Ecuador: boomerang per Chevron

Caso Chevron-Ecuador, il testimone ritratta e per la multinazionale petrolifera sono dolori

di Tancredi Tarantino
http://www.recommon.org/

 

Doveva essere il testimone chiave di Chevron nel processo contro gli indigeni amazzonici dell’Ecuador ma a sorpresa l’ex giudice Alberto Guerra ha ammesso di aver mentito, trasformandosi in un pericoloso boomerang per la compagnia californiana.

Dopo che nel 2012 il gigante petrolifero fu condannato in via definitiva a un risarcimento di 9,5 miliardi di dollari per i danni causati nel nord dell’Amazzonia ecuadoriana, lo scorso anno un giudice federale di New York, Lewis Kaplan, aprì un procedimento penale per
frode e corruzione contro i rappresentanti delle vittime.

Secondo l’accusa gravissima mossa negli Stati Uniti, gli avvocati degli indigeni e alcuni leader delle comunità amazzoniche sarebbero stati a capo di un’organizzazione criminale che avrebbe corrotto i giudici ecuadoriani al fine di ottenere una sentenza a loro favorevole.

L’accusa fa riferimento al cosiddetto RICO Act, una legge federale degli anni ’70 pensata per combattere il crimine organizzato. L’intero processo RICO si regge sulle testimonianze di Alberto Guerra, l’ex giudice ecuadoriano che sotto giuramento aveva raccontato di una sentenza pilotata, “comprata” dalla vittime di Chevron. Guerra sosteneva di aver fatto da tramite tra gli avvocati degli indigeni, che avevano presentato una class action contro il colosso americano, e il presidente della Corte ecuadoriana di Sucumbíos, Nicolás Zambrano,
che doveva pronunciarsi su quello che nel paese andino è conosciuto come il processo del secolo.

A detta di Guerra, gli avvocati delle vittime avrebbero redatto una prima bozza della sentenza che in Ecuador condannò Chevron al pagamento di un risarcimento di 18 miliardi di dollari, poi ridotto alla metà. Lo stesso Guerra avrebbe rivisto la bozza, mentre il giudice Zambrano avrebbe firmato la definitiva sentenza di condanna. Il tutto in cambio di una tangente di 500mila dollari che gli avvocati delle vittime avrebbero pagato ai due giudici.

Pochi giorni fa il colpo di scena. Nel corso di un interrogatorio a Washington, realizzato all’interno di un arbitrato internazionale che Chevron ha avviato contro l’Ecuador, Alberto Guerra ha ammesso sotto giuramento che buona parte delle dichiarazioni rilasciate nel processo RICO erano false e che non ci sono evidenze per corroborare la denuncia di corruzione ai danni delle vittime di Chevron-Texaco.

Un’ammissione che potrebbe rappresentare la svolta definitiva della lunga storia processuale che da oltre vent’anni vede le comunità amazzoniche di Sucumbíos e Orellana opporsi a una delle multinazionali del greggio più potenti al mondo.

Dal 1993, anno in cui un gruppo di appena quindici indigeni denunciò la compagnia americana, ci vollero ben diciotto anni per dimostrare al mondo le responsabilità di Texaco – acquistata nel 2001 da Chevron – in quello che da molti è considerato il più grave disastro ambientale della storia.

Tra il 1964 e il 1990, Texaco sversò nella foresta pluviale ecuadoriana 80 miliardi di metri cubi di rifiuti tossici e 70 milioni di litri di petrolio, decimando le comunità indigene della zona e
distruggendo per sempre un patrimonio inestimabile di biodiversità.

Le falde acquifere furono contaminate per sempre e ancora oggi basta scavare pochi centimetri per riportare in superficie i residui di petrolio sotterrati da Texaco in quasi trent’anni di attività.

Le sorprendenti dichiarazioni dell’ex giudice Guerra fanno il paio con il recente pronunciamento della Corte suprema del Canada, che ha riconosciuto la propria giurisdizione sulla richiesta degli indigeni ecuadoriani di omologare nel paese nordamericano la sentenza
definitiva di condanna contro Chevron. L’omologazione darebbe alle vittime la possibilità di utilizzare gli attivi che la compagnia petrolifera ha in Canada, e iniziare così il lungo cammino dei risarcimenti.

Ad oggi infatti gli indigeni non hanno potuto rivalersi sui beni della multinazionale californiana perché dall’Ecuador fuggì portandosi via tutto. Lasciò soltanto un conto corrente con duemila dollari e una lista infinita di crimini.