Giornali web, libertà, democrazia

La domanda: i giornali web sono dunque in grado di fornire informazione corretta, libera e democratica per il futuro?

di Angelo Miotto

Ieri mattina ero all’ex Ansaldo a PeerXMilano. Invitato a un tavolo tematico su informazione on-line. Il titolo: Giornali web, una occasione per la controinformazione a Milano. Q Code c’è non perché si scriva particolarmente di Milano, ma soprattutto perché siamo nati e cresciuti qui. Milano è comunque un osservatorio privilegiato, dal punto di vista politico è un laboratorio interessante, se non spesso decisivo e nella stretta attualità è un passaggio di alleanze e programmi che si contrappongo a quello che è il patto, secondo noi scellerato, che sio gioca in chiave nazionale. Di contro-informazione, oggi, è difficile parlare, perché nonostante la massa di notizie che ci piovono addosso il problema è quello di informare e non di contro-informare. Quindi concentriamoci su giornali web, libertà e democrazia.

1. Parliamo di giornali su web.
Quindi dobbiamo chiederci come sta il web, o meglio quanto funziona il web e uno sguardo al Paese, anche se Milano è avanguardia, lo dobbiamo dare. I dati sono di Agcom, citiamoli dall’ultima relazione annuale.

“Gli indicatori per la banda ultra larga presentano un grado di arretratezza preoccupante rispetto all’Europa”, ha spiegato Agcom. “L’Italia registra un livello di copertura del 36% contro il 68% dell’Ue a 28 e di conseguenza un digital divide (doppio rispetto a quello europeo e con situazioni regionali che arrivano al 100%, ovvero totale assenza di reti a banda ultralarga)”. Ma non è finita qui: l’Agcom, che pur considera “accettabile” la situazione per la banda larga, nota che, riguardo alle connessioni a banda ultra larga è “ancora più critica la situazione se si considera il livello di penetrazione: solo il 4% delle famiglie utilizza connessioni superiori a 30 megabit al secondo (contro il 26% dell’Ue-28) e praticamente nulle sono le connessioni superiori a 100 mbps (9% nell’Ue-20). Secondo Cardani, “un ruolo decisamente importante nella direzione di colmare tale divario potrà essere svolto attraverso gli strumenti messi in campo dal governo in attuazione della strategia per la banda ultralarga, che prevede la destinazione di una quota significativa di incentivi e contributi finanziari alle aree bianche (percentuale di digital divide pari al 100%) del paese”. Poi d’accordo come detto c’è Milano che sicuramente ha numeri più alti, però siamo messi così.

2. Notizie on-line
Secondo il Ruters Institute for the study of Journalism di quest’anno (qui trovate l’analisi dell’amico Pier Luca Santoro su DataMediaHub): “In 6 dei 12 Paesi presi in con­si­de­ra­zione dallo stu­dio il con­sumo d’informazione online, inclu­sivo dei social, supera quello tele­vi­sivo. Così non è per quanto riguarda l’Italia dove invece la tele­vi­sione regna sovrana. Il gra­fico sot­to­stante riporta il det­ta­glio di cia­scuna nazione. Si tratta dell’ennesima evi­denza, se neces­sa­rio, che rifarsi ad espe­rienze inter­na­zio­nali non sem­pre fun­ziona viste le pro­fonde differenze”. Ancora: “Le noti­zie sono sem­pre più unbran­ded e la search ed i social diven­gono pre­po­ten­te­mente la porta d’ingresso ai siti web delle testate. In Ita­lia la search è la fonte di accesso alle noti­zie per il 66% dei rispon­denti [ancora con­vinti di voler fare la “guerra santa” a Goo­gle?], i social il 33%, men­tre l’accesso diretto ai new­sbrand è pra­ti­cato solo da un quinto delle persone”. La frui­zione delle noti­zie si spalma abba­stanza uni­for­me­mente nell’arco della gior­nata con pic­chi alla mat­tina pre­sto ed in prima serata. L’accesso avviene pre­va­len­te­mente da casa, a pre­scin­dere dal device uti­liz­zato, circa un quarto lo fa dal lavoro e una parte mar­gi­nale invece men­tre è in movimento. Le noti­zie nazio­nali, seguite da quelle inter­na­zio­nali e locali, sono al primo posto degli inte­ressi per tipo­lo­gia d’informazione in 10 nazioni su 12, ita­lia inclusa. Nel nostro Paese il 51% degli inter­vi­stati afferma di aver pagato, di aver acqui­stato un gior­nale di carta. Per­cen­tuale che scende al 12% per quanto riguarda le news online/in for­mato digi­tale. Teo­ri­ca­mente l’Italia, dopo Dani­marca e Fin­lan­dia, è la nazione con la mag­gior pro­pen­sione al paga­mento delle noti­zie; vedendo le per­cen­tuali, net­ta­mente infe­riori, delle altre nazioni si capi­sce quanto neces­sa­ria sia un abbon­dante tara­tura tra dichia­rato e rea­liz­zato. In caso di dubbi basti vedere l’andamento effet­tivo delle ven­dite di copie digi­tali. La stra­grande mag­gio­ranza di coloro che pagano per le news online/digital, acqui­sta “one shot” [63%]”.

Schermata 2015-10-03 alle 23.57.35

Se questo è lo scenario di riferimento è evidente che rimangono molti passaggi da compiere, ma è altrettanto evidente che interrogarsi sulla sostenibilità giornalistica ed economica del giornalismo sulla rete, giornalismo di testate e non di singoli, è doveroso.

3. Un’informazione libera, corretta e democratica.
I tre aggettivi in questione non attengono solo al web, ovviamente. Ma nel web trovano una patria diversa se è vero, e lo è, che l’infrastruttura stessa che ti offre la rete, per prodotti semplici, è davvero a costi pressoché inesistenti.
Montare un sito web significa registrare un dominio con una fee annuale, poter utilizzare un template che va da quelli gratuiti a quelli customizzati in tutto e per tutto, ma di base i costi che riguardano la creazione e l’avviamento di un sito web non hanno paragone con stampa, radio o tv.
Un’informazione libera oggi sta in rete per questioni evidenti, perché l’informazione libera non la pagano gli editori che, se non sono puri e non ne esistono, eliminano di fatto l’aggettivo ‘libera’ come lo vogliamo intendere qui noi per le vicende giornalistiche. Q Code Mag, per esempio, è un giornale che ha una linea politica editoriale ed è un giornale libero, non c’è un editore cui rispondere perché siamo editori del nostro medium.
Questo ha molto a che fare con il modello di sostenibilità economico, di cui parlo dopo.
Corretto e democratico, gli altri due aggettivi: corretto sta nell’essenza stessa di chi vuol fare questo mestiere con responsabilità. Controllo delle fonti e valutazioni costanti su cosa pubblicare, con quale tono, con quali regole interne. La correttezza è messa a rischio dal web solo se si pensa che il web deve essere snack e fast, se si entra cioè nel sistema di concorrenza dell’all-news senza avere i mezzi sufficienti in personale e profili dirigenti per saperlo fare. Il tempo diviene allora il peggior nemico della correttezza e l’approssimazione una costante sempre più invadente. Se poi Il giornale web cerca non solo rapidità di esecuzione e copertura 24/24, ma anche quintali di click, allora la correttezza diverrà un fine sempre più lontano spesso sacrificato a toni e pratiche che cercano le viscere del lettore.
La democrazia. Questo punto è particolarmente interessante, proprio perché rientra nella domanda: i giornali web sono in grado di fornire informazione democratica?
La domanda suona obliqua, cerchiamo di raddrizzarla: cosa si intende per democratica? Non elitaria? Non appartenente agli interessi di cui dicevamo sopra quindi accostando libera a democratica? Piani di discussione legittimi. Oppure informazione democratica è quella che è popolare, che è utile alle persone? Oppure ancora che è accessibile? Il fatto di essere dei professionisti dell’informazione che hanno accesso all’infrastruttura, adesso vediamo a che prezzo, ci definisce come un medium democratico?
I giornali web sono in grado di fornire informazione democratica è una espressione troppo ampia per avere una risposta netta, sì o no. Privilegiamo la terza ipotesi, quella dell’accessibilità, perché si lega a un concetto di partecipazione democratica.

images-1

Il postulato è semplice: se la mia informazione vuole essere libera non devo dipendere da nessuno che imponga anche solo il peso della borsa dei denari e non devo avere una pressione di meccanismi che sono alla fine di marketing per poter scegliere e compiere le azioni più libere, corrette e quindi democratiche che la mia concezione di informazione mi impone. Siamo nei grandi sistemi e, quindi, anche dentro figure retoriche di iperbole: non si negano i ruoli informativi del servizio pubblico o dei media privati di altro tipo. I grandi giornali per il fatto stesso di avere editori quotati in Borsa e un apparato marketing asfissiante non è che non siano liberi, o che non possano essere corretti. Ma il quadro qui va visto da tutt’altra angolazione:  in un luogo dove l’interattività con l’utente è spiccata rispetto ad oggetti che si vedono, si odono o si sfogliano e basta, ci deve essere una marcia in più. È quella che riguarda la possibilità per ognuno di noi di poter scegliere e di poter premiare o punire, di sostenere o essere indifferente rispetto a un’informazione che può scegliere sempre di più.

4. Scegliere l’informazione.
Non si tratta, quindi, di andare nelle edicole, sempre più deserte e acquistare un quotidiano che sia per forza di cose uno di quei dieci o poco più disponibili sul mercato. La dieta informativa è e sarà sempre varia e molteplice. Al di là del quotidiano da sfogliare l’informazione libera e democratica si propone al lettore e gli chiede un gesto di coraggio – a volte di coerenza -:sceglierla e abbracciarne la causa anche dal punto di vista di micro-pagamenti, così come è ormai abituato a fare per altri canali (edicola, canone, abbonamenti) e dove invece la Rete ci ha abituati alla totale gratuità o a un esercizio faticoso che lega la mia carta di credito e diversi passaggi per contribuire. Un esempio: chi si lamenta del mainstream, chi bestemmia il canone, è capace di prendere in considerazione dei minimi pagamenti per realtà che non vogliono avere capitali firmati e sigle cui render conto? Non esiste solo una giornalismo che può prosperare così, ne esistono tanti. Di notizie, di aggregazione, di racconto… Ma la qualità e la vivacità di proposta non possono vivere nella gratuità dell’offerta.
E nel cannibalismo che ne fanno i social network, peraltro, dove è vero che il contenuto vive e si diffonde, ma è anche vero che è lo stesso social su questo a guadagnare dei soldi, in un gioco di sfruttamento che è beffa due volte. La prima perché il mio contenuto si mischia con quelli che aborro, la seconda perché io non ci ricavo e il social sì.

Il crowdfunding è cosa buona, di cui non abusare ovviamente, ma rappresenta un momento. Qui parliamo di continuità, perché sono già diverse le operazioni che partono con ingenti somme raccolte da crowdfunding e che poi al secondo anno di attività non potendo ripetere quell’esplosione di appoggio devono rivedere l’impianto stesso del progetto: insomma il problema del fidelizzare, creare l’abitudine al fatto che se voglio questa informazione di questo o altri siti che ci piacciono siamo disposti a contribuire, in minime parti, così come ci appariva o appare ancora logico versare soldi quotidianamente per uno o più giornali.

images

5. Per Milano.
Giornali web per Milano, o di Milano, o che respirano quest’aria che è diversa, quella di un luogo che ha parlato molto di pratiche di partecipazione. Cosa serve a chi vuole fare un’informazione libera e corretta e democratica in città. Forse un percorso non privilegiato ma virtuoso dove poter essere coinvolti, strutture dove appoggiarsi, luoghi dove incontrarsi, occasioni per creare dibattiti. Oggi va di moda il giornalista che ha idea, concetto da startupper, deve essere o provare a essere un fundraiser, sapere di marketing, capire di social e controllare correttezza, libertà, democrazia (e se girano i soldi anche amministrazione e pratiche fiscali). Tutto insieme per realtà web che non abbiano grandi capitali da dividere fra fornitori è cosa ardua. In questo il settore dell’amministrazione pubblica può essere non un partecipante in più, ma un facilitatore formidabile.

Infine Franzen.
Che di nome fa Jonathan. In una cronaca di Mastrolilli de La Stampa da New York, durante la presentazione dell’ultimo romanzo Purity, Franzen parla di una protagonista che ha scelto di caratterizzare come giornalista. Franzen ne approfitta per ragionare sulle redazioni e il web.

Primo scossone.
«Quello che sta accadendo per colpa di Internet non mi piace per nulla. Senza giornalismo una democrazia non può funzionare, e noi rischiamo di perderlo, perché i professionisti che lo praticano non riescono più a farsi pagare. Dobbiamo assolutamente trovare un nuovo modello, e intanto le fondazioni dovrebbero garantire la sopravvivenza delle testate».
L’idea di Franzen, scrive Mastrolilli, è questa: «Naturalmente dobbiamo trovare un nuovo modello, che consenta al giornalismo serio di qualità di essere pagato, e quindi di sopravvivere. Nel frattempo, però, bisogna sostenerlo in qualche modo, e io credo che le grandi fondazioni dovrebbero accollarsi l’onere di fare da ponte. In altre parole, pagare per tenere in vita le testate, in attesa di trovare il nuovo modello per stare in piedi con i proprio piedi». Jonathan capisce che ciò provocherebbe subito dei problemi: «Le fondazioni porterebbero con sé le loro inclinazioni ideologiche, influenzando il prodotto, ma questo difetto si potrebbe compensare coinvolgendone un numero consistente con posizioni diverse. Capisco che sarebbe una soluzione imperfetta, ma rappresenterebbe la risposta d’emergenza a uno stato di disperazione. Fino a quando non troveremo la maniera di far rinascere il giornalismo, senza lasciare che muoia».

Il giornalismo non è uno, sono tanti e molti di questi giornalismi hanno il loro perché anche nella breaking news, nella cronaca istantanea, nella ricerca del primeggiare, anche. Ma senza tempo e senza soldi sarà difficile avere buoni prodotti. Senza tempo per leggere sarà difficile recuperare una capacità di concentrazione e di rapimento, del farsi catturare, che porta poi chi legge a non sapere quanti scroll ha compiuto sullo schermo o su un tablet. Il giornalismo web può essere un’enorme ricchezza, il lettore deve mutare – così come avviene per il giornalismo – cercando di interpretare al meglio la natura politica di premiare il consumo prescelto con un gesto di remunerazione. In denaro.
Ce la giochiamo nei prossimi dieci anni.