 27 settembre

di Andrea Geniola

Alcune curiose premesse.

Le elezioni catalane celebratesi domenica 27 settembre erano state presentate dalle forze politiche e sociali indipendentiste come un plebiscito, come un surrogato di quel referendum che il governo spagnolo non ha permesso, con l’intenzione di contare i favorevoli e i contrari all’ipotesi della secessione della Catalogna dalla Spagna. Al contrario, le forze che si sono battute per l’unità della Spagna hanno ripetutamente affermato che non di plebiscito si trattava bensì di semplici elezioni regionali autonomiche per la gestione della politica locale.

Il carattere quasi referendario di queste elezioni è stato duramente combattuto in ogni maniera da questi secondi ma è stato di fatto assunto man mano che ci si addentrava nella campagna elettorale. Da questo punto di vista abbiamo assistito a discorsi di ogni tipo, spesso contraddittori, a volte surrealisti, ma che hanno pervaso l’attualità politica spagnola a tutti i livelli e non solo quella catalana.

Fino al punto che la questione è anche sbarcata nelle trasmissioni spagnole del corazón, di quella stampa rosa che frulla talk-show, reality, calcio, pettegolezzi e identità nazionale in un cocktail esplosivo ma estremamente popolare. Durante uno di questi programmi (“Sálvame”) è addirittura intervenuta sulla questione la soubrettina Belén Esteban, universalmente nota come la Princesa del Pueblo, che gode in Spagna di una popolarità certamente superiore a quella di molti dirigenti politici, Presidente spagnolo incluso. Questa ha affermato teatralmente che: “A Barcellona non gli possono dare l’indipendenza! Mi dispiace molto! La Spagna è di tutti!”.

Questo livello dialettico, accompagnato da una profonda mancanza di conoscenza dei benché minimi parametri della questione (l’indipendenza non la chiede Barcellona e la politica non è una partita di calcio) e condito con grandi dosi di sentimentalismo non è però appannaggio esclusivo di tronisti, nani e ballerine. Durante una rocambolesca intervista concessa all’emittente radiofonica Onda Cero il 22 settembre il Presidente del Governo spagnolo, Mariano Rajoy (PP), si smonta da solo uno degli argomenti più ripetuti dai contrari all’indipendenza, quell’uscita automatica dall’Unione Europea che lascerebbe i catalani senza diritti di cittadinanza né di libera circolazione nello spazio comunitario.

È bastata una domanda fuori programma fatta dal giornalista di turno per scoprire che il Presidente spagnolo non conosce articoli fondamentali della Costituzione la cui sacralità difende a spada tratta, e nello specifico quelli che regolano il diritto di cittadinanza. Questo forse perché, nel fondo, al PP la Costituzione interessa solo come arma e giustificazione per difendere l’unità della nazione spagnola piuttosto che come fonte di diritti civili (e tra questi quello di cittadinanza). Rajoy ha dimostrato di non sapere che la cittadinanza d’origine non può essere ritirata, come recita la Costituzione all’articolo 11.2, e che quindi i catalani il giorno dopo l’indipendenza conserverebbero automaticamente anche quella europea, come recita il Trattato di Lisbona all’articolo 9.

Questo ed altri episodi hanno certamente reso la campagna elettorale più amena e meno pesante, come le oramai celebri dichiarazioni dello stesso Rajoy a TV Girona di due giorni dopo in cui in un sovrumano sforzo dialettico per sostenere l’inconfutabilità delle sue tesi afferma che: “Guardi. Un piatto è un piatto, un bicchiere è un bicchiere”. A volte il potere oltre a mancare di autoironia non ha nemmeno il senso della vergogna, come nel caso delle dichiarazioni di Felipe González citate nel precedente articolo peraltro. Ciò non vuol dire che le questioni sollevate non siano di enorme profondità. In realtà la complessità della questione della transizione da uno stato all’altro e da una cittadinanza all’altra necessita di accordi, mediazioni e riconoscimenti internazionali. Non è questo il tema di questo articolo ma rappresenterebbe certamente un problema inedito per l’UE quello di un nuovo stato composto da cittadini con la doppia nazionalità (spagnola e catalana) e che non abbandonerebbero la prima fino a quando il nuovo paese non venisse riconosciuto e accettato come membro dell’UE.

Sempre nello stesso momento in cui governo e opposizione spagnoli negavano il carattere plebiscitario di queste elezioni si produceva un altro fatto curioso. Il parlamentare europeo del PP, Santiago Fisas, presenta il 21 luglio una domanda ufficiale alla Commissione Europea circa il possibile riconoscimento di una Catalogna indipendente da parte dell’UE. La risposta arriva giusto in tempo per essere usata in campagna elettorale, il 21 settembre. L’entusiasta e solerte Fisas ne diffonde immediatamente la versione in spagnolo, dove effettivamente si dice che una Catalogna indipendente rimarrebbe fuori dall’UE e che le decisioni di parlamento regionale non vengono riconosciute dalla suddetta istituzione.

Non passano nemmeno 24 ore e viene fuori il testo originale in inglese in cui si dice semplicemente che si tratta di una questione interna di un paese membro. Sulla vicenda la Commissione Europea stende un velo pietoso e dopo un’indagine lampo interna smentisce la versione spagnola dichiarando che si è trattato di un “errore umano”. Un “errore umano” consistente nell’aggiungere ben tredici righe a un testo di sole quattro telegrafiche linee. Il traduttore del testo nell’edizione castigliana non ha sbagliato quindi traduzione (le quattro righe erano perfettamente conformi) ma ha aggiunto (lui o chi per lui) tutto il resto.

Il testo manipolato viene anche usato dal Ministro degli Esteri spagnolo García-Margallo nel dibattito televisivo sul canale privato catalano 8TV con il Presidente di ERC Oriol Junqueras. Un dibattito televisivo che verrà certamente ricordato per essere stato l’unico dibattito a due con la partecipazione di un membro del Governo spagnolo. Ma le cronache più attente non dimenticheranno il fatto surreale che in piena campagna indipendentista il governo spagnolo abbia inviato a dibattere con uno dei leader dell’indipendentismo catalano proprio il Ministro degli Esteri e che questi paragonasse senza averne apparentemente coscienza alcuna in termini di conseguenze la situazione della Catalogna con quella dell’Algeria al momento della decolonizzazione.

MATERIAL-TARRAGONA

In molti si chiedono perché scomodare la Commissione Europea se si tratta semplicemente di elezioni “regionali”. La risposta è che non sono state delle semplici elezioni “regionali”. Ma c’è di più. Il 16 settembre il Re di Spagna Felipe VI si reca da Barak Obama per incassare l’esplicito e totale appoggio del governo statunitense all’unità della Spagna. In precedenza i leader conservatori di Gran Bretagna e Germania, Cameron e Merkel, avevano fatto altrettanto. Il 18 settembre scendono in campo le associazioni che raggruppano le maggiori banche spagnole, tra cui anche le catalane CaixaBank (ovvero La Caixa) e il Banc Sabadell, che dichiarano che in caso d’indipendenza lascerebbero Barcellona.

Il 21 settembre è la volta del Banco de España che per bocca del suo Governatore, Luis María Linde, afferma che una Catalogna indipendente dovrebbe ricorrere immediatamente a un corralito come quelli che hanno colpito Argentina e Grecia. Un’affermazione che lo stesso Linde ritratta il giorno dopo considerandolo impossibile. Forse una dimostrazione d’incompetenza forse un tentativo di frenare i sondaggi positivi a favore degli indipendentisti o più probabilmente una risposta indiretta al comunicato del Cercle d’Economia (entità espressione di vari settori produttivi ed imprenditoriali) che il 16 settembre aveva per la prima volta aperto alla possibilità di celebrare un referendum accordato con Madrid per uscire dalla situazione di stallo attuale.

Si tratta di un insieme di fatti e circostanze che dovrebbero far riflettere coloro che ritengo essere l’indipendentismo un prodotto esclusivo delle classi alto-borghesi e l’eventuale secessione un complotto ordito dal grande capitale per frammentare un grande e progressivo stato europeo. Stando alla realtà fattuale per come si produce parrebbe che una Catalogna indipendente non rientri invece nei disegni e desiderata del capitale finanziario. Va da se che ci sembra assolutamente surreale che i più alti responsabili del sistema bancario, dopo tutto quello che è accaduto negli ultimi anni, abbiano l’ardire di voler dirigere, non solo nell’ombra bensì alla luce del sole, l’elettorato con interventi di questo genere.

Abbiamo anche assistito alla convocazione da parte della Conferenza Episcopale spagnola di una giornata di preghiera a favore dell’unità della Spagna per il 25 settembre, due giorni prima delle elezioni. Nell’atto celebrato a Valencia dall’Arcivescovo Antonio Cañizares, questi definisce la Spagna come un grande popolo forgiato nei secoli nella vera unità, con riferimento all’intervento divino. Un po’ tutti i partiti contrari all’indipendenza hanno agitato il fantasma di un blocco nel pagamento delle pensioni, cosa peraltro inammissibile perché le pensioni sono una restituzione al contribuente di quote già pagate allo Stato e che a quest’ultimo hanno fruttato anche cospicui interessi.

Proprio in Spagna, paese storicamente di emigrazione come l’Italia, sono molti gli immigrati di ritorno, ad esempio ex lavoratori nell’industria pesante tedesca, che vivono con la pensione di un altro paese. È del 19 settembre la conferenza stampa in cui il Presidente della Lega calcio spagnola, Angel María Villar, dichiara che in caso di secessione il Barça verrebbe estromesso dal campionato. Tutta questa poderosa mobilitazione propagandistica, un tantino cialtrona per la verità ma al limite dell’intossicazione, solo per cercare di indirizzare il voto e spostarne i flussi in piena campagna elettorale sostenendo gli argomenti di popolari, socialisti e ciudadanos solamente per delle semplici elezioni “regionali”, che evidentemente non erano così normali.

Scende in campo “El País”

Risparmiando al lettore le esternazioni della stampa spagnola più cavernicola, che certamente meriterebbero una trattazione specifica tra l’analisi seria e la satira spassosa, ci soffermiamo ancora una volta su una delle voci più prestigiose della stampa progressista liberal-laburista spagnola, “El País”. Le posizioni che esprime hanno un indiscutibile rilievo dato che contribuiscono a formare gran parte dell’opinione pubblica progressista in materia, sia in Spagna che all’estero su questa ed altre questioni.

Il quotidiano ha portato una battaglia serrata che si è adnata trasformando man mano che si avvicinava la scadenza elettorale. Infatti, se in precedenza gli editoriali e articoli di fondo si erano concentrati sulla difesa della legalità contro i pericoli di violazione dello stato di diritto, il quotidiano ha progressivamente spostato il focus della critica, entrando in alcune questioni più di merito.

Non vi è dubbio alcuno che “El País”, lungi dall’essere osservatore imparziale interessato alla comprensione e analisi, sia una forza in lizza totalmente coinvolta (legittimamente per carità) nella battaglia per la difesa dell’unità della nazione spagnola. Il quotidiano è ad esempio uno dei maggiori sostenitori di uno dei luoghi comuni più diffusi del momento politico attuale, la considerazione di Artur Mas, attuale President della Generalitat, come artefice, responsabile e gran burattinaio di un indipendentismo che altrimenti si troverebbe a ricoprire un ruolo puramente folklorico sulla scena politica.

Tanta è l’avversione nei confronti di Mas che attorno alla vicenda dello scioglimento della coalizione di Convengència i Unió (CiU) – la colazione tra Convergència Democratica de Catalunya (CDC) e i democristiani di Unió Democratica de Catalunya (UDC) – che “El País” opta per elogiare questi secondi, dedicandogli addirittura l’editoriale del 18 giugno (La trituradora de Artur Mas) dove si legge che l’irresponsabilità di Mas ha provocato la distruzione della quasi quarantennale coalizione. Inoltre si considera la scelta di UDC come coerente, bandiera del catalanismo moderato, integratore e dialogante che vuole accrescere l’autogoverno e risolvere il contenzioso attraverso il patto e il rispetto dello Stato di diritto, contrapposta all’avventurismo indipendentista del President.

Sorprende questo improvviso amore per la parte più destra dell’ormai estinta coalizione ideata da Jordi Pujol. Un altro editoriale, quello del 19 settembre (De fracaso en fracaso), quasi anticipa le posteriori dichiarazioni e prese di posizione del mondo finanziario e imprenditoriale e le esternazioni dei leader mondiali contro il processo di autodeterminazione, insistendo sulla poca presa del messaggio indipendentista sui cosiddetti “settori produttivi”.

Di un manicheismo spaventoso è invece l’editoriale del 24 agosto (Secesión o pluralismo) in cui la contrapposizione tra i due termini, come se fossero inerentemente antitetici, serve da cappello a un appello alla mobilitazione del voto anti-indipendentista proprio per vincere quel plebiscito che si sosteneva non esistesse. Infatti in una successione perfetta di editoriali è possibile scorgere la campagna elettorale de “El País”.

In “Elecciones críticas” (20 settembre) si afferma appunto che le elezioni catalane del 27 settembre sono critiche perché mostreranno la volontà dei catalani. Un’accettazione de facto del carattere plebiscitario delle elezioni appena celebrate. Il 25 settembre un altro editoriale incalza iniziando una serie di appelli diretti al voto (A los ciudadanos de Cataluña – I): Sono elezioni autonomiche importantissime perché influiranno notevolmente sull’evoluzione della questione catalana, che vive un momento caldissimo, e perché rappresenteranno una cartina di tornasole per lo sviluppo della Spagna, del suo Stato e della sua società come insieme coeso, armonico e fattibile.

Progressivamente, nel dibattito politico spagnolo sulla questione catalana le osservazioni sulla fattibilità di una Catalogna indipendente hanno ceduto il passo al timore circa le chances di sopravvivenza della nazione spagnola e del suo progetto stato-nazionale senza la Catalogna. Un timore che si trasforma in ripiegamento ideale su sé stessi quando nell’editoriale si svelano le paure circa la debolezza del progetto spagnolo, coscienti del fatto che in un mondo sempre più aperto e difficile stare assieme moltiplica le forze e dividersi le sottrae.

Ben oltre la banalità aritmetica del teorema s’intravvede un’ideologia altrettanto escludente di quella che si cerca di criticare e mettere in crisi. Quali sarebbero questi nemici esterni e queste incertezze cui far fronte restando uniti? Gli altri stati-nazione europei nella pugna per l’egemonia all’interno dell’UE forse oppure quella porzione di mondo che preme alle porte dell’UE in cerca di migliori opportunità di sopravvivenza? Qual è il soggetto che deve restare unito per affrontare i pericoli della (post)modernità? La Spagna o l’Europa di Schengen? Quali sarebbero i soggetti da unificare?

Le regioni spagnole o gli stati europei? Probabilmente saranno tutte queste cose assieme. L’importante è però il fatto che la linea editoriale di questo quotidiano richiama a un ordine di valori e preoccupazioni che molto hanno a che fare con l’esclusione e la costruzione di frontiere di ogni tipo. In questo scenario le elezioni catalane sono di essenziale importanza e un loro risultato contrario a queste esigenze di prestigio e coesione patria (spagnola) potrebbe avere conseguenze irreparabili.

Quindi se da un lato il contenuto dichiarativo era quello di non accettare il significato plebiscitario delle elezioni del 27 settembre, come recita l’editoriale sono delle elezioni chiave però non sono un plebiscito, nella sostanza sì che lo sono come lo stesso testo afferma in seguito: Solo in un senso queste elezioni si potranno leggere come plebiscitarie: per coloro che gli assegnano un valore referendario, se gli elettori della lista segregazionista che pretende essere unitaria non ottengono la metà più uno dei voti, il processo di sarà impantanato.

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Detto in altre parole più terra terra, secondo “El País” le elezioni del 27 settembre sarebbero state un plebiscito solo se le forze indipendentiste non avessero vinto, in caso contrario non si sarebbe trattato di un plebiscito ma di normali elezioni “regionali”. Insomma, se vince l’opzione gradita al prestigioso quotidiano progressista allora sì che vale come plebiscito mentre invece se dovessero vincere le forze favorevoli all’indipendenza il plebiscito non sarebbe più valido. Certamente una maniera comoda di fare e disfare che poco ha a che vedere con il rispetto dei valori democratici.

Il 26 settembre appare sul quotidiano un’altra surreale visione della democrazia. Si tratta dell’articolo di Vera Gutiérrez Calvo “¿Una Cataluña si Barcelona?”. Surreale se debitamente contestualizzata, s’intende. Dopo che per anni questo quotidiano e i suoi articolisti hanno cercato in tutti i modi di argomentare il No a un possibile referendum di autodeterminazione, adducendo ragioni soprattutto di rispetto della legalità e dell’ordine costituito, questo articolo si lancia nella messa in discussione delle regole del gioco, non sappiamo quando consapevolmente e quanto dialetticamente calcolata.

Nell’articolo si sostiene, in primo luogo, che tecnicamente non si tratta di un plebiscito perché non ne ha le caratteristiche formali, cosa peraltro vera e sacrosanta. E infatti si tratta di un surrogato di plebiscito proprio perché le autorità spagnole non hanno permesso la celebrazione di un referendum vero e proprio. L’evidente anomalia non sta nel considerare queste elezioni come un plebiscito ma nel fatto che il referendum non si sia potuto nemmeno convocare. Il secondo argomento, però, è forse quello più gustoso tra i due.

L’autrice, dopo aver difeso a spada tratta la legalità e lo stato di diritto se la prende con il sistema elettorale, che permetterebbe a una minoranza di voti trasformarsi in una maggioranza in seggi. Ma non avevamo detto che le regole del gioco democratico erano sacre? Detto in altre parole, ancora una volta la legalità si difende solo quando fa comodo ai propri interessi. “El País” è capace di condensare queste e altre argomentazioni nell’editoriale del giorno delle elezioni, “Catalanes, a votar”.

Le affermazioni in esso contenute rappresentano un gesto di outing totale rispetto all’agone politico: Questo giornale non è favorevole all’indipendenza della Catalogna. Come dire, se non se n’è accorto nessuno fino a questo momento, ve lo diciamo esplicitamente. Però ancor più interessanti e utili sono le affermazioni che hanno l’obiettivo di spingere il lettore ad andare a votare e di farlo per forze del fronte del No all’indipendenza.

In primo luogo, troviamo qui le coordinate di quella che potremmo definire come un’idea limitata, limitante e modulabile della democrazia: nessuno dovrebbe pensare che andando a votare trasferisce alla candidatura vincente la legittimità sufficiente a fare passi irreversibili. Detto in altre parole, che a nessuno venga in mente di uscire dal campo di gioco, votate pure ma le regole sono quelle delimitate altrove e sono innegoziabili. In secondo luogo, l’appello sentimentale all’unità della patria: La Spagna rappresenta il credo che popoli con identità differenti possano vivere assieme e Non è possibile rinunciare ai legami tanto culturali come emozionali.

Un credo e dei legami che per qualche motivo sconosciuto a “El País” sono entrati in crisi. Ma l’appello a fattori, spiegazioni e soluzioni emozionali è stato un elemento abbastanza presente nella lettura anti-indipendentista di questo momento politico. Qualcosa di veramente sorprendente e un tantino deprimente se teniamo presente il patrimonio di studi odierno sulla questione nazionale e il suo livello di complessità e sofisticazione. In terzo luogo, un’offerta politica di apertura di un dialogo per la formulazione di un nuovo status che riconosca l’identità nazionale dei cittadini della Catalogna e il consolidamento delle sue prerogative di autogoverno.

Ma la domanda sorge quasi spontanea: non è forse troppo tardi dopo il fallimento del processo di riforma dello Statuto di Autonomia? Sullo sfondo di queste valutazioni e punti di vista c’è l’importanza di fondo che “El País” assegna a queste elezioni che sembrano essere qualcosa di più di un plebiscito, per assumere il valore di vero e proprio spartiacque politico-istituzionale e contestuale recupero dell’identità nazionale spagnola, sia verso l’interno sia verso l’esterno.

Il 19 settembre interviene nientemeno che il Presidente e fondatore del quotidiano, Juan Luis Cebrían, con l’articolo “Reconstruir el Estado” dove si denuncia il rischio che queste elezioni catalane nascondano quello che è il vero problema, perché il dibattito sul futuro di quell’autonomia ha nascosto un dibattito ben più importante, quello sul futuro della Spagna. Il suo avvenire sarebbe infatti in pericolo a causa dell’assenza di un progetto politico da parte dei leader politici nazionali, inclusi i partiti emergenti, che ci indichi con chiarezza cosa vogliono fare di questo paese. L’inquietudine di fondo è che la Spagna non abbia un ruolo definito sullo scacchiere internazionale e questa circostanza toglie il sonno a Cebrían che si smaschera qui in una performance tipica del nazionalismo di stato, del prestigio internazionale della nazione: vorremmo che ci si dicesse quale ruolo la Spagna e gli spagnoli devono avere nella società della globalizzazione e che misure istituzionali sono disposti a costruire per renderlo fattibile.

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Che senso e che origine può avere questa preoccupazione in piena vigenza della retorica sull’integrazione europea e sul crollo delle frontiere? Come può “El País” farsi portatore di discorsi antinazionalisti quando questi sono sub-statali come nel caso catalano e al tempo stesso mostrare sincera inquietudine per cosa ne sarà della Spagna nella tempesta della globalizzazione?

Ci pare d’intravvedere una preoccupazione di fondo, piuttosto, per i contraccolpi che una separazione della Catalogna potrebbe avere sulle mire della Spagna sullo scacchiere internazionale e nel campo della competitività economica. Con tutta probabilità quando un difensore dell’unità della Spagna argomenta che una Catalogna indipendente sarebbe difficile da sostenere in realtà ciò che sta pensando è che la secessione sarebbe un disastro per la Spagna e per le multinazionali che sostiene e sorregge a livello globale.

Consideriamo importante insistere sulla linea editoriale di “El País” perché rappresenta un buon esempio di quel nazionalismo invisibile che si cela dietro la difesa della legalità e lo stato di diritto e che la sua principale caratteristica nel considerare nazionalisti solo gli altri e nazionalismo solo l’altro, spesso dall’alto di una superiorità morale, intellettuale, culturale e politica che rende un pessimo servizio alla comprensione della realtà.

In piena campagna elettorale alcune delle migliori firme di questo quotidiano hanno dato vita a un settimanale di riflessione, “Ahora”, che ha dedicato ampio spazio a servire il discorso del progressismo nazionalista spagnolo in questa campagna elettorale. Ad esempio, ci pare altamente ingannevole se non addirittura una manipolazione della realtà considerare non-nazionalista tout-court il voto anti-indipendentista, come fa lungamente Rosa Paz (El voto no nacionalista, clave en el resultado, “Ahora”, n. 1, 18 settembre 2015, p. 3).

Nello stesso numero, Francesc Arroyo colpevolizza l’indipendentismo per essersi scrollato di dosso un determinato linguaggio carico di connotazioni negative: Il gioco con il linguaggio è una costante del separatismo catalano che, lungi dall’autodefinirsi come tale, ha preferito far ricorso ai sinonimi: nazionalista, catalanista, difensore del diritto di autodeterminazione e del diritto a decidere, sovranista, sostenitore del processo (uno degli eufemismi più indefiniti possibile) e, per finire, indipendentista (El indepedentismo gana la batalla del lenguaje, “Ahora”, n. 1, 18 settembre 2015, p. 4).

Non vi è dubbio che esiste una battaglia del linguaggio e della semantica ma a questo gioco partecipano tutti i contendenti. Quello che disturba i redattori di “Ahora” come quelli di “El País” è che a livello di massa (negli studi nazionali questo è già avvenuto da tempo per fortuna) non funziona più il paradigma del buon nazionalismo “civico” contro quello “etnico”. Sarebbe certamente più comodo per la battaglia politico-culturale che porta avanti Arroyo poter assegnare in maniera indisturbata patenti di nazionalismo e non-nazionalismo secondo il suo criterio ma fortunatamente questo tipo di questioni hanno vissuto un processo di maturazione e in qualche modo si sono democratizzate.

Detto questo, troviamo sorprendente il fatto che il termine che Arroyo sembra scegliere come normativo sia lo stesso che usavano le autorità franchiste, quel fantasma del separatismo che serviva da categoria per inglobare tutto quello che differisse dall’idea nazionale del regime. Catalanismo, nazionalismo, autodeterminazione, indipendentismo, ecc., non sono affatto sinonimi di separatismo ma questo è certamente il termine meno appropriato per definire l’attualità delle questioni nazionali nel mondo di oggi.

Effettivamente coloro che scrivono su “Ahora” e seguono e articolano la sua linea editoriale hanno la capacità di andare più al fondo delle questioni, cercandone le origini, le motivazioni profonde. “El malestar del que se alimenta el independentismo”, di Manel Mancón (“Ahora”, n. 2, 25 settembre 2015, p. 4) fissa l’origine del problema catalano nelle capacità di nazionalizzazione alternativa a quella statale che avrebbe avuto l’autonomia catalana, nella responsabilità/colpevolezza di aver costruito una sorta di cittadinanza periferica usurpando così l’egemonia dello Stato-nazione in materia.

La lettura, in sé corretta, si tinge però di connotazioni negative e quasi complottistiche, in cui sembrerebbe quasi che l’indipendentismo attuale fosse una conseguenza diretta (che potrebbe anche essere) e intenzionale (interpretazione storicamente scorretta) della costruzione autonomica degli ultimi sette lustri. Un ruolo essenziale in questa costruzione l’avrebbe la televisione pubblica catalana alle dipendenze della Generalitat.

Questa la tesi di Arroyo che disegna i canali di radio e televisione pubblici catalani come degli organi di propaganda al servizio dell’indipendentismo (TV3: la nostra, pero no la de todos, “Ahora”, n. 2, 25 settembre 2015, p. 6). Non si può certo negare che le televisioni pubbliche di tutto il mondo siano al servizio dell’editore di riferimento cioè del governo di turno ma attribuire la crescita dell’indipendentismo alla propaganda di una TV che ha una quota di mercato che non supera il 30% ci sembra un po’ esagerato. Infatti, il restante 70% se lo dividono le televisioni spagnole pubbliche, al servizio del governo di turno a Madrid, e private, al servizio dei due potenti monopolisti che si sono spartiti il mercato dell’informazione, Mediaset e Atresmedia, la cui sensibilità politica è ben nota.

Paradossalmente, potremmo dire che il telespettatore catalano gode di un pluralismo informativo che nel resto della Spagna sarebbe auspicabile, anche se certamente perfettibile. Nelle trasmissioni e dibattiti politici di RTVE così come di Mediaset e Atresmedia la presenza di rappresentanti o difensori della causa indipendentista è quasi nulla e generalmente ridicolizzante. La crescita o popolarità di partiti come Podemos o (soprattutto) Ciudadanos si spiega in parte anche con la loro presenza quasi fissa in ogni tipo di dibattito sulle televisioni spagnole. Nel caso dei secondi con l’importante aggiunta dell’idealizzazione del partito di Albert Rivera come un eroico manipolo di “buoni catalani” che lottano per l’unità della Spagna.


Plebiscito o elezioni?

Tra le due letture in lizza nella definizione delle elezioni del 27 settembre, quella del plebiscito e quella della semplice seppur importante scadenza elettorale, abbiamo optato per una via intermedia, quella del plebiscito imperfetto. Si tratta di una definizione in uso tra alcuni giornalisti catalani ma che qui riprendiamo aggiungendovi una serie di significati in più. Per plebiscito imperfetto la stampa locale intende un’elezione che pur avendo un senso politico o una lettura referendaria non è un referendum dal punto di vista formale.

A questa definizione ci sentiamo di aggiungere alla luce dei risultati elettorali una serie di sfumature. La prima, le liste indipendentiste pur ottenendo una indiscutibile maggioranza di seggi (72 su 135) non fanno altrettanto in termini percentuali né per numero di voti (47,78% per un totale di 1.952.482 voti). Lo stesso “El País” non può ovviare questa realtà democratica (sì lo fanno altri quotidiani e mezzi d’informazione di Madrid) e afferma nel suo editoriale del giorno dopo che in quanto elezioni di speciale importanza il risultato è chiaramente a favore dell’indipendentismo (Derrota y victoria, “El País”, 28 settembre 2015).

La seconda, sulla base di questo risultato e sulla linea marcata in un certo senso dagli editoriali di “El País” a 24 ore dal voto, sono le forze proprio le forze contrarie alla lettura plebiscitaria a rivendicarne il senso di quasi referendum rivendicando la vittoria del No all’indipendenza, mentre sono le forze del Sì a mostrare una certa reticenza nei confronti della formula plebiscitaria, cioè del conteggio per numero e percentuale di voti ottenuti piuttosto che per seggi ottenuti.

La terza, che non esiste accordo non tanto sull’interpretazione del voto (cosa abituale) quanto sulla sua semplice lettura aritmetica. Infatti, se prendiamo in considerazione “El País”, questi fa una doppia lettura del risultato. Da una parte assegna la vittoria parlamentare all’indipendentismo mentre dall’altra scorpora percentuale e numero di voti ottenuti dagli indipendentisti, in piena logica plebiscitaria, con la conseguenza che il plebiscito avrebbe come risultato una vittoria delle forze contrarie all’indipendenza (51,69% per 1.964.350 voti).

Questa aritmetica incontestabile può avere però una lettura politica differente come quella che propone di quotidiano catalano “Ara”. Questa può essere letta come un ritorno alla difesa del diritto di autodeterminazione e celebrazione di un referendum, lasciando alle spalle il processo di secessione e Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza (DUI). “Ara”, le cui simpatie politiche in materia sono note quanto quelle di “El País” scorpora dal fronte del No quelle formazioni che sono favorevoli al dret a decidir per un risultato finale che vede il No ridursi al 39% circa (1.583.129 voti).

In ogni caso la proposta di “Ara” ci pare essere difficilmente sostenibile per diverse ragioni. In primo luogo, il contendere del plebiscito era “indipendenza sì/indipendenza no”. Catalunya si que es pot (SQP) non si è mai pronunciata a favore dell’indipendenza mentre UDC ha apertamente dichiarato che quello dell’indipedenza no era un orizzonte che contemplava. Ma i dati generali ci dicono anche altre cose. Ad esempio che i deputati a favore dell’indipendenza saranno due in meno rispetto alla passata legislatura, scendendo da 74 a 72.

Però bisogna anche dire che è la prima volta nella storia dell’autonomia catalana che delle forze politiche dichiaratamente e programmaticamente indipendentiste ostentano la maggioranza assoluta, seppur composta, nel Parlament. Nella precedente legislatura erano inclusi come a favore dell’indipendenza anche i deputati di UDC presenti all’interno del gruppo parlamentare di CiU. Inoltre, l’indipendentismo cresce per numero di voti assoluti, nel 2012 aveva ottenuto 1.740.818 voti. Una conseguenza questa dell’altissima quota di partecipazione, che con il 77,44% rappresenta il record assoluto di sempre nelle elezioni autonomiche, secondo in valori assoluti solo alle politiche spagnole del 1982.

Inoltre il voto si ridistribuisce all’interno dell’indipendentismo in maniera difficilmente interpretabile. Dal un lato la crescita della CUP fa spostare di molto a sinistra l’asse politico-ideologico dell’indipendentismo, dall’altro però l’esistenza della colazione Junts Pel Sí (JPS) rende molto difficile seguire questo tipo di discorso. I due seggi che ha perso l’indipendentismo li ha guadagnati il fronte opposto che ha visto una profonda redistribuzione interna del peso elettorale, dove la destra batte la sinistra per seggi, voti e percentuali, con un vantaggio di 9 seggi, quasi 300.000 voti e il 6% in più.

Se poi dovessimo estrapolare i dati di SQP, ottenendo così non un voto non-indipendentista ma apertamente anti-indipendentista otterremmo il significativo dato che più dei tre quarti di questo tipo di voto è di destra. Per quanto riguarda il numero reale di voti indipendentisti questo è praticamente lo stesso della partecipazione alla consulta del 9 Novembre dell’anno scorso.

Il complesso o forse eccessivamente semplicistico e di sicuro inedito asse sul quale si è svolta la campagna elettorale è certamente frutto di una certa egemonia di JPS ma non ci dobbiamo fare ingannare dalle apparenze. A questo gioco hanno giocato tutti i partiti in lizza, alcuni con dosi di discorso etnico molto più elevate. Il problema è che questo asse, quello del Sì o No all’indipendenza ci rende molto difficile riportare tutto sul terreno della dialettica destra-sinistra. Un obiettivo difficile, certo, ma non impossibile e che potremmo ottenere con un’osservazione più ravvicinata delle liste in lizza, dei loro programmi e della loro composizione interna. Cominciamo quindi da JPS.

Il risultato di questa amplia coalizione è, nell’indiscutibile vittoria ottenuta, deludente. Una coalizione composta dai due maggiori partiti (CDC con CiU ed ERC sommavano nella precedente legislatura il 44,41%, 71 seggi e 1.614.383 voti) più i fuoriusciti di UDC, importanti pezzi della diaspora del socialismo catalanista, partiti nazionalisti minori come Reagrupament e Solidaritat Catalana e soprattutto le due grandi entità della società civile che hanno riempito le piazze con manifestazioni gigantesche negli ultimi anni, l’ANC e Omnium Cultural, senza contare la partecipazione significativa d’importanti personalità della cultura, dello sport e dello spettacolo del paese (Lluis Llach, Pep Guardiola, Xavier Rubert de Ventós, Miquel Calçada, Elisenda Paluzie, ecc.), riesce solamente a guadagnare 2.500 voti nonostante una partecipazione record, o forse proprio a causa di questa.

Secondo il barometro di aspettativa elettorale elaborato dal quotidiano “Ara”, su una scala da Eccellente a Insufficiente i 62 seggi ottenuti, pari al 39,57% dei voti, sarebbero considerati Sufficienti ma non Buoni. I dubbi sulle reali capacità di sommare e moltiplicare che avrebbe avuto una lista unitaria dell’indipendentismo, e che hanno tormentato i lunghi negoziati precedenti, si confermano in toto. È lecito pensare che se le due culture politiche che formano JPS si fossero presentate da sole, il socialdemocratici da una parte (ERC, Mes e tutta la diaspora socialista) e i centristi dall’altra (CDC e gli ex UDC), forse avrebbero ottenuto più voti e più seggi. Ora, i dubbi sono due: cosa farà realmente JPS nel Parlament e come si riorganizzeranno le forze politiche che la compongono?

Per rispondere alla prima questione dovremmo aspettare due momenti chiave dell’inizio della legislatura come l’insediamento dei nuovi parlamentari e il processo d’investitura del nuovo President. Entrambi i momenti potrebbero segnare il cammino di quelle che, oltre il programma minimo di stampo vagamente neo-keynesiano, saranno le politiche reali che porterà avanti la coalizione. Come già sottolineato altrove, programma e composizione di JPS hanno molto poco a che vedere con la tradizione di CiU o con l’esperienza disastrosa del governo catalano uscente.

Come sottolinea l’ex deputato socialista Toní Comín, numero 11 della lista per la circoscrizione di Barcellona, il programma della coalizione sembra in molti aspetti quello della coalizione di governo tra ERC, socialisti e ICV guidata da Pasqual Maragall e che, tra le altre cose, elaborò con il 90% del Parlament a favore quella riforma dello Statuto di Autonomia che fu poi ripetutamente sfoltita a Madrid. Contenuti come la costruzione di una Previdenza Sociale e di una Agenzia delle entrate proprie si alternano a proposte concrete come quella di aumentare il salario d’inserimento professionale da 648 a 1000 euro o istituire un salario minimo garantito.

Inoltre la lista è disseminata di personalità che non si può certo definire di destra, alcune delle quali hanno anche un passato e dei trascorsi in partiti di sinistra, come l’ex presidente di Omnium Cultural, Muriel Casals (ex PSUC), German Bel e Marina Geli (ex deputati socialisti) o lo stesso capolista Romeva (ex parlamentare europeo d’ICV), solo per fare gli esempi più evidenti. Cosa faranno realmente i nuovi deputati? Ci saranno delle rinunce e quanti saranno dell’orbita socialdemocratica e quanti di fede liberal-conservatrice? Sapere questo sarà di fondamentale importanza per fare delle previsioni circa l’avanzamento del processo e le possibili alleanze di governo.

Al momento questa coalizione elettorale formerà un gruppo parlamentare unico però è possibile che emergeranno tensioni in futuro. Servirà anche sapere fino a che punto e fino a che limite la lista vorrà sostenere la candidatura di Mas come presidente piuttosto che una figura differente, meno identificata con i tagli, le privatizzazioni e la svendita del patrimonio pubblico della Generalitat a mani private.

Il President uscente si presenta come una figura a dir poco controversa ma in questa campagna elettorale gli abbiamo visto fare dichiarazioni che non appartengono alla sua cultura politico-ideologica. Nel 2002 dichiarava nel libro Què pensa Artur Mas che l’indipendenza è un concetto antiquato e arrugginito e che la sua preferenza andava per la costruzione di una Spagna che fosse plurinazionale organizzata attorno a quattro nazioni: Castiglia, Galizia, Euskadi e Catalogna.

Nel 2009, dinnanzi alle prime consulte autoconvocate per l’autodeterminazione affermava di non volere una consulta poiché evidenzierebbe che la Catalogna vuole essere spagnola. Certamente gli scenari politici posteriori hanno creato condizioni nuove e Mas è diventato un fervente indipendentista un po’ per necessità, per non restare fuori dallo contesto politico e poter continuare a gestire le istituzioni catalane in nome degli interessi che lo sostengono, un po’ per convinzione, dopo il fallimento della via della riforma dello Statuto d’Autonomia e della rivendicazione dell’autonomia fiscale non vi era più spazio politico.

Ora, il Mas che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni sembra essersi diluito e il suo partito quasi ibernato ma questa situazione non durerà a lungo. La necessità di non perdere la presenza tra le grandi masse di elettori mobilitati che offre oggi far parte dell’indipendentismo ha fatto fare a Mas passi inimmaginabili che prima o poi dovranno essere riassorbiti e modulati con la realtà politica a venire. Abbiamo visto in questi anni Mas, uomo d’ordine per sua stessa definizione, criticare la legalità, i poteri costituiti e, dopo il pronunciamento dalle grandi banche, fare appello alla sovranità popolare contro le ingerenze della finanza. È peraltro significativo che in questa campagna elettorale la lista di cui faceva parte il President uscente non abbia difeso affatto l’operato del suo governo. Anzi, il capolista Romeva ha più volte dichiarato che il futuro Governo dovrà fare altre cose rispetto al precedente e che in alcune questioni i deputati del gruppo potrebbero anche godere di libertà di voto.

A nostro parere sarà inevitabile osservare tensioni nei prossimi mesi all’interno di JPS sia sul fronte dell’emergenza sociale e delle politiche in questo senso sia su quello della messa in pratica della road map indipendentista. Da una parte le differenze tra le culture politiche presenti nella coalizione difficilmente potranno trovare un punto in comune in materia di politiche sociali reali.

Nascondersi, come ha fatto il governo di Mas finora, dietro il deficit fiscale nei confronti di Madrid per giustificare lo smantellamento di parti significative del welfare non sarà più possibile. Inoltre, dopo anni di tagli appare oramai chiaro a tutti che con le pur risicate risorse a disposizione della Generalitat si sarebbero potute fare politiche differenti, anche se questo avrebbe bisogno di forti dosi di coraggio politico. Dall’altra, il fatto di aver vinto le elezioni perdendo però il plebiscito mette in crisi la road map accordata dalla lista, che consiste nell’avviare un processo di sganciamento dalle istituzioni spagnole, con costruzione progressiva di strutture proprie e l’avvio entro 18 mesi di un processo costituente con la redazione di una costituzione catalana che una volta votata in referendum genererebbe una nuova legalità e permetterebbe la celebrazione di nuove elezioni politiche in cui i soci di JPS si presenterebbero in maniera separata e con progetti politici contrapposti.

È certamente vero che l’accordo politico che è alla base della coalizione prevede una serie di politiche di welfare e coesione sociale durante questi 18 mesi ma il procrastinarsi del processo potrebbe creare e alimentare nuove tensioni, sia interne che esterne. Continua a esservi tra le forze di JPS una certa tensione, per il momento celata, ad esempio sulla volontà o necessità di riaprire una via di negoziato con Madrid, una volta celebrate le elezioni spagnole a dicembre. E da questo punto di vista, non è la stessa cosa accontentarsi di una riforma costituzionale in senso federale con inclusa autonomia fiscale e competenze blindate in materia legislativa e culturale o, al contrario, voler celebrare un referendum per la secessione senza contemplare vie intermedie.

Mas e le forze che rappresenta firmerebbero in due minuti la prima opzione mentre i secondi no. Esiste però anche una terza questione sottotraccia che in questi fatidici 18 mesi si dovrà dirimere ed è quella della ridefinizione di uno scenario politico-partitico totalmente sfigurato rispetto a solo due anni fa. La riorganizzazione potrebbe avvenire su due linee che hanno l’ambizione di rappresentare un futuro bipolarismo catalano tra conservatori e progressisti, liberal-democratici e socialdemocratici, un centro-destra e un centro-sinistra entrambi con il pedigrì di co-fondatori della repubblica catalana. Con questa prospettiva all’orizzonte queste due aree di JPS potrebbero entrare in competizione per accaparrarsi l’enorme capitale politico e umano accumulato in questi anni dalla società civile (ANC, Omnium Cultural, Súmate, ecc.). Da questo punto di vista JPS rappresenta uno spazio di stasi, coltura e rifondazione dello scenario politico-partico catalano, ovviamente di una parte significativa di questo non del tutto.

L’ibernazione dei partiti maggioritari

Le rifondazioni sul tappeto sono quindi due: quella del centro-destra e quella del centro-sinistra. Dopo il divorzio tra CDC e UDC e lo scioglimento della coalizione di CiU il centro-destra catalanista è orfano del suo tradizionale referente politico. Ma non si tratta solamente di un’assenza formale, di una mancanza di una sigla di riferimento. La questione è più profonda. Durante questa campagna elettorale il discorso classico di CiU e del pujolismo non ha avuto molto spazio. In nessun momento della campagna i candidati di JPS hanno rivendicato l’operato né il percorso di CiU.

Ad una domanda diretta sul processo di rifondazione di CDC Mas ha risposto senza fare riferimenti espliciti alla coalizione per la quale è stato candidato e President: Lo vedo [il nuovo partito] come una coalizione di centro amplio, preoccupato per la crescita dell’economia. Un partito “bussiness friendly”, che difenda chiaramente una buona redistribuzione della ricchezza del paese e l’uguaglianza di opportunità. Un partito in cui ci sia posto sia per un centro-sinistra che per un centro più o meno tradizionale così come un centro-destra (Entrevista a Artur Mas, “Ara”, 20 settembre 2015).

Si tratterebbe di quello che i politologi chiamano un partito pigliatutto. Nulla di nuovo sotto il sole della politica catalana. La stessa CDC fu frutto a metà anni settanta della confluenza di diverse sensibilità politiche proprio su queste basi. La situazione di instabilità politica che si vive però rende necessario avere il tempo per portare avanti questa attualizzazione/rifondazione del partito di Mas, e JPS potrebbe trasformarsi proprio nel campo di battaglia per la ricostruzione di questo spazio.

Non è nemmeno da escludere che CDC possa optare per la formula della federazione con i fuoriusciti da UDC (circa la metà del partito) attualmente aggregati attorno alla sigla Democrates de Catalunya (DC). Insomma, una CDC rifondata che potrebbe dar vita a una CiU 2.0 senza però riferimenti espliciti all’estinta coalizione, oramai scomoda a causa dei casi di corruzione e la sua identificazione con tagli sociali e pratiche clientelari; anche se non bisogna mai dimenticare che all’attivo di CiU c’è storicamente la costruzione della Catalogna attuale, un paese che non è certo tra i peggiori al mondo.

Nel caso del centro-sinistra invece non si tratta di una vera e propria rifondazione bensì di una riorganizzazione in cui ERC aspira ad essere il fulcro del futuro partito socialdemocratico e laburista catalano, approfittando della crisi verticale dei socialisti del PSC-PSOE. In quest’area politica ruotano varie forze che integrano o appoggiano JPS. Da un lato vi sono forze prevenienti in parte da scissioni di ERC, come Reagrupament Independentista e Solidaritat Catalana per la Independència, e dall’altra la galassia di partiti e associazioni che hanno abbandonato in questi ultimi tre anni il PSC-PSOE (MES-Moviment d’Esquerres, Nova Esquerra Catalana, Catalunya Acció, Catalunya Sí, Avancem).

Il percorso di aggregazione di queste forze, che ha vissuto un primo esperimento alle ultime europee quando la lista guidata da ERC superò una CiU già in crisi, ha senza dubbio molto a che vedere con la volontà di recuperare pare del patrimonio della precedente esperienza di governo tra socialisti, ERC e ICV. Durante il percorso di dibattito e negoziato che ha portato alla costituzione di JPS il Presidente di ERC e numero 5 della lista pubblicava una proposta di alleanza per la repubblica catalana (Una Aliança per la República Catalana, “Ara”, 19 giugno 2015).

Il contenuto della lettera aperta rappresenta in realtà la base del programma frontista e di coesione presentato alla fina dalla lista unitaria. Su queste basi si potrebbe venire a rilanciare per mezzo di nuove incorporazioni la stessa ERC o potrebbe rappresentare la base di un nuovo soggetto politico o alleanza elettorale per il dopo JPS. Rappresenterà certamente un punto di frizione tra quelle che potremmo definire come le due anime del futuro gruppo parlamentare.

Inoltre, il fatto che Mas strizzi l’occhio all’integrazione nella futura nuova CDC di personalità di centro-sinistra potrebbe assumere la forma della vera e propria OPA nei confronti del progetto di Junqueras o, in un’ottica opposta e sulla base del programma di JPS, potrebbe essere evoluzione “naturale” della lista quella di conformare un’offerta politica integrale di centro-sinistra moderato di tipo liberal-laburista britannico. È molto improbabile che tutto questo insieme di fattori non crei tensioni all’interno della lista, soprattutto se il processo si impantana e i tempi si allungano, e la prima prova in questo senso sarà il processo d’investitura del President.

Chi probabilmente non rientrerà nei piani di rifondazione del centro catalanista sarà proprio l’altro socio dell’estinta CiU, quella UDC che dissanguata dalla rottura della corrente indipendentista interna ha affrontato delle elezioni sapendo perfettamente che aveva poche possibilità di entrare in parlamento. Il partito democristiano ottiene solo il 2,5%, pari a 102.594 voti, e resta fuori dal Parlament dopo essere stata una forza di governo per svariati lustri. La vicenda di UDC è paradigmatica della crisi in cui versa il centro-destra catalanista.

Nel giro di soli quattro anni CiU prima ha perso voti fino ad essere sorpassata da ERC e poi si è sgretolata proprio a causa dell’accettazione o meno di una politica apertamente indipendentista. Dopo continue tensioni, a giungo UDC si è spaccata in due tronconi praticamente di uguale peso e la decisione degli ufficialisti di abbandonare il carro dell’indipendentismo ha provocato lo scioglimento di CiU, lasciando le classi dirigenti e imprenditoriali catalane senza più alcun riferimento politico visibile. Su questa base UDC ha ordito una campagna basata non tanto sulla rivendicazione dell’antica tradizione del partito (il più antico della Catalogna assieme a ERC) la cui continuità veniva contestata proprio dai fuoriusciti di DC bensì sulla difesa e accaparramento del patrimonio politico di CiU.

UDC si è quindi presentata agli elettori come l’erede del pujolismo, cioè di un catalanismo non indipendentista e disposto ad appoggiare il centro-destra spagnolo contro le sinistre. Si è anche presentato come una diga “sensata” contro l’indipendentismo “radicale antisistema” contro il quale rivendica semplicemente la via dell’aggiunta di una Disposizione Addizionale alla Costituzione spagnola che costituzionalizzi l’autonomia fiscale e l’identità nazionale per la Catalogna.

La vicenda di UDC ha meritato l’attenzione di “El País” che attraverso uno dei suoi maggiori collaboratori in Catalogna ha affermato che questo partito presta un servizio ai sostenitori di un nazionalismo moderato cercando di far sopravvivere l’essenza di CiU (Xavier Vidal-Folch, Destruir Convergència, “El País”, 15 giugno 2015). Sulla vicenda lo storico Borja de Riquer ha messo in risalto come UDC avesse sempre avuto al suo interno due anime: una più catalanista e social-cristiana e l’altra più tradizionalista, conservatrice e poco propensa ad avventure nazionalistiche fuori dal contesto ispanico (Les dues ànimes d’Unió, “Ara”, 21 giugno 2015).

Nelle interviste concesse dal suo capolista ed exMinistro degli Interni della Generalitat, Ramón Espadaler, emerge una critica di fondo a CDC per il fatto di aver abbracciato una causa indipendentista egemonizzata dalle forze di sinistra che potrebbe mandare in crisi qualsiasi progetto moderato e conservatore (“Ara”, 16 settembre 2015; “El País – Catalunya”, 23 settembre 2015). A quanto pare l’indipendentismo e il processo di autodeterminazione più che rappresentare un punto di forza egemonizzato dalle forze della conservazione contro le classi popolari quello che sta producendo, al contrario, è la crisi dell’espressione politica delle classi dirigenti, dell’alta borghesia, delle forze imprenditoriali e finanziarie. Almeno stando alla realtà fattuale.

Per cercare di capire il futuro possibile di UDC bisogna però fare un salto indietro fino al 1996, quando il leader di UDC e José María Aznar verificarono la possibilità di un accordo tra i due partiti sul modello di quello esistente tra CDU tedesca e CSU bavarese. Secondo le consultazioni informali le due sigle avrebbero dovuto lasciare spazio all’altra nei rispettivi ambiti di competenza; UDC avrebbe fatto convergere i voti verso il PP alle elezioni spagnole mentre UDC avrebbe goduto dell’appoggio del PP per le elezioni catalane. Secondo alcune fonti, UDC progettava addirittura lo sgretolamento di CDC per egemonizzare l’intera CiU e appropriarsi di tutto il patrimonio politico ed elettorale della coalizione. Ironia della sorte, è accaduto il contrario e UDC è oggi un partito “extraparlamentare” senza capacità d’influenza alcuna.

La stessa ipotesi del lontano 1996 sembra oggi improponibile. Da un lato il PP di oggi ha un appoggio di molto inferiore, oltre ad essere fortemente caratterizzato socialmente come partito anticatalanista. Dall’altro UDC non rappresenta quell’appetibile bocconcino che era nei lontani anni novanta. Una fusione fredda tra i due partiti in ambito locale potrebbe comunque prodursi sul medio e lungo periodo ma è necessario che il PP modifichi alcune parti della sua posizione circa la plurinazionalità della Spagna. Non è da escludere che la volontà ferma di presentarsi alle prossime elezioni generali spagnole, nonostante il pessimo risultato, serva anche a misurare le capacità del partito di raccogliere sul medio e lungo periodo parti dell’elettorato moderato e d’ordine delusi da PP e CDC, sperando contestualmente in un rientro in gioco della terza via intermedia tra indipendentismo e statu quo.

Sinistra di rottura o di alternativa?

Una delle vincitrici di queste elezioni è senza dubbio la Candidatura d’Unitat Popular-Crida Constituent (CUP), che passa dal 3,48% all’8,21%, che tradotto in numero di voti rappresenta un salto dai 126.435 del 2012 ai 335.520 di oggi. Secondo il barometro dell’aspettativa di voto i 10 deputati ottenuti, rispetto ai 3 della precedente legislatura, rappresentano la quota massima di aspettativa. Si tratta senza dubbio alcuno di un premio all’unica lista che ha compaginato questione nazionale, nella forma del recupero della sovranità popolare e fuori da discorsi identitari, questione sociale, opponendosi frontalmente ai nodi di fondo del sistema capitalista e di mercato, questione morale, con un codice etico strettissimo contro la corruzione, e questione di genere, interpretando il femminismo non come la mera rivendicazione delle pari opportunità bensì come ottica suscettibile di ribaltare e ridefinire anche umanamente i rapporti sociali, politici ed economici.

Il programma della CUP è frutto di un lungo processo di dibattito a livello di movimenti di lotta e sociali di base iniziato nell’autunno del 2014 con la Trobada d’Unitat Popular (Incontro di Unità Popolare) e il documento Crida Constituent (Appello Costituente). Storicamente la CUP rappresenta due cose: l’espressione elettorale della sinistra indipendentista e anticapitalista e il salto alle istituzioni autonomiche del municipalismo di base fatto di sperimentazione della democrazia diretta e partecipativa durante lunghi anni. Questo ha probabilmente reso la CUP capace di interpretare il nuovo momento politico catalano non solo come rivendicazione di massa a favore dell’indipendenza ma anche come momento di rottura del modello socioeconomico dominante e un’occasione per ricostruire ambiti di partecipazione diretta e sovranità popolare in un processo costituente con la potenzialità che questo crei “dal basso e da sinistra” una nuova legittimità, un nuovo potere popolare basato sulla partecipazione diretta, la non-delega e l’uguaglianza sociale.

Secondo l’ex-deputato della formazione, Quim Arrufat, Il carattere plebiscitario e costituente delle elezioni del 27 settembre non è tale perché qualcuno lo abbia deciso ma trae origine e forza dal processo di accumulazione e di attivazione popolare di questi ultimi anni; non è un caso infatti che la grande federazione fino ad ora egemonica e al servizio della borghesia, CiU, sia saltata per aria, obbligando CDC a ricorrere per semplice sopravvivenza a forzare un accordo con ERC (Plebiscitarias y constituyentes, “La Marea”, n. 30, settembre 2015, p. 35).

L’esistenza di una lista di questo genere solleva (soprattutto in Italia) una serie di dubbi circa la compatibilità tra identità nazionale e identità di classe che sono più la conseguenza di una cultura politica mono-identitaria, giacobina e incoscientemente nazionalista nel fondo che altro. Significativa da questo punto di vista è la risposta che il capolista Antonio Baños da sull’argomento nell’intervista concessa a “Il Manifesto” il 26 settembre: Ma noi non siamo nazionalisti.

Perché voler avere uno stato deve essere nazionalismo? Si tratta di sovranità popolare. Parlare di sovranità popolare e di disobbedienza per la CUP significa parlare soprattutto di uno scenario di ribellione democratica generalizzata in cui bisognerà prima fare leggi proprie di protezione sociale e recupero dei cosiddetti “beni comuni”, difesa della popolazione contro i soprusi del sistema finanziario e di mercato, ecc. ma bisognerà anche difenderle con la disobbedienza attiva e il supporto della legittimità democratica e popolare.

Facendo un esempio concreto, le istituzioni, la società, la popolazione catalana avrebbero dovuto disobbedire attivamente dinnanzi alla sospensione da parte del Tribunale Costituzionale della Legge contro la Povertà Energetica approvata dal Parlament e che prevedeva una moratoria nel taglio di luce e gas per quelle famiglie e persone che non sono più in grado data la loro condizione economica di pagare le bollette.

In un’intervista la candidata per la circoscrizione di Barcellona, Anna Gabriel, sottolinea che è necessario affermare che sei indipendentista per una questione che ha a che fare con un rispetto profondo per la democrazia, per i popoli e per i diritti collettivi e che l’indipendenza non ha nulla a che vedere con una questione d’origine (http://www.vilaweb.cat/noticies/anna-gabriel-a-la-cup-ens-votara-gent-que-enten-que-en-aquest-moment-cal-claredat-i-valentia/). Sulle questioni di origine è entrato anche Baños durante la campagna elettorale, voce autorizzata in materia anche perché membro della piattaforma d’indipendentisti castigliano-parlanti Súmate.

Afferma che l’indipendentismo non è più identitario, non ha più nulla a che vedere con dei sentimenti di appartenenza che si basano nel sangue ma che affondano le proprie origini nel luogo in cui vivi, dove fai crescere i tuoi figli, tra i vicini di casa. Diventi indipendentista perché vedi i container dove studia tuo figlio, le code all’ospedale e osservi la precarietà democratica dello stato spagnolo (Entrevista a Antonio Baños, “Ara”, 30 agosto 2015). Un altro elemento di profondo interesse è il tipo di sinistra che rappresenta o vuole rappresentare la CUP come sinistra di rottura rispetto alle sinistre di alternativa recentemente in auge in alcune zone d’Europa. Da questo punto di vista la polemica nei confronti delle formazioni post-comuniste ed eco-socialiste come Iniciativa per Catalunya è frontale.

Loro vogliono fare politiche di correzione del capitalismo ma non mettono in discussione l’essenza del sistema capitalista (Entrevista a Antonio Baños, “Ara”, 30 agosto 2015). Più contundente l’opinione di Gabriel: Vedere come determinate sinistre hanno dimenticato così velocemente chi sono e dove sono grazie alla gente… attualmente non hanno nulla a che vedere con gli interessi popolari. È doloroso (http://www.vilaweb.cat/noticies/anna-gabriel-a-la-cup-ens-votara-gent-que-enten-que-en-aquest-moment-cal-claredat-i-valentia/). Durante la campagna elettorale la CUP ha avuto il merito e l’intelligenza di surfare sulle onde degli assist che inconsapevolmente gli offrivano gli interventi del potere finanziario, delle istituzioni europee e delle esternazioni dei membri del PP a Madrid.

Alle minacce di uscita dall’Euro e dall’UE la CUP ha risposto che sarebbe una splendida notizia. Alle pressioni provenienti dalle associazioni dei banchieri e del Banco de España ha risposto che bisognerebbe nazionalizzare le banche. Quando dalle fila socialiste è venuto l’argomento che una Catalogna indipendente resterebbe fuori dalla NATO la CUP ha ricordato che sarebbe una splendida notizia, dato che in occasione del referendum sulla permanenza della Spagna nell’alleanza militare atlantica del 1986 in Catalogna vinse appunto il No. La CUP ha riservato il meeting finale di campagna per, ad esempio, criticare le privatizzazioni dell’acqua e della sanità, contro le quali JPS no si è pronunciata.

L’idea di fondo della CUP è che ci sono le risorse per ristrutturare e ampliare il welfare, garantire casa, sanità, educazione e servizi di qualità se solo si smettesse di svendere i beni comuni pubblici ai privati, trasformando così i diritti in occasione di profitto. Per poter liberare queste risorse sarà però necessario creare una nuova legalità dato che quella in vigore ha molteplici meccanismi per difendere la commercializzazione dei diritti e dei servizi sociali. È qui che interviene la questione nazionale come strumento per creare delle condizioni istituzionali nuove attraverso la secessione dallo stato spagnolo, principale garante della legalità attuale, inclusa l’autonomia catalana di cui è emanazione legale.

A queste differenze di fondo con JPS se ne aggiunge un’altra e non di poco conto. JPS ha la pretesa di costruire una transizione indolore e quasi paradisiaca da una legalità (la spagnola) all’altra (la catalana) mentre per la CUP si tratta di un processo di rottura che implica difficoltà e sacrifici e soprattutto una sistematica disobbedienza sia popolare che istituzionale nei confronti delle leggi spagnole. Questa differenza di fondo si condensa, anche e giustamente simbolicamente, nel rifiuto più volte ribadito da parte dei rappresentanti cupaires di votare l’investitura di Mas come futuro President.

La proposta postelettorale della CUP è quella di trovare un presidente altro, di consenso, magari tra le personalità elette nella lista di JPS che abbia come asse quello di ribaltare totalmente le politiche antisociali portate avanti dal gabinetto precedente e creare una nuova legalità de facto prima che de iure attraverso la disobbedienza sistematica delle leggi e disposizioni provenienti da Madrid. La CUP è stata l’unica formazione indipendentista che ha riconosciuto la sconfitta nel plebiscito ritirando di conseguenza la proposta di DUI e sostituendola con l’idea della disobbedienza istituzionale, cosa che difficilmente JPS potrà assumere. Nulla di nuovo dal punto di vista politico ma il risultato elettorale trasforma la CUP in attore principale dell’attuale momento politico creando il fatto inedito in Europa di una formazione politica anticapitalista che si ritrova al centro dello scenario politico, scomodo ago della bilancia nella gestione delle istituzioni.

Lo studio dei flussi elettorali del post-voto ha svelato che la CUP cresce esattamente su i due versanti che ha attaccato durante la campagna elettorale e, è necessario dirlo, in quel lavoro quotidiano de formigueta sul quale mesi fa la Segretaria Generale di Podemos in Catalogna, Gemma Ubasart, ironizzava come politica di piccolo cabotaggio. La candidatura ha raccolto il voto di sinistra e indipendentista che solitamente va in modo “utile” a ERC (molti elettori di questo partito non hanno gradito l’alleanza con CDC) ma soprattutto è cresciuta laddove la lista costituita da ICV, EUiA, Equo e Podemos ha perso voti rispetto ai risultati d’ICV-EUiA del 2012.

Esiste quindi un elettorato potenzialmente di SQP che dinnanzi all’indeterminatezza della lista guidata da Lluís Rabell sulla questione nazionale ha preferito optare per la CUP e un elettorato potenzialmente di JPS e SQP che dinnanzi al moderatismo (in diversi gradi) riformista delle due candidature ha optato per una soluzione più radicale e di base. Rappresentativo da questo punto di vista il caso di Gala Pin, consigliera della lista di Ada Colau per il distretto di Ciutat Vella, che alla vigilia delle elezioni rende pubblica una dichiarazione di voto a favore della CUP. Sebbene molti abbiano identificato SQP con Barcelona en Comú ed entrambe come una sorta di emanazione catalana di Podemos in realtà non era così. Di fatti il progetto di SQP nasce proprio sull’onda del successo della Colau a Barcellona ciononostante non ha funzionato, non poteva funzionare. E infatti il fallimento è stato totale e preoccupante per le sorti di una possibile alternativa di sinistra al governo della Generalitat.

Sulla base del 9,9% ottenuto da ICV-EUiA alle precedenti elezioni (359.705 voti per 13 deputati) le aspettative di voto di SQP erano elevatissime, da un minimo di 14 a un massimo di oltre 20 deputati, con la speranza di diventare la seconda lista più votata e possibile asse di un’alternativa di sinistra al Parlament. La realtà del voto è stata raggelante e SQP ha ottenuto l’8,93%, 364.823 voti e solo 11 seggi. Se dovessimo valutare i risultati solo in base a questioni aritmetiche potremmo dire che a ICV e EUiA la coalizione con Podemos ed Equo ha fatto guadagnare solo cinquemila voti, che in uno scenario di alta partecipazione si sono trasformati in una perdita secca di seggi e quote percentuali.

Le ragioni possono essere diverse, compresa quella dell’estrema polarizzazione del voto tra favorevoli e contrari all’indipendenza. Però è anche vero che la mancanza di definizione sulla questione nazionale e un vago populismo su quella sociale, entrambi in pieno stile Podemos va detto, sono stati una scelta cosciente e non improvvisata nella strategia di campagna di SQP. Questo perché la coalizione ha cercato il voto dell’elettore socialista scontento delle aree urbane un tempo feudo del PSC-PSOE.

In questo senso andava ad esempio l’appello al voto di figli e nipoti di immigrati dal resto della Spagna fatto da Pablo Iglesias durante un meeting a Rubí. Il significato era, in fondo, i socialisti vi hanno tradito, votate per noi. L’appello però non faceva i conti con la delicatissima questione della coesione sociale tra vecchi e nuovi catalani. Fatto a Madrid questo appello sarebbe stato preso per quello che era, un’apologia delle origini e identità delle classi lavoratrici e dei loro quartieri. Calato nella complessa realtà di un paese a identità complessa, con una lingua propria e una rivendicazione nazionale in corso, come la Catalogna, l’appello è suonato come un tentativo di separare i catalani in base alla loro origine. Da quel momento in poi la campagna di SQP è stata in salita.

La lista viola non è riuscita a rendere credibile e visibile la propria offerta di consulta referendaria e nemmeno la propria proposta di autonomia fiscale. Alcune proposte che si voleva fossero il colpo di scena della campagna non sono nemmeno state formulate perdendosi per strada, forse perché ritenute troppo rischiose. È il caso, ad esempio, della tanto attesa mossa di Iglesias verso il riconoscimento della sovranità della Catalogna di cui parlava Rabell durante la precampagna (Entrevista a Lluís Rabell, “Ara”, 6 settembre 2015). Questa non solamente non c’è stata ma è stata sostituita da una serie di eufemismi evasivi il cui contenuto andava verso un’altra direzione.

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Affermava il leader di Podemos a pochi giorni dalle elezioni: Noi non vogliamo che la Catalogna se ne vada dalla Spagna, però ci sembra che abbia diritto a decidere, e che la relazione giuridica tra Catalogna e Spagna la dovrebbero decidere i catalani (Entrevista a Pablo Iglesias, “El País”, 23 settembre 2015). Dire nella stessa frase che i catalani hanno diritto a decidere e poi affermare che si tratta di decidere che tipo di relazione giuridica potranno avere con la Spagna equivale a escludere l’eventualità che i catalani possano decidere di trasformare la Catalogna da regione spagnola a stato europeo. Nel manifesto diffuso in occasione della Diada di quest’anno ritroviamo llo stesso gioco dialettico: la libertà degli uomini e delle donne della Catalogna risiede nel poter votare in referendum che tipo di vincolo avere con la Spagna (Catalunya Sí Que Es Pot, Manifest de Catalunya sí que es pot per la Diada nacional de Catalunya, 11 settembre 2015).

Ancora più chiara l’affermazione di Gemma Ubasart: Rigenerare la Catalogna significa impiegare forze e intelligenze per realizzare un referendum per decidere che tipo di relazione e accomodamento vogliamo avere rispetto allo stato spagnolo (El cambio posible, “La Marea”, n. 30, settembre 2015, p. 34). Tradotto dal politichese spagnolo questa serie di affermazioni significa che l’unica cosa che i catalani potranno decidere sarà lo statu giuridico all’interno della Spagna. Per il resto e dentro l’unità spagnola tutte le opzioni saranno gradite e rispettate ma non oltre questa linea di frontiera. Molti altri però sono stati i fattori che hanno giocato a sfavore di SQP.

In primo luogo, l’essere apparsi come una specie di lista civetta di Podemos, talmente forte è stata la presenza dei leader viola durante la campagna elettorale. Podemos venderà bene nel resto della Spagna ma in Catalogna partiva da sondaggi che nel migliore dei casi la davano attorno al 7%, ben lungi dalla media spagnola.

In secondo luogo, e di conseguenza, l’aver consegnato la campagna elettorale di supporto a Rabell interamente a dei leader politici che hanno dimostrato di non conoscere affatto il campo di gioco, troppo preoccupati com’erano a fare pre-campagna per le elezioni politiche spagnole di dicembre.

In terzo luogo, aver scelto un candidato certo conosciuto negli ambienti delle associazioni di quartiere ma senza proiezione pubblica dimensione di lotta reale; la FAVB, la federazione delle associazioni di quartiere di Barcellona, è un’entità con un grande patrimonio di lotte alle spalle ma oramai è una realtà fortemente istituzionalizzata e cristallizzata.

In quarto luogo, la neutralità nella contesa da parte della sindachessa di Barcellona Ada Colau, più preoccupata di non dispiacere nessuno, pena l’ingovernabilità municipale, che impegnata a contribuire al successo della lista teoricamente più vicina politicamente.

In quinto luogo, non ha di certo aiutato il modo in cui sono state trattate le proposte di Procés Constituent, un gruppo che ha appoggiato la Colau e che avrebbe fornito solidi ponti verso alcuni gruppi di elettori non da disdegnare, e che alla fine si è tirato fuori dalla contesa. Per finire, SQP no è riuscita nemmeno a mobilitare quella parte di elettorato che in occasione della consulta del 9 Novembre dell’anno scorso aveva votato SI/NO, coloro che pur considerando la Catalogna come una nazione non vogliono che questa si costituisca in stato indipendente.

Esiste però a nostro modo di vedere un fattore centrale che attraversa tutte le questioni appena suggerite, ed è quello della cultura politica che Podemos ha inserito nella dialettica politica della sinistra di alternativa nel suo incontro con le contraddizioni proprie d’ICV.

In un articolo pubblicato su “New Left Review” prima dell’estate Iglesias illustra le caratteristiche essenziali di un programma politico di una gestione differente dello statu quo basata sull’inserimento di correttivi all’economia di mercato abdicando sine die a qualsiasi progetto di trasformazione profonda della realtà (Understanding Podemos, “New Left Review”, n. 93, maggio/giugno 2015, pp. 7-22). Un altro dirigente catalano di Podemos, Jordi Bonet, afferma che non trova errato che un’organizzazione con ambizioni di trasformazione sociale si costruisca dall’alto verso il basso, cioè a partire da un élite dirigenziale situata al di fuori delle lotte sociali e dei movimenti di protesta (http://www.vilaweb.cat/noticia/4230183/20150205/jordi-bonet-veig-cap-problema-podem-crei-dalt-cap-avall.html#).

E tornado alla strategia generale di Podemos, l’obiettivo essenziale sembra essere quello di arrivare al potere, accedere al governo utilizzando le armi della scienza politica applicate alla gestione della campagna elettorale per poi dalle stanze del potere indirizzare i cambiamenti che si ritengono opportuni e che, come già sottollineato, si caratterizzano come meramente correttivi. Gli inconvenienti di questa strategia sono oggi in Catalogna sotto gli occhi di tutti. Primo, si è lungamente proiettata una vittoria imminente che non solo non è arrivata ma che ha consegnato alla storia il terzo peggior risultato assoluto di una lista promossa da ICV o ad essa relazionata.

Secondo, senza vittoria e senza progetto socialmente articolato e politicamente visibile è molto più difficile passare l’inverno all’opposizione e senza relazione alcuna con i movimenti sociali. Oggi possiamo affermare con buone dosi di certezza che il successo di Barcelona en Comú non si doveva alla ventata di novità ed entusiasmo portata da Podemos bensì alla capacità politica di articolazione tra lotte reali (anche se passate) e obiettivi politici futuri. E possiamo anche riaffermare che proiettare una linea di continuità tra delle elezioni municipali e l’apertura di nuovi scenari globali è legittimo come discorso propagandistico ma poco credibile come lettura seria della realtà. I partiti componenti la coalizione SQP, assieme e nelle rispettive segreterie, hanno dinnanzi mesi di riflessione e tempo forse sufficiente per invertire questa tendenza negativa. Frattanto ICV, da parte sua, ha già convocato un’assemblea straordinaria per l’inizio dell’anno prossimo per rinnovare linea politica e direzione.

Prossima stazione, Madrid

Se i luoghi comuni della politica vorrebbero la mobilitazione etnico-identitaria come risorsa esclusiva di nazionalisti (periferici), indipendentisti e quant’altro queste elezioni (come altre per la verità) ci hanno consegnato i cosiddetti partiti costituzionalisti spagnoli (i partiti che in Catalogna sono contrari anche alla sola autodeterminazione) in alcune performances davvero rappresentative della fallacia della dicotomia normativa tra nazionalismo “costituzionale” o “civico” e nazionalismo “escludente”, “radicale” e l’infinita teoria di sinonimi usati alla bisogna. I partiti che rientrano in questa categoria e che rappresentano solo il 39,13% dell’elettorato catalano hanno infatti fatto ricorso in modi, intensità e forme diverse al voto etnico e al sentimento di appartenenza nazionale, quello spagnolo per l’esattezza, che pur essendo sostenuto da istituzioni civiche non è avulso da manifestazioni cavernicole e appelli alla difesa della bandiera.

Ad esempio in questa campagna il PSOE ha fatto circolare un video in cui si invita a far votare per l’unità della Spagna i parenti emigrati in Catalogna, facendo appello alle origini andaluse o galiziane contro l’identità civica di accoglienza, quella catalana in questo caso. I candidati di Ciutadans (Cs) hanno ripetutamente utilizzato le loro origini andaluse per farsi campagna tra i figli e nipoti di immigrati dal resto della Spagna e drammatizzare le conseguenze di una separazione civico-politica tra Catalogna e Spagna. Il fatto di considerare dei figli di andalusi in Catalogna degli immigrati in eterno la dice lunga sul concetto di cittadinanza e integrazione che questi partiti hanno e che, con buona pace delle loro differenze ideologiche, para condividano. Il PSC-PSOE ha fatto presiedere spesso i suoi meeting elettorali da un’enorme bandiera spagnola proiettata dallo schermo gigante alle spalle degli oratori.

Quindi non solo gli indipendentisti hanno fatto uso e abuso di bandiere e simboli nazionali. La cosa importante non è però l’uso in sé dei simboli ma l’obiettivo che s’intende raggiungere e l’ideologia che con questi si vuole difendere e diffondere. Di questo 39,13% dell’elettorato pari a 52 deputati su 135 la stragrande maggioranza è di destra; la somma tra PP e Cs arriva al 26,40% pari a 36 seggi. Un dato questo che dovrebbe fare riflettere, soprattutto se contrapposto a quello della composizione interna (socialmente attiva, politicamente di sinistra e culturalmente elevata) dell’indipendentismo di oggi.

All’interno di questa potente minoranza però in queste elezioni si è verificato un significativo rimpasto di egemonie. Infatti Cs è uno dei grandi vincitori di queste elezioni, essendosi affermato come primo partito unionista in Catalogna, grazie a un impressionante balzo in avanti per numero di voti, percentuali e numero di deputati. Cs balza dal 7,57%, con 275.007 voti e 9 deputati del 2012, al 17,91%, con 732.147 e 25 seggi, di oggi. Se prendiamo in considerazione i dati del barometro dell’aspettativa di voto Cs è l’unico partito a superare tutte le aspettative, oltrepassando il tetto considerato massimo di 20 deputati. Ma cos’è cosa vuole Cs? Si tratta di un partito che rappresenta un anti-catalanismo senza complessi né remore e che ha promosso aprendogli le porte del partito tutte le espressioni esistenti di avversione nei confronti dei capisaldi dell’identità nazionale catalana.

Una tendenza che li porta abitualmente a scendere in piazza con formazioni di estrema destra e neonaziste, con le quali condividono troppo spesso la piazza in occasione del Dia de la Hispanidad il 12 ottobre, ad aprire le porte delle proprie liste elettorali ad entità come Societat Civil Catalana ed affermarsi come punto di riferimento di ogni tipo di denuncia contro un’inesistente persecuzione del castigliano e dei castiglianoparlanti in Catalogna. A base di questi ed altri ingredienti Cs è riuscito ad affermarsi come secondo partito del nuovo Parlament erodendo la base elettorale di popolari e socialisti proprio grazie al proprio discorso nazionalista.

Molti elettori di PP e PSOE devono aver visto in Cs l’unico vero ed efficace difensore dell’unità nazionale spagnola. Nel caso dei socialisti però il travaso di voti è stato però più evidente e sanguinoso. Fino a poco tempo fa il PSC-PSOE era il primo partito dell’area metropolitana di Barcellona e il secondo partito in tutta la Catalogna con importanti roccaforti in cittadine molto popolate. La mappa del voto arancione si sovrappone in maniera quasi totale a quella che fu un tempo la mappa del voto socialista. Un fatto che deve far riflettere circa la cultura politica che i socialisti hanno diffuso o contribuito a diffondere tra i propri elettori durante tutta l’epoca democratica.

Infatti dietro l’immagine giovane e rampante, meritocratica e legalista e, manco a dirlo, rigorosamente giacobina e “costituzionalista-unionista” Cs nasconde però degli inquietanti lati oscuri. In primo luogo, l’attività parlamentare del partito svela la sua reale natura e appartenenza ideologica, questione che i giovani leader del partito dimostrano di non voler affrontare. Cs ha votato quasi tutto quello che ha votato il PP in termini di politiche sociali, diritti delle donne e degli omosessuali, privatizzazioni, ecc.

In secondo luogo, pur facendo sfoggio di retorica democratica, non ha votato, uno gruppo parlamentare assieme al PP, la condanna della dittatura franchista e dei suoi crimini, passata comunque per amplissima maggioranza nel Parlament catalano.

In terzo luogo, nonostante una dichiarazione di trasparenza ed intransigenza nei confronti della corruzione già conta con alcuni casi di frode fiscale e reati simili tra i suoi componenti ma soprattutto conserva con grande gelosia i segreti del suo finanziamento volontario, a tutt’oggi indecifrabile. Inoltre Cs si è distinto come rimpiazzo di un PP oramai decimato da errori politici, incompetenza e corruzione.

Insomma, il presidente del Banc Sabadell, Josep Oliu, che circa un anno fa faceva pubblico il suo desiderio che ci fosse un Podemos de derechas capace di rigenerare il sistema politico nell’ordine e nella stabilità e senza contraccolpi di nessun tipo per i poteri forti. Ecco, pare proprio che Oliu abbia finalmente trovato ciò che cercava e non ci stupiremmo di trovare lui a la banca che dirige nella lista dei maggiori creditori e sostenitori di Cs.

Con l’avanzare della campagna elettorale i temi centrali di Cs si sono ridotti a due grandi cavalli di battaglia: l’unità della Spagna e la lotta alla corruzione. Due temi individuati come un trampolino di lancio per le imminenti elezioni politiche spagnole. Ma è nel meeting finale della campagna e nella notte dello spoglio che il suo leader (e futuro candidato alle politiche) Albert Rivera fa un salto rispetto al discorso preconfezionato per la candidata alla presidenza Inés Arrimadas.

La sera del 25 settembre in una piccola piazza di Barcellona (l’appoggio al partito non si mostra mai in grandi bagni di folla) Rivera si presenta come erede, allo stesso tempo, di Adolfo Suárez, Felipe González e José María Aznar, presenta Cs come l’unico erede dei valori dell’estinta Unión de Centro Democratico, il partito frutto della confluenza tra élite del regime franchista e settori moderati dell’opposizione antifranchista e, soprattutto, fa appello al voto per il partito per articolare una segunda transición per frenare l’indipendentismo catalano e riformare la Spagna.

Non si tratta di riferimenti casuali e nemmeno neutri: tre presidenti diversi, l’espressine politica dell’élite franchista e per finire uno dei cavalli di battaglia ella fondazione diretta dallo stesso Aznar, la FAES, che da tempo progetta e programma tempi e contenuti di un percorso di controriforme ricentralizzatrici per eliminare quelle concessioni che durante la transizione democratica si dovettero fare alle rivendicazioni dei nazionalismi periferici per integrarli nella costruzione dell’ancora instabile democrazia spagnola. Ma c’è di più.

Come dimostrava un articolo comparativo pubblicato alcuni mesi fa su “El País” il programma economico di Cs è la copia quasi esatta delle proposte fatte dalla FAES (Juan José Mateo, Gran parte del plan fiscal de Rivera coincide con el de FAES, “El País”, 28 aprile 2015). E dietro questa fondazione dall’innocuo nome di Fundación para el Análisis y los Estudios Sociales si nasconde il think tank neoconservatore dell’area più destra del PP. Tra le altre cose il rampante Rivera è un ex militante dell’organizzazione giovanile del PP. In un climax ascendente di emozione collettiva Rivera afferma che non c’è nulla di più spagnolo che essere di Ciutadans in Catalogna, come se si trattasse di una trincea di guerra dove si ottengono i galloni di grande difensore della patria minacciata.

Ed effettivamente, a scrutinio oramai chiuso, mentre Arrimadas chiedeva le dimissioni di Mas e nuove elezioni non plebiscitarie, oramai sicura di poter competere alla pari con CDC ed ERC per il ruolo di partito di maggioranza relativa, Rivera dichiarava che è Ciutadans chi ha scongiurato la rottura di questo paese, riferendosi alla Spagna ovviamente. Un merito che da solo può valere molti voti in vista delle elezioni spagnole, a dimostrazione della permanenza anche nelle identità stato-nazionali di forti dosi di nazionalismo intrinseco più o meno latente.

Il destino dei due partiti alle spese dei quali Cs è cresciuto è simile anche se non del tutto. Mentre il PP è sempre stato un partito marginale legato a piccoli comitati clientelari fortemente dipendenti dalle relazioni con il potere centrale il PSC-PSOE ha avuto un ruolo importante (nel bene e nel male) nella costruzione della Catalogna contemporanea e ha rappresentato fino a poco tempo fa una delle declinazioni possibili del catalanismo, almeno fino alla crisi generata dal fallimento del processo di riforma dello Statuto di Autonomia. Entrambi i partiti statali, attori fino a poco tempo fa di un sistema bipolare di alternanza a Madrid, sono oggi degli attori di secondo piano che si accontentano di risultati che potevano anche essere peggiori.

In questo senso le valutazioni del voto da parte delle due segreterie e candidati sono identiche. Ciononostante entrambi ottengo i peggiori risultati della loro storia in Catalogna. I socialisti ottengono il 12,72%, pari a 520.022 voti e solo 16 seggi. Magra consolazione è quella di essere il terzo partito in parlamento e aver ottenuto un buon risultato anche rispetto alle aspettative di voto della vigilia, comprese tra un minimo di 13 e un massimo di 19 seggi. Il PSC-PSOE solo nel 2003 aveva 42 deputati e il 31,2% dei voti. Ancor meno ragioni di soddisfazione dovrebbero avere i popolari, anch’essi ai minimi storici, con l’8,50%, pari a 347.358 voti e solo 11 seggi, che rappresentano anche la quota minima dell’aspettativa di voto della vigilia secondo il barometro di “Ara”.

In realtà quella del PP è una doppia sconfitta, una annunciata, quella di sempre, che condanna il partito della destra spagnola ad essere una sorta di espressione folklorica in Catalogna, e l’altra più cocente, che vede senza premio tanta durezza e fermezza nei confronti della rivendicazione indipendentista. Nemmeno la proposta di fronte parlamentare anti-indipendentista fatta dal candidato popolare Xavier García Albiol ha avuto esito.

La carta populista di presentare come candidato l’ex sindaco di Badalona, noto per le sue opinioni ed esternazioni xenofobe, non è servita per ottenere un risultato se non positivo almeno non così negativo. È servita invece a far conoscere meglio alcune opinioni circa ragioni secondo le quali si dovrebbero preferire gli immigrati latinoamericani a quelli africani, arabi, od orientali: la comune lingua castigliana e la comune religione cattolica come antidoti all’indipendentismo e all’invasione musulmana. Deve aver fatto molto male a García Albiol la presenza nella maggioranza di governo della “sua” Badalona di indipendentisti di origine araba a religione musulmana.

In una strategia di campagna costruita sul doppio binario della difesa ella nazione spagnola e del controllo dell’immigrazione secondo i parametri sopracitati, nemmeno l’appoggio diretto di Sarkozy, presente al meeting di chiusura di campagna ha potuto risollevare le sorti del PP catalano. Messo alle strette da una situazione decisamente ostile García Albiol ha timidamente cercato di ammettere qualche errore di durezza da parte di Madrid, evitando comunque di andare oltre, ed ha mostrato una costruita e poco sincera apertura nei confronti di un possibile dialogo, non potendo nemmeno fare offerte chiare, come quella dell’autonomia fiscale. Oggi il PP in Catalogna ha anche perso l’unica speranza che aveva di non essere condannato alla marginalità politica oramai sostituito in questo da un partito più giovane, più dinamico, meno condizionato da direzioni esterne e per il momento (relativamente) più pulito.

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Per quanto concerne invece i socialisti il problema risiede piuttosto nella poca ricettività della direzione di Madrid rispetto alle istanze che vengono presentate dei socialisti catalani. La riforma federale che il PSOE si è impegnato a portare avanti in caso di vittoria alle prossime politiche genera continue tensioni nelle relazioni tra direzione di Madrid e partito catalano. Questa differenza di vedute è emersa anche durante la campagna elettorale in forma di complicatissimi equilibrismi semantici e concettuali. Il partito catalano ha più volte parlato pubblicamente di riconoscimento della Catalogna come una nazione mentre voci autorevoli e nomi pesanti della direzione statale hanno parlato invece di “comunità nazionale” o “identità nazionale”. Meeting dopo meeting il candidato alla presidenza Miquel Iceta ha ceduto passando dall’idea un po’ naif di nación de naciones alla circonvoluzione dialettica di “comunità nazionale”. È lecito chiedersi a questo punto quale riforma federale vorrà mettere in essere il PSOE se non è disposto a riconoscere previamente e apertamente nemmeno la plurinazionalità dello stato.

Se per alcuni queste elezioni sono state un plebiscito e per altri delle semplici elezioni “regionali” per questi tre partiti, e anche per SQP, sono state delle significative prove generali in vista delle elezioni che per loro contano sul serio, quelle in cui tutto si deciderà per davvero, che determinano l’orientazione della sovranità nazionale, l’unica sovranità nazionale dell’unica nazione legalmente riconosciuta in un paese chiaramente plurinazionale. Delle elezioni generali per le quali sia JPS che SQP ripeteranno le rispettive formule unitarie e nelle quali senza ombra di dubbio la questione catalana rappresenterà un campo di battaglia obbligato. Dato il profilo profondamente nazionalista dell’elettorato spagnolo sarà molto difficile che una forza che porti nel suo programma il riconoscimento della Catalogna come una nazione e l’autonomia fiscale per non dire la celebrazione di un referendum vincolante su di una qualsiasi questione riguardante le relazioni tra Catalogna e Spagna possa vincere le elezioni. Casomai le vincesse ci sarebbe sempre il ricorso al Tribunal Constitucional o la pressione che sono capaci di esercitare i poteri reali attraverso i media spagnoli, e non solamente di quelli di destra. Ci chiediamo, se socialisti e podemisiti-ecosocialisti non sono stati capaci di presentare un’alternativa politica al progetto indipendentista nel clima aperto e in questo ricettivo delle elezioni catalane, come potranno pensare di farlo serenamente nel turbine di passioni e drammatizzazione con il quale di annunciano le prossime elezioni spagnole?

Tra la riforma e la rottura

Certamente le prossime elezioni spagnole determineranno se anche nel resto dello Stato ci troveremo dinnanzi a un processo di rottura, a prescindere dalle caratteristiche peculiari che questo potrà assumere, o se come a noi pare poco o nulla cambierà oltre la semplice frammentazione delle Cortes la fine del bipolarismo PP-PSOE. Alla rottura catalana potrebbe rispondere una semplice riforma spagnola e nella Catalogna stessa le potenzialità di rottura potrebbero cedere il passo a una qualche forma di soluzione negoziata. Un governo di Madrid più sensibile alla rivendicazione catalana potrebbe aiutare a trovare o una via intermedia di tipo federale o facilitare di molto i negoziati una separazione civile e ordinata. La storia recente di questo paese, e nello specifico l’evoluzione politica che ha portato alla diffusione esponenziale dell’indipendentismo, non ci dice nulla di buono su questo versante. Anche in presenza di un governo di simpatie catalaniste il contesto generale e la cultura politica della Spagna non sono ancora pronte (se mai lo saranno) ad assumere senza drammi il federalismo e men che meno ad accettare una separazione di una parte del sacrale corpo della nazione.

Sullo scenario più strettamente catalano si aprono mesi estremamente complicati. Fino almeno a dicembre alcuni saranno più interessati ad aspettare i risultati delle elezioni spagnole, altri saranno totalmente implicati nella battaglia elettorale, forze come Cs useranno la Catalogna come scusa e trampolino, Podemos farà probabilmente lo stesso, si spera con maggiore e miglior grado di concretizzazione. Starà quindi alle forze indipendentiste fare politica nei prossimi mesi. La Generalitat dovrà governare e il processo dovrà andare avanti. L’unica maggioranza possibile è quella composta da JPS e CUP. Tutte le altre formule sono d’impossibile realizzazione, a meno che la coalizione JPS non si spacchi in due tronconi rendendo possibile un’alternativa di sinistra cui però la CUP ha già detto in campagna di non voler partecipare direttamente.

Questa ha più volte ribadito di essere contraria all’investitura di Mas. La scelta di mettere in piedi una candidatura frontista come JPS ha di fatto congelato qualsiasi possibilità di vedere all’opera un governo delle sinistre plurali e variegate. Incerto è quindi il modo in cui verrà governata la Catalogna così come lo è il futuro concreto del processo indipendentista. E in questa prospettiva le strade praticabili da parte dell’indipendentismo sono due: o s’imbocca la via della costruzione di strutture istituzionali proprie non dipendenti da Madrid, magari avviando un processo costituente, coscienti di dover disobbedire prima o poi oppure si fa marcia indietro e si ritorna al punto di partenza, quel dret a decidir che darebbe la possibilità alle forze aggregatesi attorno a SQP di rientrare in gioco ma moltiplicherebbe le ambiguità.

In ogni caso gli indipendentisti hanno una maggioranza sufficiente per fare molte cose e alla sconfitta parziale dell’indipendentismo in questo plebiscito imperfetto, aritmetica ma non politica per intenderci, si può dare una lettura in termini di processo in movimento. Come in Scozia la vittoria unionista nel referendum dell’anno scorso ha creato le condizioni per un’ulteriore socializzazione dell’indipendentismo (come aumento esponenziale di militanti dello Scottish National Party), in Catalogna potrebbero le evoluzioni politiche e conflitti che s’intravvedono all’orizzonte a fornire nuove ragioni e fabbricare nuovi indipendentisti. E se l’orizzonte e quello della disobbedienza civile nei confronti dei tagli sociali e l’imposizione nazionale la sinistra indipendentista ha dinnanzi a se la possibilità di diventare non solo una forza significativa e centrale ma di essere addirittura egemonica.

Frattanto i membri del governo catalano uscente Artur Mas, Joana Ortega ed Irene Rigau sono stati imputati penalmente per lo svolgimento della consulta sull’indipendenza del 9 Novembre dell’anno scorso. Nell’Europa della retorica democratica presente in tutte le salse risulta surreale ma significativo che qualcuno possa essere imputato penalmente per avere organizzato una consulta della popolazione, soprattutto quando si sostieneche la suddetta consulta non ha alcun valore legale, come fa il Governo spagnolo. Come recitava lo slogan che identificava le campagne pubblicitarie promosse negli anni sessanta e settanta del Ministero del Turismo della dittatura franchista, Spain is different.