L’Oriente di Pasolini

Intervista a Roberto Villa, compagno di viaggio di Pier Paolo Pasolini in Yemen

“Io amo quel mondo, l’Oriente, ma senza nostalgia. Lo amo per quello che è ancora, e lo amo per quello che adesso è e temo che cambi”. Pier Paolo Pasolini a Federico Rossi, 1974

di Marta Clinco

Roberto Villa, fotografo genovese, si trasferisce a Milano nel 1970.
Poco più di un anno dopo incontra Pasolini a un dibattito sul tema “Cinema e Televisione”.
“Avevo avuto l’ opportunità di parlargli dei miei interessi linguistici per le arti spazio-visive, e nello specifico della fotografia e del cinema. Non solo si era reso disponibile a parlarne, fece di più: mi invitò, qualora avessi voluto, a raggiungerlo in Medio Oriente, dove avrebbe girato Il fiore delle mille e una notte. Avevo caricato le mie due Nikon F2 – una per il colore, l’ altra per il negativo, bianco e nero o colore – e una serie di ottiche in una grande borsa Nikon di cuoio che conservo da allora. Ancora una volta, rinunciando a oltre tre mesi di attività professionale, sono partito per andare in Yemen, su quel set dove avrei documentato qualcosa di imperdibile e irripetibile”.

Ma Roberto Villa, fin da piccolo, voleva fare lo scrittore.
La fotografia era una cosa di uso famigliare – solo perché l’ uso delle fotocamere era complicato, gli anziani non vedevano bene i comandi e non li capivano. E le macchine fotografiche, in famiglia, erano sempre un prestito degli zii.

Roberto, 10 anni soltanto, decide di fare un grande passo. Acquista la sua prima fotocamera: “Comprai, pieno di orgoglio, una Comet Bencini da 3.000 lire. Tempi in cui lo stipendio medio era di 25.000 lire!”
La Comet era una minuscola macchina fotografica, corpo in alluminio pressofuso, pellicola “127” e negativi di 3×4 cm, obiettivo “azzurrato”. In quegli anni – dicevano – l’alluminio aveva un “grande futuro”.
Per la pellicola erano 500 lire al mese.

La sua passione era diventato un fatto familiare: “I miei quattro fratelli, la mamma, il papà e i parenti tutti, volenti o nolenti, sono stati cavie e beneficiari della mia mania di fare foto”.
Il ritratto è sempre stato l’interesse primario. Le foto erano in bianco e nero, raramente a colori (costavano troppo).

Intorno ai quattordici anni ho iniziato a leggere tutte quelle complicatissime riviste di tecnica fotografica, tutta la saggistica su arte e cinema.
“Ero diventato un esperto, anche per via del piccolo laboratorio di sviluppo e stampa che avevo creato nel bagno di casa. Neanche a dirlo, stampavo di notte, ovviamente nella speranza che nessuno avesse urgenze…”.

Le macchine erano state un crescendo: Agfa, Voigtlander, Contax, Edixa. Solo nel 1960 la prima Nikon. “Un passo lunare”.

Mentre svolge l’attività di fotografo dilettante e “finto semi-professionista” – con piccoli lavori per riviste locali, per i teatri genovesi, etc. – continua gli studi di elettronica.
“Bastava la presenza di una fotocamera di grande nome e prestigio a dare l’idea di una professionalità autentica, piuttosto che di un “fotoamatore evoluto”, come si diceva allora”.
Il passaggio all’attività professionale tout-court inizia nel 1970, l’anno del trasferimento a Milano, e iniziano anche ad arrivare i primi lavori importanti.

“Mi sono sempre sentito più un ingegnere prestato alla fotografia che un fotografo a pieno titolo, almeno secondo i canoni dell’ epoca. E pensare che anche negli anni ’70 occorreva chiedere un permesso di pubblica sicurezza e una licenza comunale per ottenere l’autorizzazione di fotografo ambulante. Mentre usavo una delle più avanzate fotocamere allora disponibili, la Nikon F2, la burocrazia considerava l’attività fotografica come quella dei primi fotografi dell’ Ottocento: il fotografo era colui che, dotato di macchina a soffietto e cavalletto, di una tenda cappuccio, nonché alambicchi vari, si aggirava per le strade per catturare immagini di passanti o di paesaggi, farne sviluppo immediato e riceverne compenso. Oltre a questo, c’era l’ obbligo di tenere sempre a disposizione della polizia i negativi delle riprese”.

In quegli anni, lo “Studio fotografico” non era nemmeno indicato nelle professioni previste dall’ufficio Iva.
Questa logica molto restrittiva – sia in termini burocratici, sia professionalmente – porta Villa a realizzare quasi sempre lavori remunerativamente prossimi allo zero, ma di alto livello culturale e artistico “non già per presunte capacità fotografiche, ma per i soggetti vittime dei miei scatti. E ciò che ha sempre guidato le mie scelte è stato il desiderio di costruzione di documenti per la memoria”.

Così, collaborando con diverse riviste “insignificanti nel mercato editoriale”, Villa ottiene tessera stampa e accrediti: si trova a fotografare i Beatles, Vittorio Gassman, i New Trolls, Dario Fo, e molti altri.

“Avevo accumulato esperienza più che a sufficienza per passare alla professione. Tuttavia, visto il basso credito di cui i fotografi godevano sia presso i giornalisti, sia presso gli ambienti culturali in genere, mi iscrissi ai grafici pubblicitari, categoria alla quale era concesso di svolgere qualsiasi attività di comunicazione, dalle riprese video ai layout grafici, dalle interviste scritte a quelle TV, dalle riprese fotografiche alla registrazione di dischi, etc.”.

In quell’ottobre 1970 Villa era arrivato a Milano.

Poco tempo dopo, l’incontro con Pasolini. E infine lo Yemen.

 

L’occhio di Villa dietro la lente che ci regala questi scatti segue Pasolini e la sua troupe per diverse settimane, documenta l’artigiano bolognese alle prese con una strumentazione leggerissima e facile da trasportare. In uno Yemen ancora sostanzialmente intatto e incontaminato, si intrecciano i volti popolari portati dal regista impegnato nell’ultimo atto della Trilogia e quelli antichi del vicino Oriente, i loro sguardi densi e profondi e crudi, essenziali e veraci – la materia del Maestro. Il dialogo che Pasolini innesta con il luogo e con la sua gente è ben visibile sia nella sua pellicola che in quelle di Villa, i quegli scatti che – oltre a documentare l’imperdibile e l’irripetibile – rendono anche le prime avvisaglie dei conflitti che perdurano e dilaniano il Paese.