Rifiuti solidi umani

Strada per il Nicaragua, direzione Las Manos, ruta Panamericana, città di El Paraiso, Honduras: c’è una deviazione. Come tutte le deviazioni, devi scegliere se prenderle, oppure se tirare dritto.

Gabriella Ballarini, dall’Honduras

Io ho svoltato a sinistra e sono andata verso il basurero (la discarica) della città e lì ho incontrato Luis, sua moglie e la sua bambina.

Ho portato un succo di frutta al tamarindo, qualche bicchiere e la mia macchina fotografica. Avevo chiesto il permesso di far loro visita la settimana precedente, quando siamo andati a scaricare i nostri sette sacchi di rifiuti, mischiati, maleodoranti, buttati lì e due ragazzi ci sono corsi incontro, sono saliti sul pick-up e ci hanno scortati fino all’ingresso.

C’è molta gente oggi alla discarica, donne, uomini, bambini. Tutti a cercare, tutti a selezionare e a riempire altri sacchi. L’odore che sale da quelle montagne spigolose è come quello delle spugne bagnate dimenticate per mesi, delle sigarette messe a macerare nell’acqua stagnante, un odore che brucia le narici e incendia i polmoni, odore che ti fa salire lo stomaco fino alla gola. Le mosche poi, appoggiate su tutto ed ogni cosa, le mani piene di mosche, gli occhi pieni di mosche, le bambole e i resti di cibo, le scarpe spaiate e le carcasse di radio impigliate nel filo spinato, tutto pieno di mosche.

Saluto e poi Luis mi fa entrare in casa sua. Una baracca di lamiere e ritagli di stoffa, una catasta di rifiuti male organizzati che Luis sposta con un paio di gesti precisi e ci fa spazio, pulisce le sedie sconnesse, che però fanno il loro lavoro e ci accomodiamo.

Tiro fuori il succo e dico loro che sono molto felice che sia tornata la luce, almeno possiamo bere qualcosa di fresco, loro sorridono e insieme beviamo. Luis dimostra almeno 45 anni, ma ne ha solo 29, tra pochi giorni farà il compleanno. Ha un paio di denti e un cappellino bianco. Le mani sono rigate dal suo lavoro, ogni mattina lui prende il suo carretto e va al paese, raccoglie i rifiuti e quello che guadagnerà se lo terrà per mantenere la sua famiglia.

“Io non ho scelto di vivere qui, questa è la casa dove mia nonna è morta, è lei che mi ha portato qui, qui sono cresciuto”.

Accendo il registratore perché  ho promesso a Luis che scriverò la sua storia, parola per parola, per non perderla, per restituirgliela, insieme a un po’ di latte e qualche vestito per la bambina, come segno di gratitudine per questo tempo passato insieme.

“Noi siamo quelli che si prendono cura della discarica, per un povero questa è una possibilità, meglio che andare in giro a fare niente, no?”

Ad ogni frase Luis sorride e mi racconta anche di quando si innamorò di sua moglie: “quando l’ho vista la prima volta mi è piaciuta, poi andavo via e diventavo triste, allora ho capito che era lei che mi rendeva felice, così sono tornato a Santa Cruz e me la sono portata via”.

La moglie di Luis ci guarda e sorride. Il marito racconta storie di alcolismo, di violenza e dice: “io ho deciso di smettere di bere per non perderla, se perdo lei, perdo tutta la mia vita, non rimane più niente. Il vizio ti mangia tutto, distrugge tutto. Attorno non rimane nulla”.

Chiedo a Luis come si sta qui di notte, glielo chiedo perché sento da lontano il volare degli avvoltoi, lui mi racconta che “di notte ci siamo solo io e lei e la bambina, c’è una solitudine totale, non ci sono case qui, io e lei ci mettiamo fuori, seduti e ci godiamo il silenzio. La sensazione è bella, ci si sente bene, non c’è nessuno che ci disturba. Quando stavo qui senza la mia famiglia, era duro. E’ stato in quel momento che ho cercato di perdermi, di dimenticarmi. Per fortuna poi è tornata, per fortuna mi ha dato un’altra opportunità”.

La moglie di Luis non si è mossa dalla porta, è rimasta in piedi, non c’erano altre sedie, mi guarda e le chiedo com’è vivere qui, lei che lo ha scelto per seguire suo marito.

“Io ho studiato solo fino alla prima media, poi mi hanno tolta da scuola, eravamo molti fratelli e bisogna decidere chi far studiare. Io volevo studiare, volevo essere qualcuno nella vita. Ma poi sono finita qui e una volta un signore voleva farci del male e io ho avuto paura per me e per la bambina, volevo andare via, lontano, chè non mi trovasse nessuno. Qui poi siamo poveri, la bambina rischia molto a vivere qui, le mosche le fanno venire la febbre. Una volta la febbre saliva e saliva e un giorno sono arrivati quelli della televisione e ci hanno fatto le foto e c’era uno del comune e ci hanno promesso qualsiasi cosa ed io mi sono sentita così felice, che qualcuno ci aiutasse, ma non è mai arrivato nessuno, nessuno è mai tornato. E poi mia figlia ad un certo punto non si muoveva più, non sapevo che fare, ero disperata, ho portato la mia bambina da una dottoressa. L’ha salvata. Io posso anche morire all’improvviso, ma morire poco a poco, no”.

Luis dice che lui non ha paura della morte, gli scatto una foto e lui continua a parlare.

Ridiamo insieme, gli ultimi minuti, finiamo di bere i nostri bicchieri. Luis mi guarda e mi dice che non gli era mai successo che qualcuno venisse a sedersi qui e a parlare con lui. Gli prometto che scriverò la sua storia e gliela porterò prima di tornare in Italia, mentre lo dico penso che forse non sa nemmeno leggere, ma ormai è troppo tardi: ho detto.

Lascio la bottiglia di succo sul pavimento di terra, la bambina continua a fissarmi dritto negli occhi, abbarbicata nel suo passeggino, ha una gonnellina nera e una maglia a righe, le accarezzo una guancia e poi mi alzo dalla sedia.

Sono più di cinque anni che vengo in questa piccola città, non ho mai svoltato veramente a sinistra, ma questa volta sì. Lo stomaco è aggrovigliato, così come i pensieri. Imbocchiamo il viale, prima però voglio riavvicinarmi alle mucche che mangiano i rifiuti, chiedo se queste sono mucche che poi verranno macellate, mi dicono di sì, che così funziona.

Scatto l’ultima foto e mi stringo nelle spalle, scaccio le ultime mosche e saluto i miei vicini di casa.