Pasolini del giorno dopo

Il giorno dopo era una domenica nuvolosa e umida. Avevo 11 anni e c’era la partita, al vecchio campo sportivo, quello coperto di polvere nera perché, dicevano, c’era la ferrovia che passava lì vicino.

di Leopoldo Santovincenzo

La voce correva attraverso la tribuna sbrecciata, prima un sussurro impercettibile, una parola misteriosa nell’aria grassa di goccioline, poi, sempre più nitida e agghiacciante, un’intera frase: “Hanno trovato la testa di Pasolini in una valigia”. In quel fantasioso racconto, rubato per caso alle due di un pomeriggio autunnale poche ore dopo quello che diventerà, e per sempre, il 2 novembre 1975, c’era tutto il clima morboso e sensazionalistico, da cronaca nera anni ’50, che aleggiava in Italia, in quegli anni, intorno alla figura di Pier Paolo Pasolini. A casa mia, come in molte case italiane, qualcuno dei suoi libri c’era anche se non li avevo mai aperti, tutto quello che sapevo era che c’erano delle “parolacce”, lì, stampate, nero su bianco. E al tempo non avevo ancora visto nessuno dei suoi film. Ma Pasolini esisteva, per tutti, a prescindere dalle sue opere. Perché il suo volto severo ed enigmatico spuntava alle volte in televisione, perché la cognizione della sua omosessualità in un paese in cui ancora era necessario occultarla dava scandalo, perché dei suoi articoli si parlava in giro, perché era molto odiato. “Hanno fatto bene ad ammazzarlo quel porco!” ho sentito dire, il giorno dopo da una brava madre di famiglia che conoscevo da quando ero nato. E mi ritrovai a chiedermi, tra me e me: ma cosa avrà fatto di così terribile da suscitare questo livore così primitivo in una casalinga di provincia?

Il secondo ricordo è di qualche mese dopo. Il mio portone era a pochi passi dall’entrata del Modernissimo. Un tardo pomeriggio uscivo di casa con mia madre e sulla porta del cinema, accanto alla cassiera, la signorina Dora, c’era un giovane uomo, pallido in volto, che fumava una sigaretta, visibilmente turbato. Mia madre si fermò a salutare Dora e nella chiacchierata intervenne anche l’uomo che era appena dovuto uscire dalla sala, durante la proiezione, per un improvviso malessere. Non aveva l’aria di un moralista e neppure sembrava appartenere alla torva schiera di coloro che odiavano Pasolini. Sembrava semplicemente uno spettatore casuale, di quelli che esistevano al tempo, che uscivano per andare a cinema, non per vedere un film. E quel giorno si era trovato davanti a Salò. A un tratto disse: “Signora, mi creda, io sono un uomo sposato ma a un certo punto non ce l’ho più fatta, sono dovuto uscire…”. Il tono non era indignato ma candido, sinceramente scosso. Mi ha sempre fatto sorridere ricordare quell’inciso – “sono un uomo sposato” – che suonava un po’ come il celebre “Ho fatto il militare a Cuneo!” di Totò. Nell’Italia provinciale e sudista del 1976 “un uomo sposato” riteneva evidentemente di poter vantare un bagaglio di esperienza sessuale precluso a tutti gli altri, una posizione di privilegio che equivaleva a quella dell’ “uomo di mondo”.

Il terzo e ultimo ricordo è il primo incontro personale con il cinema di Pasolini. Era un pomeriggio della tarda estate del 1980 ed ero a casa, con le valige pronte, dovevamo prendere un treno. La televisione dava un film in bianco e nero e c’erano davvero il bianco e il nero: un uomo con pantaloni e maglia nera che cammina a testa china tra i cani randagi nella luce accecante del sole, a picco su strade polverose e casette calcinate, in uno strano luogo che non era più città e non era ancora campagna. Cosa ci faceva su quelle immagini la musica che di solito in televisione usavano come sottofondo di documentari sulla storia dell’arte? Ma c’era un treno che aspettava, era ora di spegnere e uscire. Sulla strada della stazione la mia unica ossessione era di sapere come andava a finire il film, cosa succedeva a quell’uomo con la faccia sudata e impolverata che chiamavano Accattone. “Scappa con una motocicletta e muore” tagliò corto mia madre che evidentemente lo aveva già visto e voleva solo arrivare in tempo al binario.

Ecco, partire da ricordi personali e infantili forse è utile a ricollocare Pier Paolo Pasolini nel suo tempo, in un’Italia che non esiste più. Per provare a capire meglio. Di tutti gli intellettuali e gli artisti che allora tenevano la scena nel nostro paese – dall’onnipresente e onnisciente Moravia al “fiabesco” e rigoroso Calvino – l’unico che non se ne è mai veramente andato è proprio Pasolini.

Fantasma rivestito degli abiti che a ciascuno, da destra o sinistra, dai cattolici agli agnostici agli atei, piace di più assegnargli. In tutti questi anni chi di noi non si è mai chiesto, davanti al carnevale televisivo degli anni ‘80, alle liste di Castiglion Fibocchi, al Muro che si sgretola, alla Papamobile, alle fotografie di Abu Ghraib, alle “cene eleganti” nel chiuso di villa San Martino ad Arcore: cosa avrebbe scritto Pier Paolo?

Eppure, a far di conto, dal suo esordio inatteso e abbacinante nel cinema all’ultima sconvolgente incursione, passano solo 14 anni. In poco più di un decennio da regista, Pasolini inventa un universo poetico e antropologico che prima non esisteva, nobilita sul grande schermo il genere dell’inchiesta televisiva, mette in scena due crocefissioni, affronta l’allegoria picaresca e quella borghese, il racconto breve e la metafora, guarda all’India e all’Africa, porta in scena il sesso vitalistico e quello funereo, i classici e la materia vile, sfida la censura e abiura se stesso, è denunciato da ex-deputati democristiani e anche dall’Associazione Nazionale Alpini, duella nel dibattito del giorno dopo con il colto e l’inclita, traspone Matteo e Sade, viene sequestrato e dissequestrato mentre la polizia dissemina di agenti in borghese le sale dove sono proiettati i suoi film. Il primo assalto dei fascisti – al Barberini il 22 novembre 1961 – è per Accattone, l’ultimo – al Rouge et Noir l’11 marzo 1977 – è per Salò.

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Pasolini ha attraversato questa temperie senza eguali in giacca e cravatta, concentrato, lucido, impavido. Come il primo giorno delle riprese di Accattone, quando si presenta con sottobraccio una borsa piena di disegni delle inquadrature da girare e riesce a sedurre i diffidenti cinematografari romani, da Tonino Delli Colli al montatore Nino Baragli, con una visione netta e una determinazione da studente che ha fatto per bene i compiti a casa.

Pier Paolo arriva sul suo primo set nell’aprile del 1961 – davvero in giacca e cravatta, in piedi accanto alla macchina da presa, come testimoniano le foto del set – non per scoprire il cinema, per officiare la sua “nascita”, come scriverà più tardi, con il consueto afflato epico, il giovane aiuto Bernardo Bertolucci, ma per mettere in pratica una riflessione sul linguaggio cinematografico che ha intrapreso con la caparbietà dell’intellettuale che già da anni osserva, elabora, teorizza.

Si legga, per credere, la sua recensione della Dolce vita scritta nel febbraio 1960 in cui analizza l’uso delle inquadrature e dei movimenti di macchina con l’occhio di uno studente famelico di sapere e pronto a scendere in prima persona nell’agone accantonando per qualche tempo le lettere. “Ogni arte ha i limiti della sua tecnica. Moltiplicando le arti, allarghiamo i limiti” dichiarerà nel dicembre 1961 a Michèle Manceaux, in un’intervista per L’Express.

Il suo lavoro di sceneggiatore, per film di cui è di volta in volta orgoglioso o insoddisfatto, è un lento avvicinamento a quel primo giorno di riprese, una scuola serale per un lavoratore infaticabile che intanto insegna, scrive, raccoglie e traduce poesia, pubblica romanzi.

Come già il letterato, il Pasolini regista non ha abbandonato la scena dopo la sua morte ma continua ad presidiarla con la sua opera e con la sua voce, con il suo volto e con i volti degli attori che lo incarnano dentro il cinema degli altri (da Willem Dafoe a Massimo Ranieri). Insieme a Federico Fellini è l’unico rimasto in piedi sul campo della battaglia che ha spazzato via, in qualche decennio, quella eroica stagione del nostro cinema che va dal dopoguerra agli anni ’60, quando gli sguardi di tutti gli spettatori e di tutti i cineasti del mondo erano posati su Roma. Le icone Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni appartengono ormai a un’altra era, materia da libri di scuola, imprescindibili per scrivere la Storia, inutilizzabili oggi come manuale di sopravvivenza.

“Aveva qualcosa di avido negli occhi, di attentissimo, una curiosità vivida, inesausta. La sua qualità che ho sempre apprezzato era la disponibilità ad essere un artista che assorbe, assimila, trasforma, ma, nello stessi tempo, una parte del suo cervello sembrava un laboratorio preciso, attentissimo, dove quello che l’artista aveva creato veniva vagliato, giudicato, in generale con un consenso. Era insieme creatore e critico acutissimo, implacabile, di quel che aveva inventato. Una qualità, questa inesauribile presenza critica, che a me per esempio manca completamente” ricorda Federico nel 1992 rivelando cosa in fondo davvero ci manca di Pier Paolo: l’implacabile capacità critica.

E il rapporto tra Pasolini e Fellini, così diversi tra loro ma con un’attrazione reciproca che li ha resi prima collaboratori, poi amici, poi quasi nemici ( Federico sarà per Pier Paolo il “Gran Mistificatore”, l’ “elegante vescovone” che promette di produrre il suo esordio e poi lo lascia cadere forse per paura, per indifferenza verso i film degli altri, per distrazione ) ma sempre ammiratori l’uno dell’altro, ecco, quel rapporto andrebbe studiato e approfondito perché probabilmente contiene il nodo di una storia, quella italiana, che si è interrotta e non è mai ripresa.

Salò e Prova d’orchestra restano le ultime grida di avvertimento che degli intellettuali italiani abbiano lanciato prima del baratro.

E poi, il vuoto.