Mistero napoletano

Il capolavoro di Ermanno Rea compie venti anni

di Christian Elia

“La forma diaristica delle pagine che seguono è soltanto un inganno letterario? Penso di poter rispondere di no[…]Pur richiamandosi al contenuto di alcuni quaderni riempiti durante il mio soggiorno napoletano espressamente finalizzato alle ricerche intorno al suicidio di Francesca, sono state poi ripetutamente rimaneggiate […]Comunque, basterà sapere che in esso non vi è nulla di inventato”.

Con queste parole Ermanno Rea, grande maestro del giornalismo italiano, napoletano in fuga da Napoli, dove poi ossessivamente tornava e raccontava, introduce Mistero napoletano, uno dei suoi libri più grandi. E che oggi, ripubblicato l’anno scorso da Feltrinelli dopo essere uscito originariamente per Einuadi, è di nuovo pronto a smarrirvi.

Perché se l’incipit è lineare, la matassa che si dipana attorno a questo racconto è un labirinto. Meglio, è una casa di specchi, dove seguendo il filo principale del racconto, ci si imbatte in mille storie, riflessi, azioni e conseguenze. Fino a vedere molto più lontano dell’orizzonte che il libro stesso pone.

Rea sente il bisogno, dopo quaranta anni, di capire per quale motivo non ha indagato, più che indagare, sul suicido di una cara amica: Francesca Spada, giornalista culturale della redazione napoletana dell’Unità nel secondo dopo guerra. Che si tolse la vita la sera di Venerdì Santo del 1961.

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In questo capolavoro di giornalismo narrativo, Rea gioca fin dal principio con se stesso. Perché non è vero che non sa cosa cercare e perché lo sta facendo, ma ha il pudore giornalistico del non mettersi al centro della scena. Che lascia a Francesca e al suo dramma umano, politico e culturale.

Seguendo Francesca, incontriamo un mondo, che pur riprodotto in scala, nella Napoli post ’45, diventa caleidoscopio multicolore, tra la Guerra Fredda e gli Alleati, il Partito Comunista Italiano e Stalin, il popolo e la fame. E la cultura. Stracciona, fisica, quasi vivente.

Oltre che specchio dell’Italia, quella post bellica, dove una generazione intera faceva la fame per un ideale, da praticare ogni giorno, nelle scelte professionali e di vita. Quella della questione meridionale e della condizione femminile, tra desiderio e lotta di emancipazione e vecchi vizi, feroci come ataviche tare, a rendere la vita complicata.

Rea si muove in bilico, mettendo sempre e comunque in discussione tutto, se stesso come la città di Napoli, le idee del Pci e le pratiche, lo stalinismo come malattia feroce, che ha portato via vite e sogni di tanti intellettuali. A cui faceva da avversario un Achille Lauro simbolo del fascismo pronto a riciclarsi, con il beneplacito degli americani, che intanto si prendevano il porto di Napoli per la Nato.

“Non fu forse un abisso quello in cui precipitò Francesca, senza tuttavia rinunciare – anche nel momento più tragico e disperato – a tessere l’elogio della speranza?”, si chiede Rea alla fine di questo lungo viaggio tra i ricordi, mentre si erge la figura di Bassolino e di un nuovo corso del vecchio Pci.

Tutto il senso di un libro come questo sta nel cercare, partendo da una storia piccola, ma che porta nel suo destino il peso di una generazione, di una città, di un Paese intero. Ecco, a dispetto della fiction, un esempio eccezionale di come raccontare il mondo.