Amazzonia indomita

In Brasile l’impianto idroelettrico di Belo Monte è un buco nero nel cuore degli esecutivi progressista

di Luca Manes

Doveva essere il fiore all’occhiello dei governi progressisti brasiliani, si sta trasformando in un clamoroso autogol da tutti i punti di vista. Parliamo del mega impianto idroelettrico di Belo Monte, nel cuore dell’Amazzonia. La guerra di carte bollate che segna da anni questa opera faraonica negli ultimi giorni ha fatto registrare l’ennesimo episodio: l’IBAMA, la Commissione ambientale e per le fonti rinnovabili, ha negato la licenza operativa alla Norte Energia, il consorzio composto da compagnie energetiche e fondi di investimento che ha finanziato la realizzazione di Belo Monte.

Conseguentemente non si potrà chiudere le cataratte della diga e riempire così il bacino artificiale che inonderà la città di Altamira, passaggio fondamentale prima di iniziare la produzione energetica. Le motivazioni addotte dall’IBAMA per la sua decisione sono pesanti, dal momento che non sarebbero state rispettate le misure di mitigazione e di compensazione degli impatti del progetto.

Lo sbarramento sorge su un’immensa curva del fiume Xingu (tra i principali affluenti del Rio delle Amazzoni), ha un’ampiezza di circa sei chilometri e un’altezza di 36 metri. Ben 24 le turbine atte a generare oltre 11mila megawatt. Un mare di energia che servirà per alimentare l’industria mineraria e le grandi città del sud, soprattutto nello stato di Minas Gerais, dove sarà veicolata tramite un potente elettrodotto di 2.100 chilometri. Un sistema di tralicci e cavi da 800mila volt che attraverserà mezzo Brasile, invadendo aree protette e territori indigeni.

Ma forse il dato ancora più impressionante è un altro: quasi 500 i chilometri quadrati inondati, un’enormità, poiché a essere cancellato sarà un importante tratto di una delle foreste pluviali più ricche di biodiversità del Pianeta.

Tutt’altro che secondarie le conseguenze per le comunità indigene che abitano da sempre quel territorio. Sono state infatti oltre 20mila le persone sfollate a causa del progetto. Evidentemente, come evidenziato dall’IBAMA, i promessi risarcimenti per chi ha perso la propria abitazione e i propri mezzi di sostentamento non sono stati adeguati e sufficienti.

La lotta degli indigeni contro Belo Monte – la terza diga più grande del mondo – è stata punteggiata da azioni eclatanti e spettacolari, che però non hanno fatto desistere l’esecutivo brasiliano dalle proprie intenzioni. In un paio di occasioni fra il 2011 e il 2012 sono state delle corti federali a determinare con loro pronunciamenti il blocco dei lavori, ma il nulla osta definitivo sull’opera è arrivato nell’agosto del 2012 dalla Corte Suprema Federale.

Finora i responsabili della Norte Energia hanno ostentato sicurezza, ribadendo che quello dell’IBAMA non è uno stop definitivo, quanto un invito a prendere provvedimenti per sanare alcune anomalie ancora esistenti sul campo. Il dato di fatto è che un’opera mastodontica è bloccata e che i timori espressi dalle organizzazioni della società civile locale e internazionale sulle problematiche legate al progetto si sono rivelati ben fondati.

Visti i costi – 16 miliardi di dollari per la diga e 2,5 miliardi per la linea di trasmissione, finanziati in larga parte dalla potentissima Banca di Sviluppo del Brasile (BNDES) – è difficile ipotizzare che Belo Monte rimarrà un’opera inutilizzata. A preoccupare ancora di più sono gli altri numerosi progetti di dighe che il governo vuole far sorgere sui principali corsi d’acqua del Paese. Fa nulla se ormai numerosi studi dimostrano che i mega sbarramenti sono troppo costosi e ben poco sostenibili dal punto di vista ambientale.