Svetlana Aleksievic e la polvere

Il Nobel della Letteratura
premia un grande esempio di giornalismo narrativo

di Christian Elia

Il Premio Nobel per la Letteratura del 2015 è stato assegnato a Svetlana Aleksievic. Nata nel 1948, nell’attuale Bielorussia, di origini ucraine, di lingua russa. La motivazione del Nobel recita: “Per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo”.

Fin qui la cronaca, anche se ci sarebbe da ridire su quel coraggio che non è mai di un tempo solo, anche perché il tempo non appartiene a nessuno. Oltre la cronaca c’è un mondo. Quello di questa grande giornalista, grande scrittrice. Una donna che ha saputo cogliere lo sgretolamento dell’Unione Sovietica nella polvere, non nei grandi e fotografati pezzi di muro. Perché è la polvere di grande storia quella che ti resta addosso.

La prima reazione, giusta, è stata quella di ritenere questo un premio al giornalismo narrativo. Anche politico, se è per questo, in anni di tensioni tra la Russia e il resto del mondo. Ma in questo blog si parla di giornalismo narrativo, e in questo senso la Aleksievic è al tempo stesso una pioniera e una ex.

Pioniera perché, come ha ben scritto Giuseppe Carrara su CultWeek, “la scrittura della Aleksievic è totalmente diversa da quella à la Saviano cui siamo abituati: la presenza dell’io è completamente messa da parte, addirittura relegata fra parentesi e in corsivo in Preghiera per Černobyl’ e con l’unico scopo di sottolineare gli stati d’animo degli altri, mai il proprio. È proprio la prospettiva corale una delle caratteristiche più peculiari della scrittura polifonica della Aleksievic, un coro tragico, ma non da tragedia: non è una voce singola, unitaria, uniforme, sono tanti monologhi, ognuno esprime la propria singola voce attraverso la scrittura della giornalista e la coralità viene fuori dal montaggio di questi racconti”.

E in questo c’è un mondo. Quello che raccontiamo, in un modo o nell’altro. E lo raccontiamo con la voce delle persone che incontriamo. Non con la nostra. Non si piega la realtà alle esigenze narrative, non si usano le vite degli altri per una pagina di vera o presunta letteratura. Svetlana Aleksievic, in questo senso, è una maestra. Non è mai davanti al suo taccuino, non si guarda allo specchio. Racconta la polvere sugli abiti delle persone che incontra, pezzi di vita. Con rispetto. E con il tempo giusto: a Cernobyl e dintorni, ci passò tre anni la Aleksievic.

Con il passare degli anni, la Aleksievic si è poi sempre più avvicinata alla letteratura, non perdendo mai di vista il gusto del racconto di realtà. La potenza metaforica della vita degli ultimi è una bussola che orienta il suo lavoro.

Poche immagini come quella dei detenuti nei gulag di Stalin che piangono ai piedi della statua del capo, urlando la loro rabbia, perché “se lui sapesse come ci trattano qui, li punirebbe tutti”, raccontano meglio la disperata adesione a un mito. O il vecchio, con la spilletta del partito, eroe della Grande Guerra patriottica, che viene spintonato dai ragazzini che lo insultano. Proprio per quella spilletta.
Un’Unione Sovietica di uomini e donne, non di interpretazioni. La Storia in carne e ossa. Svetlana Aleksievic è riuscita a vedere quel fiume carsico che scorreva sotto i grandi fati della storia, che raccontava come reporter, ma che è tornata a raccogliere.

Ecco, il giornalismo narrativo è tutto questo. Almeno nella interpretazione della Aleksievic, perché il bello è che ciascuno è libero di raccontare come gli pare, ma il pilastro della realtà, dell’incontro, della partecipazione in prima persona sono la base del lavoro di giornalista. Chi viene meno a questo, non può nascondersi dietro al narrativo, perché non esisterà un aggettivo abbastanza grande per nascondere un inganno.