Lo sviluppo umano

Un rapporto della Banca Mondiale racconta il mondo con l’ottimismo della globalizzazione. Ma siamo alla rimozione della realtà

di Clara Capelli

Tirate fuori dai cassetti dei begli aforismi di Nelson Mandela, Madre Teresa di Calcutta, Gandhi e pure di Malala, l’ispirazione dei buoni e dei giusti deve fiorire sulle vostre bacheche Facebook. Signori e signore di buon cuore, sta finendo la povertà. Lo dice la Banca Mondiale: entro la fine del 2015 la popolazione mondiale che vive in povertà estrema scenderà sotto il 10 percento, dai 902 milioni del 2012 a 702 milioni.

Sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista attribuisce il raggiungimento di questo importante traguardo simbolico alla “globalizzazione”. “[…] l’economia, il dinamismo economico, quel poco di libero mercato e di libero commercio che riesce ad imporsi pur in condizioni ambientali tanto ostili, sono il peggior nemico della miseria frutto dell’immobilità, della staticità, della mancanza di libertà”, scrive Battista, tirando le orecchie ai seguaci di Piketty e agli attivisti dei movimenti #Occupy per la loro cecità.

Ecco, se ancora insegnassi economia dello sviluppo, questo sarebbe il pezzo perfetto per spiegare ai miei ragazzi quanto infelice sia questa disciplina, stretta tra pensierini da Bacio Perugina, frasette per like facili su Facebook e un numero imprecisato di bestialità dichiarate con l’autorevolezza tipica di una conversazione di calcio al bar del paese.

Se ancora insegnassi, mi piacerebbe innanzitutto a discutere con gli studenti sull’immagine con cui Battista dipinge la diminuzione della povertà estrema, di quei “bambini che muoiono per inedia, a cominciare dall’Africa subsahariana”. Senza negare la gravità di tante situazioni in Africa subsahariana, è in fondo curioso che il simbolo della povertà sia ancora il bimbo africano con la pancina gonfia e gli occhioni tristi, di quelli che commuovono tua zia e che ti fanno sentire in colpa e quindi lasci l’offerta (come sarà usata è un’altra avvincente storia).

Si potrebbero portare tanti altri esempi – non serve nemmeno essere stati in Africa per conoscere la povertà nera -, ma lasciamo sviscerare la questione agli antropologi, a cui probabilmente piacciono Piketty e i manifesti #Occupy.
La misurazione della povertà è una storia che inizia nell’Ottocento con un signore di nome Charles Booth, interessato a quantificare le situazioni di sofferenza economico-sociale nella Londra del positivismo e dei personaggi di Charles Dickens.

Questo concetto di “misurare la povertà” prenderà però piede a livello globale sono nel 1990 col World Development Report e il lavoro di economisti di nota fama quali Ravaillon, Datt e Van De Walle, i quali fissano la prima linea rossa che divide chi è povero e chi non lo è, il famoso dollaro al giorno. Vivere con meno di un dollaro (adesso in realtà la soglia è un 1 dollaro e 90 cent, perché la statistica e la poesia si parlano poco) significa morire di povertà.

Sempre nel 1990 viene pubblicato lo Human Development Report, le firme sono altrettanto prestigiose: il pakistano Mahbub Ul-Haq e l’indiano Amartya Sen, l’autore del celebre Lo Sviluppo è Libertà: se da un lato lo sviluppo deve essere “umano” e andare oltre il materialismo delle dimensioni economiche, dall’altro la misurazione di questa stessa “umanità” diventerà un pilastro degli studi sullo sviluppo, con un proliferare di indici statistici spesso assai complessi.

Lo sviluppo è umano e si misura. E misurare serve per darsi degli obiettivi e valutare i risultati, seguendo praticamente una logica aziendale. You must deliver, devi portare risultati e questi devono avere volto di numero. Arriviamo così al 1995 e i celebri Millenium Development Goals (MDGs), quegli otto obiettivi da realizzare entro il 2015 .

Il primo obiettivo è non a caso la lotta alla povertà estrema e alla fame. Chi si occupa di sviluppo sa che per diversi anni ci sono stati seri dubbi sulla possibilità di ottenere risultati soddisfacenti. Il 2015 mostra che comunque miglioramenti apprezzabili si sono registrati per tutti gli otto obiettivi, ma l’appuntamento è rimandato al 2030 con 17 Sustainable Development Goals (oltre a un numero esorbitante di sotto-obiettivi) e la lotta alla povertà ancora capolista.

Diversi obiettivi sono rivisitazioni delle otto missioni originarie, con l’interessante introduzione di due temi “caldi”: il pieno impiego e la dignità del lavoro (Obiettivo 8) ritornano sul tavolo dopo quasi cinquant’anni di oblio, riportati in auge a seguito delle rivendicazioni della Primavera Araba; la disuguaglianza (Obiettivo 10), tanto cara a chi scendeva in piazza per le manifestazioni #Occupy e ora si entusiasma per Piketty, diventa ufficialmente un tema su cui intervenire.

Battista magnifica come motore della riduzione della povertà estrema il “il dinamismo economico e il libero mercato” giunti in terre stagnanti e desolate (come se prima ci si muovesse nel vuoto pneumatico, ma anche su questo sorvoliamo). Evidentemente però tutto questo dinamismo qualche stortura l’ha creata oppure non l’ha raddrizzata se alla lotta alla povertà si sente ora il bisogno di affiancare ufficialmente l’attenzione a tali questioni.

Tuttavia, se insegnassi ancora, a questo punto si dovrebbe andare a guardare per bene i dati e vedere cosa ci raccontano. In primo luogo, si sta parlando di “povertà estrema”, misurata attraverso una convenzione costruita su virtuosismi tecnico-statistici su cui comprensibilmente gli studenti si annoiano sempre. Uscire dalla povertà estrema non significa entrare in un mondo di villette di proprietà con giardino e barbecue tutte le domeniche.

C’è un’altra linea da varcare, quella della povertà “normale” (che è sì diminuita, ma molto meno significativamente): non stai in bilico tra la vita e la morte, ma di sicuro non te la passi bene. E, inoltre, potresti sempre tornare a essere povero o povero povero. Rallegriamoci quindi tutti per i 200 milioni di individui che sono passati di categoria negli ultimi 3 anni, ma dopo esserci gongolati per bene ricordiamoci di preoccuparci per la loro sorte.

In secondo luogo, è punto condiviso da anni che gran parte di quel miliardo di persone uscite dalla povertà negli ultimi venticinque anni sia localizzata in Asia. Più precisamente in Cina, dove la popolazione in povertà estrema si è praticamente dimezzata tra il 1990 e il 2015. Qualunque grafico in materia racconterà la stessa storia: diminuzione considerevole in Cina, abbastanza apprezzabile in Africa e Asia meridionale, modesta in America Latina e timida in Europa Centro-Orientale, Medio Oriente e Nord Africa. Certo, la maggior parte dei poveri poveri erano proprio localizzati in Asia, ma allora bisogna porsi qualche domanda sul fatto che il libero mercato – qualunque cosa voglia dire – faccia miracoli.

Già negli anni Novanta in America Latina, Europa Centro-Orientale, Medio Oriente e Nord Africa la povertà estrema era limitata a percentuali relativamente contenute della popolazione, nonostante queste regioni abbiano in comune esperienze di sviluppo con una certa impronta statalista, conclusesi intorno tra i Settanta e gli Ottanta in America Latina, Medio Oriente e Nord Africa e nei primi anni Novanta in Europa dell’Est. In coincidenza, per altro, con un importante peggioramento (o inasprimento nel caso dell’America Latina, il continente più diseguale al mondo) della disuguaglianza. Per quanto riguarda la Cina, è cosa nota che – per quanto per nulla anti-capitalista – il suo sviluppo non sia certo risultato della mano invisibile invocata da Battista.

L’articolo del Corriere della Sera si conclude auspicando che anche la povertà delle idee diminuisca. Si pensa, ahimè, che questo tipo di povertà vada combattuta a casa degli altri. Chissà che cosa ne pensano Piketty e gli attivisti #Occupy, nonostante si occupino appunto di disuguaglianza (per altro, soprattutto per Piketty, in economie cosiddette sviluppate), che è un concetto relativo e, seppur interrelato, diverso dalla povertà. Ma sarebbe interessante interpellarli per capire cosa ne sarà di quei 200 milioni i quali, ora che non soffrono più d’inedia, potrebbero decidere di mettersi in marcia verso l’Europa, in cerca di migliori condizioni di vita e lavoro rispetto ai loro Paesi di origine. Anche questa, Battista non se ne dispiaccia, è globalizzazione.