Afghanistan, stanco di guerra

La battaglia di Kunduz e tutta la fragilità di un paese lacerato da una guerra sanguinosa e inutile, almeno per i civili

di Laura Cesaretti, da Kabul

I talebani che conquistano città, ospedali bombardati da ‘fuoco amico’, truppe che rimangono, e infine, un terremoto. In questi ultime settimane, l’Afghanistan sembra aver riconquistato il doloroso onore dell’attenzione internazionale. Molti dibattiti, analisi critiche più o meno approfondite, e tanto, tanto parlare. La realtà, come sempre però, rimane più difficile da raccontare.

Un terremoto fa paura ovunque, ma la reazione delle donne in un centro ricreativo a Kabul spiega molto di più di cosa può significare qui. Ragazze incinte si sono buttate per terra piangendo, alcune hanno incominciato a urlare in preda al panico, altre ancora sono rimaste immobilizzate in preda al terrore, come racconta un’operatrice che si trovava in stanza con loro.

Non esistono reazioni moderate in Afghanistan: davanti ad un attacco, disastro naturale o un semplice incidente ci si spaventa in maniera anomala, o si fa finta di niente, rivelando la più intima e surreale natura di ogni essere umano. Quello che rimane assurdo invece, sono gli stranieri nati e cresciuti al di fuori di queste dinamiche, che prendono a volte in giro reazioni apparentemente immature, mentre cercano sui social network di educare gli Afghani anche in questo.

L’Afghanistan, come ogni altro luogo del resto, va invece capito e analizzato con le fratture sociali, psicologiche e storiche legate al suo territorio, non ad altri. L’unica cosa che dovrebbe rimanere certa, per chi come me vive qui temporaneamente, è che depressione, stress traumatico e mal di vita fanno parte della quotidianità di ogni Afghano, e ognuno si comporta sopravvivendo come riesce. “Questo è un paese ormai molto empatico, se qualcuno fugge, fuggono tutti quanti, anche se le autorità continuano a dire che è tutto a posto”, mi spiegava qualche giorno fa una ricercatrice, parlando della presa della città di Kunduz da parte dei Talebani avvenuta il 28 settembre scorso.

Più che per il suo significato politico, infatti, la cattura, seppur per dieci giorni, della città capoluogo dell’omonima provincia a nord del paese, ha avuto conseguenze drammatiche soprattutto nella percezione di sicurezza da parte della popolazione. Molti sono ritornati a Kunduz in questi giorni, e i negozi hanno riaperto già da qualche settimana, ma sarà difficile continuare i progetti umanitari avviati, trovare personale disposto a collaborare e garantire la partecipazione a progetti governativi dopo che la città e stata abbandonata a se stessa con tanta facilità.

Il ruolo delle milizie pro-governative attive sul territorio rimane, infatti, ancora poco chiaro. Molti combattenti non si sono ne’ alleati con le forze insurrezionaliste, ne’ hanno fatto nulla per fermarle. Il presidente Ghani ha creato una commissione d’inchiesta per investigare sui fatti avvenuti, ma il sentimento popolare ha già decretato la sua sentenza: la presa di Kunduz poteva essere evitata.

Quello che è mancato, probabilmente, è stata la coordinazione tra forze governative centrali e locali. Sono in molti a credere che non sono i Talebani ad aver dato prova di forza Kunduz, ma sono state le politiche di accondiscendenza, perpetuate con il supporto delle forze alleate, a rivelarsi in tutta la loro debolezza e inefficienza. Kunduz è sempre stata una regione particolare, storicamente legata alle etnie Tagike e Uzbeke e in seguito ripopolata dai Pasthun durante un progetto di mescolamento etnico voluto dal governo centrale negli anni 30.

Intorno al 2008, i Talebani hanno iniziato ad espandersi anche in questa zona, alla ricerca di un accesso logistico verso il nord. Le forze internazionali presenti sul territorio, rappresentate dalle truppe tedesche, hanno iniziato ad essere più attive, delegando la sicurezza necessaria soprattutto alle milizie pro-governative appartenenti agli ex combattenti dell’Alleanza del Nord. Il gioco di offensiva e ritiro nei distretti della regione è andato avanti così per molto tempo, accentuandosi notevolmente negli ultimi mesi.

“Ogni milizia contro i talebani è una milizia buona”, aveva dichiarato qualche tempo fa il capo della polizia locale. Il risultato è stato un inasprimento di odi etnici e scontri tribali. I pashtun, spesso accusati di essere alleati dei Talebani, sono stati vittime di abusi, violenze e discriminazioni da parte delle forze pro-governative locali. I tagiki, che speravano di ottenere ruoli più rilevanti proprio in nome di quel sangue versato nella lotta contro i Talebani, sono rimasti a bocca asciutta nella divisione di potere, e insieme a loro anche gli Uzbeki.

Il risultato è stato una città affidata a milizie e poliziotti locali legati più all’etnia e al desiderio di rivendicazione che al senso civico nazionale. Per questo, alla notizia dei raid e stupri da parte dei talebani, sono stati in molti a storcere in naso. In una realtà fatta di gruppi armati in cerca di arricchimenti, è probabile che in molti si siano approfittati della situazione più che un solo gruppo che già faticava a mantenere il controllo della città.

“I talebani si sono macchiati di tanti crimini a Kunduz, come uccidere persone innocenti, ma è difficile credere che abbiamo perpetuato stupri”, hanno commentato alcuni giornalisti del posto. Uno dei motivi per il loro successo nel 1994, infatti, è stato proprio questo, proteggere i civili dal caos di forze armate e indisciplinate che agivano come barbari abusando su una o l’atra parte della popolazione. Ed è questa situazione di pieno caos che è stata conquistata Kunduz in maniera cosi apparentemente improvvisa. Il periodo dell’Eid poi, una delle festività più importanti per i musulmani, ha facilitato sicuramente l’accesso alla città a combattenti stranieri e provenienti da altre regioni.

In quei giorni si è soliti far visita alle famiglie di appartenenza, e un numero elevato di volti sconosciuti per le strade non deve essere sembrato allarmante. La città è caduta dall’interno, è vero, con molti che si sono uniti ai Talebani anche sul momento, ma il terreno era già fertile e la mancanza di autorità evidente.

“Non credo che le forze internazionali possano fare molto a questo punto”, mi spiega un ricercatore locale. “L’unico in grado di operare con efficienza in queste situazioni è l’esercito afghano, che porta con sé un patriottismo che va al di la delle divisioni etniche”. Ma in realtà, l’esercito afghano è troppo piccolo, troppo provato e con troppi pochi mezzi per poter agire efficacemente su tutto il vasto territorio nazionale ora in fermento. E allora non rimangono che queste milizie alle quali le forze internazionali si sono affidate fin ora, temute e amate allo stesso tempo per il lavoro che svolgono in regioni come Helmand, a sud del paese, dove rimangono efficaci e assolutamente necessarie.

Al governo afghano, che ufficialmente le disapprova, resta veramente poca scelta. Non solo le truppe internazionali sono diminuite, ma anche gli investimenti e ogni tipo di appoggio finanziario continua pian piano a sparire insieme alla rilevanza internazionale del paese.

La domanda allora, che si sente ripetere negli uffici e salotti della capitale, è se veramente Kunduz possa rimanere un caso unico, o se questa mancanza di supporto concreto e strategico porterà anche altre regioni all’instabilità, seppur con dinamiche diverse. E mentre si discute, gli scontri continuano in altre regioni contro un numero sempre più elevato di attori, non solo Talebani, pronti a tutto per la loro fetta di ricchezza in questa terra devastata dalla povertà.

E’ in questo scenario che si chiede agli Afghani di rimanere, di aver fiducia, e sacrificare la loro vita per amore della propria terra. Ma è il sentimento di abbandono che domina la quotidianità di ognuno nato e cresciuto qui, e di certo non se ne’ può fargliene una colpa. Quel che resta è solo un Inshallah, se Dio vuole, anche quando ci si organizza per un tè. Perché domani non si sa, e oggi neanche.