Un pastis con Aram – Armeni a Marsiglia

La comunità armena nella città francese è più di un pezzo di storia, tra passato e futuro, in un’Europa che cambia, ma dove continuano ad arrivare popoli in fuga

di Maria Izzo, da Marsiglia

Lo ammetto. Sono arrivata a Marsiglia con una preparazione decisamente scadente: un indirizzo, rue de Paradis 588, reminiscenza di un vecchio film di Henri Verneuil, il nome di una chiesa, una mappa stampata da Google. Il tutto complicato da una conoscenza della lingua francese che si limita a qualche insulto e ai nomi di cibi e bevande, certamente utili, ma non in questo caso.

Ma la Marsiglia della mia immaginazione è un luogo dove la pianificazione è superflua. E la realtà non sembra poi così lontana. Basta uscire di casa e camminare mollemente senza meta per ritrovarsi nel mezzo della grande commedia umana: gli incontri accadono, le avventure, come pure le disavventure, quasi ti rincorrono. Ed è proprio su questo moto impetuoso di eventi, di facce e di culture che conto per arrivare all’obiettivo della mia ricerca: gli armeni di Marsiglia.
Il compito sulla carta non sembra complesso.

La comunità armena di Marsiglia infatti è fra le più importanti e numerose d’Europa, con i suoi circa 80.000 membri. Ma non è solo una questione di numeri. Per la diaspora armena la città di Marsiglia ha una rilevanza storica e simbolica notevole, essendo stata negli anni ‘20 del secolo scorso il punto di arrivo di moltitudini di armeni, circa 60.000, che sbarcavano nella città francese dal Medio Oriente, lasciandosi alle spalle tre decadi di violenze: dai massacri del 1894-96, perpetrati dal sultano ottomano Abdul-Hamid II, alla nuova ondata di persecuzioni ed espulsioni, volute dalla Turchia kemalista nei primi anni ‘20, passando per il Grande Male, il genocidio orchestrato dei Giovani Turchi, che nel 1915 hanno cancellato ogni traccia di presenza armena nei territori più orientali dell’Impero Ottomano.

Come per molti altri migranti, italiani, nordafricani, corsi, antillani, comoriani, vietnamiti, sbarcati a Marsiglia, anche per gli armeni questo antico porto spalancato sul Mar Mediterraneo ha segnato l’inizio di un nuovo cammino. Per una parte dei rifugiati Marsiglia è stata solo la prima tappa di un percorso che li ha condotti più lontano, in altre città francesi, europee o negli Stati Uniti, ma un numero consistente di armeni resterà a Marsiglia, costituendo negli anni una comunità vasta e coesa, che arriverà a contare nei primi anni ‘30 circa 20.000 persone, il 10 percento della popolazione straniera di tutta la città.

Ma i primi anni per la diaspora armena sono stati tutt’altro che facili. Accolti per la maggior parte come apolidi, nell’indigenza più assoluta e con ovvie barriere linguistiche, gli armeni trovano alloggio prima in campi sovraffollati dislocati in diverse aree della città e poi in abitazioni modeste, situate nelle vicinanze delle fabbriche dove, a partire dal 1923, molti sono impiegati come manodopera non specializzata. Gli armeni si ritrovano nuovamente a fronteggiare un presente di povertà, privazioni ed esclusione sociale, quello narrato dal regista franco-armeno Henri Verneuil, al secolo Achod Malakian, nel film “Rue de Paradis, 588”.

Ma allo stesso tempo questo è il momento in cui inizia la ricostruzione di una vita di comunità. Mossi dal solidissimo legame con la terra d’origine e da un’identità culturale molto forte, gli armeni di Marsiglia ricominciano a tessere la fitta rete di relazioni che l’esilio aveva lacerato. Si ritrovano nella scuola armena, Tebrotzassere, trasferita da Costantinopoli a Marsiglia nel 1919, ma soprattutto si raccolgono intorno alle sette chiese armene, dove si perpetuano la lingua, i canti, il calendario liturgico e le feste religiose.

Nel 1931 viene edificata anche una Cattedrale Armena Apostolica sull’Avenue du Prado, a testimoniare il ruolo fondamentale della Chiesa Armena, non solo istituzione religiosa, ma anche collante identitario all’interno di una comunità spinta alla migrazione forzata dall’ennesimo tumulto di una storia millenaria.

L’importanza della presenza armena e la persistenza della memoria del genocidio sono ben visibili a Marsiglia. In occasione del centenario le iniziative cittadine sono state numerose: targhe e striscioni commemorativi su edifici governativi, visite lungo i percorsi urbani fra i luoghi dell’esilio marsigliese, conferenze, tavole rotonde e mostre, come quella allestita in un’ala del Museo di Storia, che racconta l’esodo degli armeni con fotografie che mostrano i volti di 100 sopravvissuti, ritratti al momento dell’arrivo al porto marsigliese fra il 1922 e il 1926.

E poi i cognomi in -ian sui citofoni, sulle insegne dei negozi. Insomma, tracce di armenità dappertutto. Ma io sono di umore ciarliero e vado in cerca di armeni che abbiano voglia di fare salotto.
Da dove cominciare, se non da una delle chiese? Decido di partire dalla chiesa cattolica di Rue Sibie, quella che sembra più vicina al centro e più facilmente raggiungibile. In teoria. In pratica, dopo un paio di giri a vuoto e un tentativo di depistaggio da parte di un locale, sono ancora al punto di partenza. Fino a quando non arriva un’illuminazione. La retta via.
Svolto a destra dalla Canebière e imbocco una stradina tanto graziosa, shabby-chic, direbbero i designer contemporanei.

Vai a fidarti dei designer: l’abbigliamento delle dame che oziano sugli usci – un trionfo di pizzi, tacchi e curve sovraesposte – mi dice che verosimilmente sono finita in un lupanare, ma, in fondo alla via della perdizione, in cima all’ardua salita, finalmente, come nella migliore tradizione biblica, trovo la chiesa. Per la redenzione, però, bisogna ripassare. La chiesa è chiusa. E non ho miglior fortuna nel ristorante armeno in cui inciampo tornando verso il centro, né tantomeno nella gioielleria che reca sull’insegna un cognome inequivocabilmente armeno.

Ma il fato sta preparando un superbo coup de théâtre. Mentre in serata racconto le mie peripezie all’host, Claudio, milanese trapiantato a Marsiglia dopo aver girato un discreto pezzo di mondo, il Caso si mostra in tutta la sua potenza: Claudio sa dove trovare gli armeni e si offre anche di farmi da guida e interprete. E quel fato che aveva perso dei punti adesso è in grande rimonta.

Il giorno successivo, l’ultimo della mia permanenza, mentre Marsiglia sta sfoggiando sadicamente un tramonto che acuisce lo strazio di non poter restare qui a vita, si parte alla ricerca di un bar. Il bar degli armeni, per l’appunto.
Ancora su per la Canebière, ma stavolta a sinistra: ed eccola lì, l’insegna con la bandierina rossa, blu e arancio, i colori della bandiera armena.

Do un’occhiata all’interno ed è subito amore: il bar è uno squarcio sul passato, su un’epoca non ben definita. Gli anni ’40, forse. Illuminazione bassa, pareti spoglie, qualche sedia, poche bottiglie. Se questo luogo emanasse anche solo un pallido barlume di ricercatezza, potrebbe passare per un di quei posticini radical-chic tanto cari agli artisti postmoderni. Ma la ricercatezza qui non è mai entrata, e l’immagine dell’Ararat, la montagna sacra per gli armeni, con il crocifisso alle pareti, definiscono subito la natura del luogo: più che un’attività commerciale è un ritrovo comunitario. Gli avventori, infatti, lo deduco dal risuonare di fonemi oscuri e di “r” rotolanti, sono quasi tutti armeni.
Davanti al primo pastis conosciamo il proprietario, un armeno libanese di circa 60 anni che si chiama Aram, nome che sta agli armeni come Ciro sta ai napoletani.

Il tempo di concludere le presentazioni e siamo già al secondo pastis. O forse al terzo. Mi interrogo sul misterioso artificio che rende il mio bicchiere sempre pieno, ma è un pensiero di un secondo, poi la mia attenzione è presa da altro: Aram ha iniziato a raccontare. Ci mostra l’Ararat e ci dice che ha contatti quotidiani sia con la sua comunità d’origine a Beirut, sia con l’attuale Repubblica Armena, ma, nonostante l’evidente legame con le sue radici, sembra assolutamente convinto quando afferma di trovarsi molto bene a Marsiglia. D’altra parte, sottolinea, gli armeni sono un popolo che in terra straniera si è sempre rivelato estremamente adattabile e ben disposto a integrarsi. Questo accade, sostiene Aram, perché gli armeni pongono in cima alla loro scala di valori il lavoro e il rispetto della legge.

Ma è vero, quindi: questa è proprio la storia a lieto fine di un’integrazione riuscita e di un’avvenuta riconciliazione con un passato fatto di persecuzioni, massacri e migrazioni forzate? Ebbene, è vero come è vero il fatto che io non berrò il quarto pastis, quello offerto dalla casa, quello che proprio non si può rifiutare.
Infatti, mano a mano che ci addentriamo nella conversazione con Aram, incontriamo uno a uno tutti i suoi fantasmi, con i quali il nostro barista ha relazioni tutt’altro che pacifiche.

Il primo in ordine di apparizione sono i turchi. Aram discende da armeni sopravvissuti ai massacri di Kars, una delle città dell’Anatolia che è stata colpita dalla furia ottomana nel 1915. L’orrore del genocidio, insieme al risentimento nei confronti dei turchi, gli sono stati probabilmente tramandati come una tradizione di famiglia e infatti, mentre ne parla, emerge tutta l’indignazione per l’atteggiamento della Turchia, che smentisce il genocidio negando giustizia alle vittime.

Aram sa bene che la linea negazionista del governo non coincide con il punto di vista della gente comune e cita a testimonianza la presenza di 100.000 turchi al funerale di Hrant Dink, giornalista turco-armeno impegnato attivamente nella causa per il riconoscimento del genocidio armeno, ucciso nel 2007 da un giovane nazionalista turco. Tuttavia, dice, la battaglia degli armeni non avrà termine fino a quando da Istanbul non giungerà formale ammissione di colpa.
Il riconoscimento del genocidio non è l’unico nodo dolente. Aram mostra rabbia anche per lo scempio compiuto nei confronti del patrimonio artistico armeno, ieri devastato dagli ottomani, oggi abbandonato all’incuria del governo turco.

E’ incredibile l’enorme potere della memoria che rende così viscerale l’attaccamento a una terra anche quando le radici sono soltanto immaginate, come nel caso di Aram, che di fatto è nato e cresciuto lontano dall’Armenia storica. E commetto l’errore di raccontargli che mi è capitato di vedere un documentario in cui venivano mostrate alcune antichissime chiese armene trasformate in stalla dai pastori kurdi. Così fa il suo ingresso in scena il secondo fantasma: i kurdi, ai quali Aram non perdona di aver appoggiato, per puro tornaconto economico, i turchi ottomani nel loro piano di sterminio, compiendo per conto di Costantinopoli massacri e saccheggi a danno degli armeni inermi in marcia verso l’esilio nel deserto siriano.

E poi è la volta degli Azeri, con i quali le relazioni sono molto tese a causa del conflitto territoriale in Nagorno-Karabakh, regione etnicamente armena, ma assegnata all’Azerbaigian in epoca sovietica. A questo si somma la traumatica memoria dei pogrom di Sumgait perpetrati nel 1988 dagli Azeri a danno degli Armeni, di cui Aram fa menzione, ricordando in particolare che in quella occasione bande di azeri armati avevano aperto il ventre di donne armene in gravidanza per estrarne i feti.

Infine, vengono i georgiani, che con gli armeni non hanno relazioni apertamente conflittuali, ma di certo non si può dire che i due popoli si amino. Anzi. E Aram non fa eccezione.
Dalla conversazione mi pare evidente che il nostro barista, armeno del terzo millennio, non sia un fautore degli scambi fra popoli e culture.

Non posso di certo definirmi stupita, anzi. Certo, le idee di Aram sono estreme: mi dice chiaramente che non crede nella possibilità di coesistenza pacifica fra culture diverse. La mescolanza è negativa, ripete. Parole forti, ma che riflettono le fatiche di un popolo che, rappresentando una isolata enclave cristiana in un’area islamizzata, nell’arco della sua antichissima storia ha sempre dovuto lottare per la propria sopravvivenza fisica e per mantenere viva la propria cultura nonostante le condizioni avverse, che ha dovuto aggrapparsi con forza alle proprie radici per non essere annientato.
Le sue posizioni sono prevedibili, a tratti anche comprensibili, ma non possono non suonare inquietanti.

Mi accorgo di quanto la memoria del genocidio, sebbene risalente a un tempo lontano il cui ricordo è solo narrato e non vissuto, sia ancora viva e potente nelle parole di Aram. Cento anni sono trascorsi, si sono susseguite generazioni, ma il trauma è ancora capace di generare astio, piuttosto che comprensione, e di innalzare barriere, invece di abbatterle.

Chissà se i Giovani Turchi avevano previsto e calcolato una tale persistenza del danno. Chissà se la calcolano i nostri governi quando scientemente ignorano, se non appoggiano, massacri oppure fanno affari con autocrati squilibrati. E ho come l’impressione che non se ne preoccupino affatto.

Intanto, sono le nove e Aram sta per chiudere il bar con un’ora e mezza di ritardo rispetto all’orario di chiusura consueto: si è trattenuto per noi.
Seguono i saluti, le strette di mano e i ringraziamenti per l’ultimo pastis e per questa serata iniziata come nelle peggiori barzellette: un milanese, una casertana e un armeno in un bar di Marsiglia. Peccato aver perso l’occasione di scattare un selfie. Lì sotto la bandierina sarebbe stato perfetto.