Costruire normalità, cercare pace

Si chiude nonostante le difficoltà il Forum Sociale Iracheno. Due autobombe e una tempesta di sabbia non hanno fermato l’energia contagiosa dei tanti volontari impegnati nella costruzione di un altro Iraq

di Stefano Nanni, da Baghdad, tratto da Osservatorio Iraq

“Basta, non ce la faccio più. Datemi dell’acqua!”. Si butta a terra, Jasem, ci ha provato fino all’ultimo ma alla fine ha mollato. Disidratato, trema, e chiede dell’acqua. Il soccorso della Mezzaluna Rossa irachena è immediato. “Habibi, siamo qua, è tutto ok”. Jasem sorride, si calma un po’, e riprende fiato pian piano, anche se su una barella.

Siamo sempre a Baghdad, al Forum Sociale. E’ il terzo e ultimo giorno dei lavori, e questa reazione non ha niente a che vedere con quanto ci si potrebbe aspettare, se non fosse che ci troviamo nell’altro Iraq.
Quello che corre, che suda e fatica perché ha voglia di farlo. Non per scappare da un attentato o da un ordine improvviso della polizia e dei militari. Corre per una maratona per la pace. Sì, una maratona.

Jasem sta benissimo, così come stanno bene tutti gli altri e le altre che hanno partecipato. “Era quello che speravamo, è stato un pomeriggio bellissimo. Non so quanti hanno partecipato alla fine, ma erano tantissimi. La temperatura era altissima, ma tutti erano con il sorriso, tutti contenti. Credo sia stato un grande successo. Speriamo il primo di una lunga serie”.

Nicola è visibilmente soddisfatto. Sudato anche lui, che Baghdad e l’Iraq li frequenta già da qualche anno, con l’organizzazione Sport against violence. Una sfida iniziata nel 2009, a Velletri, “grazie a Un ponte per… che ci ha introdotto alla società civile. All’inizio era un’idea molto pazza, e pochi ci credevano. Abbiamo iniziato, per ovvie ragioni di sicurezza, con alcuni ragazzi di Erbil nel 2010, organizzando la prima maratona nazionale irachena, per poi spostarci anche a Baghdad, nel 2011, ed oggi siamo qui per la mezza maratona”.

“Un’idea semplice: quella secondo cui lo sport può contribuire alla ricostruzione della società, unendo tutti e tutte. Sulla strada, in città, per riappriopriarsi anche degli spazi urbani e non aver paura di loro”.
E infatti non hanno avuto paura Dina e Ahmed, che hanno anche la pazienza di rispondere alle nostre domande e a quelle dei giornalisti locali. La prima, vincitrice della mezza maratona, ha solo 19 anni ma è già abituata a vincere. Nei tornei studenteschi è spesso la prima, e non poteva mancare oggi.

“Dovrebbero esserci più spesso queste iniziative, lo sport è bello, rende questa città molto più bella, e ci ricorda che tutti possiamo divertirci insieme!”.
Sua madre ha un sorriso che è impossibile raccontare, e sarà ancora più grande quando Dina salirà sul palco a ritirare la coppa. Occorre vederli, questi volti, da vicino. Per sentire quanto sono veri e spontanei. Naturali, come è naturale correre. Ahmed crede che la maratona per la pace sia “importantissima, perché ci unisce mentre tutto il resto del tempo in questa città pensiamo a dividerci”.

Parole sagge, mentre il sudore scende sulla pelle, e il succo al limone e alla menta offerto all’arrivo ha un sapore ancora più buono se bevuto ai piedi di Sharazade e Shahrayard. O forse no, perché a emozionarci sembriamo più noi osservatori, mentre per loro magari è tutto normale.
Perché normale e naturale è il modo in cui i giovani incontrati al Forum Sociale si esprimono. Sulla politica, sulla vita, sui diritti dei lavoratori e sui bisogni umanitari degli sfollati. O attraverso un pianoforte, una chitarra o un violino.

Abbas, un volontario del Forum, ha 25 anni e con naturalezza parla delle differenze tra Italia e Iraq sul prezzo dell’oro, e spiega l’importanza di sostenere gli inventori iracheni. “Non c’è alcuna legge in materia di brevetti e copyright. Ci sono tantissimi strumenti e nuove tecnologie che vengono sistematicamente fatti propri dal governo o dal primo che riesce a rendere commerciale una nuova idea”. Lo dice nonostante qui in Iraq non si senta troppo a suo agio.

“Ho vissuto in Libia 24 anni, perché per la nostra famiglia era troppo difficile l’Iraq”. La ragione è la carta d’identità, su cui è segnalata l’origine religiosa sciita. “Anche in Libia gli ultimi anni non erano facili. La nostra farmacia è stata fatta esplodere dagli islamisti. Siamo tornati qui, ma oltre all’identità ora percepisco anche di essere trattato da straniero”.

Abbas ha deciso di partecipare al Forum anche per questo. “Avevo bisogno di vedere altro, qualcosa di diverso e di bello. E nonostante tutto, credo che lo stiamo vedendo tutti”.
‘Nonostante tutto’, retorica formula che semplifica, banalizza e pretende di racchiudere al suo interno un ‘tutto’ non meglio definito. Abbas voleva intendere tante cose. Tra queste, due fattori che hanno influito pesantemente sull’andamento della tre giorni ad Abu Nuas.

Non bastava infatti la sospensione dei lavori da parte delle autorità dovuta alle dimostrazioni di piazza Tahrir di venerdì (dove la presenza dei sadristi è stata minore e meno influente rispetto alle attese, e per fortuna le proteste sono rimaste pacifiche).

A provare a demoralizzare gli organizzatori e i volontari del Forum Sociale iracheno ci hanno pensato anche le condizioni metereologiche. Una tempesta di sabbia ha avvolto più o meno tutto l’Iraq venerdì notte.
Al nord, nella regione del Kurdistan, gli effetti si sono visti in centinaia di tende stabili e più o meno resistenti dei campi per sfollati spazzate via in un soffio. Qui a Baghdad, i gazebo del Forum sono finiti tutte nel fiume Tigri, così come i banner, i gadget, i poster, e le attrezzature tecniche si sono riempite di sabbia.

Il Forum avrebbe potuto terminare lì, in quella foto di ieri mattina pubblicata su Facebook da Hamzuz, in cui si diceva che tutto era stato distrutto. Ma c’era anche un altro messaggio: “Se vogliamo un altro Iraq, se davvero crediamo che un altro Iraq è possibile, allora svegliatevi e venite a darci una mano. Dipende tutto da noi”.

In poco meno di due ore Ahmed, dell’Iraqi Council for Peace and Justice, professore all’Università di Baghdad, apriva già il workshop sulla pace civile, Nibras sistemava gli ultimi dettagli del workshop di Sharazade – la campagna nazionale contro la violenza domestica e il matrimonio precoce, portata avanti dal Women Journalist Forum – e Wesam, sindacalista del Solidarity Center, il più giovane della tavola rotonda da lui animata, raccoglieva opinioni sui diritti dei lavoratori e i prossimi passi da fare per vigilare sul nuovo Codice del Lavoro approvato lo scorso agosto in Parlamento.

Tutto questo reso possibile dalla fantastica – potrebbe essere esagerato l’aggettivo, ma provare per credere – energia, voglia di fare instancabile dei volontari del Forum, dei rappresentanti delle circa 30 associazioni presenti.
Vian, rappresentante di Tammuz e una delle organizzatrici del Forum, non può che essere soddisfatta. “Con le proteste e il clima avverso, direi che portare circa 1200 persone ad Abu Nuas, con questo entusiasmo e con tante idee e attività, è stato un grande risultato”.

I numeri sono inferiori rispetto al Forum del 2013, ma “allora eravamo nei pressi di al-Mutanabbi, piena di passanti che forse venivano a visitarci più per curiosità che per intenzione vera di scoprire un altro Iraq”.
“Non bisogna dimenticare inoltre che i fondi quest’anno erano inferiori, e che tanto è stato reso possibile grazie al volontariato e a donazioni spontanee. Per un altro Iraq la strada è ancora lunga, ma se c’è un percorso da seguire, è questo”.

Ali, altro organizzatore del Forum, concorda e aggiunge l’importanza di ringraziare “i poliziotti e i militari che ci hanno garantito la sicurezza, i tanti internazionali presenti anche se avrebbero potuto essere di più se non ci fossero stati problemi di visto”.

Ma più di tutti, anche Ali sottolinea quanto siano stati fondamentali i volontari: “Dalla registrazione, alla preparazione durante le settimane precedenti, la capacità di adattarsi e di risolvere situazioni improvvise e complicate: senza di loro non ce l’avremmo mai fatta”.
Le situazioni complicate non sono mancate, appunto. E forse non mancheranno mai, a Baghdad e in Iraq.

Durante la fine del Forum, nel tardo pomeriggio, mentre ci si rilassava ascoltando musica e apprezzando l’esibizione di pittori e comici, come il primo giorno, saltando e ballando, lasciandosi andare come ci si lascia andare dopo le grandi fatiche, l’ordinaria violenza colpiva ancora.
A piazza Adan, nel quartiere sciita di Khadhimiyah, due autobombe uccidevano 24 persone. La notizia arrivava tramite sms dai nostri canali di sicurezza, ma tutti avevano già saputo prima.

Habib, che vive in quel quartiere, lo ha saputo mezz’ora prima di noi. La madre lo aveva chiamato e gli aveva chiesto di stare fuori ancora per un po’. Meglio non rientrare subito, meglio aspettare.
Come si aspetta per uno dei tanti controlli di sicurezza che si fanno anche per entrare e uscire da un hotel. Si scende dalla macchina, perquisizioni minuziose separate per uomini e donne. Auto aperta tra portiere, cofano anteriore e posteriore. Un funzionario controlla sotto i sedili, nel cruscotto. Un altro passa lo specchio sotto la macchina, e un altro ancora fa un giro con il cane.

E’ tutto così assurdo, complesso, normale in questa città. Di cui si vedono le ferite ovunque, nelle macerie vicine ad una banca, nel filo spinato, nella sporcizia delle strade, nella tensione e attenzione dello sguardo dei militari.

E’ complessa quanto naturale, però, anche la bellezza del sorriso di Habib, quando scherza sulla notiza dell’attentato. Non ci scherza troppo Imad, dell’Institute for War and Peace Reporting, che era in macchina con il suo amico e collega Ammar Al Shahbander, rimasto ucciso il 2 maggio scorso, sempre in un attentato. Il suo sguardo è sempre più serio, malinconico, ma la sua voglia di fare, di lottare per la pace, non è cambiata.

Ad ogni problema risponde: “Benvenuti a Baghdad”. E sorride.

Ci saluta così, ci promettiamo di rimanere in contatto, così come con tutti coloro che hanno reso possibile il Forum, e contribuiscono ogni giorno alla formazione e al rafforzamento di un altro Iraq.

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