La guerra al tempo dei droni

I Drone Papers non svelano nulla di nuovo, ma sono l’unico documento a disposizione per riflettere su queste operazioni

di Marta Clinco

“If you’re killing people, you’re not getting intelligence from them”. Questo il commento della reporter Cora Currier che, insieme al collega Ryan Devereaux, ha lavorato al progetto sul rapporto segreto della task force ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaisance) del Pentagono riguardo la guerra dei droni di Obama, reso noto nei giorni scorsi dall’Intercept.

Il lavoro di Currier e Devereaux, che potete ascoltare nel podcast pubblicato da ProPublica, analizza alcuni dei temi sviscerati nelle diverse sezioni di The Drone Papers, redatto prima del 2013, e da allora in circolo al Pentagono.

Le otto parti del documento fanno riferimento in realtà solo a fatti intercorsi tra 2011 e 2013, un arco di tempo molto limitato, se consideriamo che la prima azione affidata a un drone in una zona di conflitto risale già al 7 ottobre 2001, in Afghanistan, e che il primo fuori da una zona di guerra si registrava solo un anno più tardi, in Yemen, il 3 novembre 2002. Erano i primordi dell’infinita guerra al terrore, iniziata da George W. Bush nel 2001, e per la quale il fratello Jeb sconta ancora pene e voti, essendo il tema ricorrente e controverso di buona parte dei comizi di Obama degli anni più recenti.

Tuttavia ciò che leggiamo oggi in quel documento – ben fatto, certo, e ben costruito – non è nulla di inedito, al di là di alcune particolari rivelazioni di carattere organizzativo e operativo riguardo all’apparato di sicurezza nazionale statunitense, come è articolato e come conduce nello specifico le missioni antiterrorismo con droni (informazioni interessanti forse più per gli addetti ai lavori che per l’opinione pubblica).

L’unicità di “The Drone Papers” sta nel fatto che non è disponibile alcuna pubblicazione di documenti non declassificati – dunque, resi noti dopo accurati controlli e selezionati dalle autorità – di tale entità e completezza circa le operazioni cosiddette capture/kill dell’intelligence americana, integrati con dati e modus operandi.

In precedenza, e assolutamente non comparabili, molti rapporti si sono basati su simili documenti governativi, declassificati e resi solo in parte pubblici – ricordiamo il caso più recente del report sull’utilizzo della tortura nei siti nascosti della CIA di fine 2014 – ma si tratta di nulla in confronto a ciò che abbiamo la possibilità di leggere integralmente oggi, senza censura. Solo un paio di piccole sezioni, visibili in una serie di diapositive sull’Afghanistan, sono state oscurate. Il perché lo spiega proprio Ryan Devereaux: “Abbiamo fatto questa scelta per proteggere l’identità di persone di cui non abbiamo potuto confermare la morte attraverso documenti e ricerche, e di militanti già ampiamente noti e tuttavia ancora ricercati”.

In ogni caso, sono diversi i punti interessanti trattati all’interno di “The Drone Papers”. Anzitutto, da alcune parti del documento risulta evidente che no, non c’è un gruppo di persone in una stanza, da qualche parte, “just making decisions”, come Obama afferma dal 2012, ma anzi una chiara catena di comando che troviamo ben descritta in una slide dal titolo: “Passo 1 – Da Identificare un obiettivo ad Autorizzazione di un obiettivo”.

Inoltre, proseguendo nella lettura, è chiaro che l’amministrazione Obama preferisca nettamente uccidere sospetti terroristi piuttosto che identificarli e catturarli per effettuare indagini, nonostante abbia sempre e con forza sostenuto il contrario, adottando così l’approccio definito Find, Fix, Finish, Exploit, Analyze, and Disseminate (F3EAD), come sottolineato da Cora Currier dell’Intercept nella conversazione col reporter di ProPublica.

È anche evidente come le forze militari e di intelligence statunitensi non abbiano a disposizione appunto le piattaforme di intelligence, di sorveglianza, identificazione e riconoscimento di cui dicono di aver bisogno, e che pretendono: “Chiedono sempre di più, ancora e ancora, non sarà mai abbastanza”, conclude a proposito la Currier.

Veniamo inoltre a conoscenza del fatto che l’operazione Haymaker in Afghanistan – durata cinque mesi e conclusasi a febbraio 2013 – ha registrato un totale di “35 jackpots”, termine utilizzato per segnalare la neutralizzazione di uno specifico obiettivo. Tuttavia le vittime nel corso dell’operazione, definite EKIA (Enemies Killed In Action), sono state in realtà più di 200. Classificate come “danni collaterali”.

C’è anche la storia di Bilal el-Berjawi, cittadino britannico di origine libanese sospettato di avere forti legami con al-Qaeda cui il Regno Unito aveva revocato la cittadinanza. Inserito in una kill-list dagli Stati Uniti. È noto che el-Berjawi è stato ucciso nel gennaio 2012 in Somalia, da un missile che ha centrato la sua automobile. Ciò che non era noto, e che l’Intercept rivela, è che il sospetto terrorista era stato monitorato per i cinque anni precedenti dall’intelligence statunitense, e che la sorveglianza cui era stato sottoposto il suo cellulare ha in effetti contribuito a determinate il colpo che lo avrebbe ucciso appena fuori Mogadiscio.

Ma più in generale, a sollevare molti dubbi e domande resta il fatto che solo una bassa percentuale degli individui compresi nel target sono stati effettivamente eliminati nel corso delle operazioni, il che torna a sollevare la solita questione e rinfocolare le già note polemiche: come i molti attacchi aerei sono stati condotti? E, soprattutto, quanti “military-age males” sono stati effettivamente colpiti involontariamente, aggiungendo nuove vittime al numero di coloro che non erano obiettivo degli attacchi?

Rispondere a queste domande è importante, ed è il vero, intricato nodo che la pubblicazione di questi ultimi documenti riservati dovrebbe contribuire a sciogliere, dal momento che il lavoro e il servizio svolto dall’Intercept – che pure a differenza di altri ha saputo tener conto delle informazioni di contesto necessarie e delle molte pubblicazioni precedenti – in realtà conferma e illumina gran parte di ciò che sapevamo, pensavamo di sapere, o sospettavamo sugli attacchi effettuati con droni dagli Stati Uniti.

L’obiettivo di “The Drone Papers” deve essere dunque quello di richiedere che finalmente venga aperta un’inchiesta ufficiale e pubblica sulle politiche statunitensi nella guerra al terrore, per far luce su un tema sul quale per troppo tempo l’opinione pubblica mondiale è stata tenuta all’oscuro.