#FreeOtegi, #FreeThemAll

Un caffè dalla macchinetta, nel bicchierino di plastica. Lo tiene in mano, Arnaldo Otegi, in una stanza spoglia, tavoli e sedie e muri bianchi, in un edificio a struttura squadrata dentro un abbandonato Poligono industriale, periferia di San Sebastian, in basco Donosti.

 di Angelo Miotto

Autunno 2006. Abbiamo preso un appuntamento e ricevuto due conferme, in un clima di sospetto, perché Batasuna è stata dichiarata illegale. La porta del movimento politico è sigillata dall’autorità giudiziaria, per effetto della Ley de Partidos, apartheid inventato politicamente da socialisti e popolari in una scellerata alleanza censoria.
Petri ci fa passare e apre la porta. La stanza ha delle vetrate, scegliamo il luogo migliore per il video, per l’intervista. Non è la prima volta che ci incontriamo. Qualche anno prima un’altra intervista nella sede di Herri Batasuna a San Sebastian. C’erano tanti giovani nella sede, militanti di Segi, l’organizzazione giovanile della sinistra basca che venne poi messa fuorilegge, molti di quei giovani arrestati.

I ricordi vagano ancora in una delle calles del Casco Viejo, difficile ricordare l’anno, sempre nella città dalla spiaggia a forma di conchiglia, in compagnia di Iñaki, amico scrittore e storico. Arnaldo passeggiava e si fermava a parlare e a discutere, a salutare, il giubbotto di pelle slacciato, le zampe di gallina agli occhi, il naso affilato, il capello cortissimo a incorniciare il cranio.
Anche quest’immagine sfuma e ritorna la stanza spoglia nel Poligono industriale, mentre Otegi parla, la telecamera riprende, e il filo logico che si srotola ha una consequenzialità stringente, nella spiegazione del perché vogliono che sia permesso loro di decidere sul proprio futuro, su cosa significhi essere indipendentisti, quindi nazionalisti di sinistra, sull’internazionalismo, sull’attenzione alle dinamiche sociali, il genere, un’idea di società e di dove stare rispetto al mondo.

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Otegi parla e non c’è fatica nell’accettare di essere di fronte a un’esperienza politica completa, pericolosa non solo per la rivendicazione di indipendenza, che ha nel rapporto con la lotta armata un aspetto di logica coesistenza dentro un rapporto di forza che non trova soluzione. È pericolosa perché propone una visione del mondo antagonista.
Il peggio del potere nazionalista spagnolo e le pretese del movimento di sinistra basco sono vettori che tirano, politicamente e militarmente, da parti opposte rispetto a una naturale, ma impossibile perché zoppa, soluzione di compromesso politico. L’intervista si mangia minuti, e quell’intervista ne scarta automaticamente un’altra, quella a rappresentanti del Partido Popular, che messi al corrente che nel lavoro video c’è la testimonianza di Otegi dicono: “Guardi, se c’è Otegi noi non ci stiamo”.

Da sei anni Otegi vive dentro una prigione perché ha avuto la colpa di riuscire a trasformare una dinamica bloccata in un rivoluzionario superamento dell’esistente, con il rifiuto dello strumento militare. Hanno arrestato lui e altri suoi compagni il 16 ottobre del 2009, perlomeno queto è stato l’ultimo arresto, con una pena a oltre sei anni. L’uomo che ha rappresentato il volto della nuova strada del movimento di sinistra basco, che ha ottenuto di fatto l’abbandono della lotta armata da parte di Eta viene premiato con il carcere. La declaracion de Alsasua, ma anche di Venezia nello stesso giorno, avviene con il portavoce della sinistra già in carcere, accusato paradossalmente di essere una pedina di Eta, di obbedire a una strategia del gruppo armato.

Stasera dalle 17.30 saranno migliaia e migliaia le persone che sfileranno a Donosti, chiedendo libertà per Otegi e per gli altri prigionieri politici baschi. In tanti anni l’immobilismo di Madrid e di Parigi non ha prodotto nulla: non solo nessun processo di pace, ma continue provocazioni contro la sinistra basca, la commissione di verifica internazionale sul disarmo, in un continuum di rifiuti ostentati, indifferenza studiata, dinieghi, mantra inutili sull’obbligo per Eta di dissolversi immediatamente. Come se per cinquant’anni non vi fossero state ragioni politiche ai piedi dell’albero di Guernika.

Nel corso degli anni anche alcuni giornali e osservatori spagnoli hanno levato la loro voce per chiedere la scarcerazione del leader naturale della sinistra basca. Un noto giornalista salutò l’accanimento contro Otegi come una perfetta campagna elettorale a favore del prossimo presidente del governo basco. Tanti nemici, tanta gloria, ma anche una vita erosa per sentenze ingiuste.

Adesso il ricordo vola al 1998, un’era geologica fa per la velocità da capogiro dell’azione politica basca. Tutta la dirigenza dell’allora Herri Batasuna, la Mesa Nacional incarcerata per aver diffuso una videocassetta con una proposta di dialogo (Alternativa democratica) dell’organizzazione armata. Quando andarono a prenderli a casa, negli uffici, nelle piazze, alla frontiera (e non perché scappavano, ma perché tornavano per consegnarsi) il movimento politico presentò in poche ore i protagonisti di una fase di interregno e di ristrutturazione della dirigenza: uno dei due giovani uomini che prese la parola era Arnaldo Otegi. Il suo instancabile lavoro quotidiano, con quello di altri militanti, aveva portato nel 2006 al negoziato con José Luis Zapatero e poi, dopo trappole governative e un attentato di Eta al T4 di Barajas, Madrid, con il morto, non cercato ma morto, quel percorso fu sospeso e poi interrrotto. Ma il tempo era maturo per sostenere un nuovo corso, basandosi sull’esperienza irlandese e convincendo – cosa per nulla scontata – la direzione di Eta che era giunto il momento di scommettere solo sulla via politica.
Addio alle armi.

Il documento di Otegi, le discussioni della base, la decisione, ma la trappola era scattata prima, con il mantra ossessivo della magistratura spagnola dentro un teorema sanguinoso e doloroso che ha buttato sotto l’accusa di terrorismo o banda armata qualsiasi cosa non fosse funzionale all’esistenza di un nemico. Un lupo cattivo necessario per avere sempre il controllo sulla paura, per avere un bersaglio da esibire mentre la crisi e la speculazione, la corruzione già dilagavano in territorio spagnolo.

Oggi la manifestazione chiede libertà: gli anni sono passati, la politica è immatura, con dolo, rispetto al cammino di pacificazione che sta avvenendo lentamente nella società, fra le vittime di Eta e le vittime dello stato, quello della Guerra sucia degli anni Ottanta.

Perché Arnaldo Otegi è ancora prigioniero? Perché tutti i prigionieri non hanno ancora avuto segnali o possibilità di gettare alle spalle in maniera definitiva la sofferenza del conflitto? Uno scontro che è stato per cinquant’anni un business per l’impiego militare, guardia civil, spioni, guardaspalle privati, questi ultimi già di per sé un bacino di lauti affari da decenni.

Non basta girare la testa dall’altra parte per rimuover vecchie e attuali questioni, non basta sostenere sempre lo stesso discorso di intransigenza, come se Eta fosse ancora in attività, non basta ed è strumentale, in un disegno di controllo sulle ali della paura.

Oggi è un nuovo segnale di forza popolare che si muove a San Sebastian. Aspettando che ‘L’uomo di pace’ come lo definì lo stesso Zapatero, torni finalmente libero. Lui e tutti i prigionieri politici con un accordo che definisca in maniera ordinata e comprensibile politicamente i passaggi per arrivare alla fine del conflitto. Un compromesso che il Partido popular, ma i socialisti non sarebbero da meno, non vuole accettare nel nome dei più biechi interessi elettorali.