Armeni a Marsiglia

L’associazione ARAM e la persistenza della memoria

di Maria Izzo, da Marsiglia

Sono a Marsiglia e mi tornano in mente i versi di Paruyr Sevak, poeta armeno (1924-1971):

[…] dove siamo giunti, dove abbiamo vissuto/
abbiamo faticato per tutti:/
abbiamo costruito ponti,/abbiamo innalzato archi…
ovunque abbiamo lasciato una scintilla dei nostri occhi,
reliquie delle nostre anime, / briciole dei nostri cuori
(Paruyr Sevak, poeta armeno, 1924-1971)

Mi trovo nella periferia a nord della città, a Saint-Jérôme, il quartiere industriale che negli anni Venti ospitava, fra le altre, la fabbrica di tappeti France-Orient. Qui, a partire dal 1923, furono impiegati come manodopera molti degli Armeni sbarcati nella città francese per sfuggire alle persecuzioni turche, prima ottomane, poi kemaliste.

A Saint-Jérôme, come in altre aree della città – Saint-Loup, Beaumont, Saint-Antoine…-, gli Armeni si ritrovarono, dopo aver lasciato la struttura di accoglienza temporanea di Camp Oddo, e iniziarono a ricostruire quella vita di comunità che il Genocidio del 1915 e le violenze successive avevano interrotto, segnando una nuova tappa del loro millenario cammino e aggiungendo, in fondo alla loro antichissima storia, nuove pagine: quelle che l’Association pour la recherche et l’archivage de la mémoire arménienne (A.R.A.M.) da diciotto anni si impegna a ricomporre e conservare.

E sarà forse perché in questo luogo si parla di storia, di memoria, di Armeni e di Marsiglia, mix davanti al quale in nessun caso potrei restare indifferente; oppure per i larghi sorrisi che ho trovato ad accogliermi; sarà per questi o per altri motivi, ma il primo pensiero che la mia mente ha prodotto entrando nella sede di A.R.A.M. è stato: “Addio, treno del ritorno. Addio, Milano. Io resto qui”.

L’associazione è stata fondata da Jean Garbis Artin, nato nel 1930 a Saint-Jérôme in una famiglia di rifugiati armeni. Suo padre, Sahag, sopravvissuto al genocidio e sbarcato a Marsiglia nel 1924, aveva partecipato attivamente alla nascita della comunità armena nei primi anni, quelli più duri, dell’esilio. La propensione all’attivismo e all’impegno nell’ambito della vita comunitaria è passata di padre in figlio: nel 1997 infatti Jean Garbis Artin ha dato vita ad A.R.A.M. con l’intento di raccogliere, archiviare e salvaguardare il materiale storico-documentale legato all’Armenia e alla sua diaspora: lettere, fotografie, libri antichi e moderni in armeno e in francese, documenti d’identità per un totale di circa 20.000 pezzi.

Ma, pur essendo concentrata principalmente sul passato, A.R.A.M. mostra un chiaro orientamento al futuro. Infatti, dal 2010 l’associazione è impegnata in una laboriosa opera di classificazione e digitalizzazione dei fondi documentali, che vengono gradualmente catalogati e resi disponibili sulle pagine internet dell’associazione.

Grazie a questa attività A.R.A.M. vanta collaborazioni importanti: la Biblioteca Nazionale di Francia, gli Archivi Nazionali d’Armenia e Matenadaran, la biblioteca di Yerevan, la capitale armena, dove si trovano antichi e preziosi manoscritti salvati in maniera spesso avventurosa da saccheggi e invasioni straniere.

A.R.A.M. lavora su base volontaria. La stessa documentazione raccolta e classificata arriva da donazioni spontanee: chiunque sia in possesso di oggetti e testimonianze collegati alla cultura armena e alla diaspora può donarle all’associazione perché ne venga preservata la memoria. E’ così che si è creata l’enorme ricchezza che A.R.A.M. custodisce.

A farmi da guida in questo viaggio fra i meandri della memoria armena, Jean, Brigitte e Jacques, presidente dell’associazione. Ci fermiamo poco oltre l’ingresso accanto a un torchio tipografico con i caratteri armeni. E’ il macchinario utilizzato per la stampa di “Haratch”(Avanti!), il primo quotidiano armeno in Europa, fondato a Parigi nel 1925. Dopo la chiusura del giornale, nel maggio 2009, Arpik Missakian, figlia del fondatore Chavarch e direttrice del quotidiano, ha deciso di donare il torchio ad A.R.A.M..

Dall’ingresso si accede a una sala interna, dove sono archiviati libri e documenti di diversi tipi. Qui sono raccolti i certificati di battesimo, utilizzati dai rifugiati armeni come certificati di stato civile provvisorio, e i loro documenti di viaggio, fra questi i passaporti Nansen, che venivano assegnati ad apolidi e profughi e che furono rilasciati agli Armeni in fuga del Genocidio. Sul molti di questi documenti è riportata una sentenza lapidaria: senza diritto di ritorno.

Le mie guide mi mostrano i registri del campo per rifugiati di Camp Oddo, dove sono annotati a mano i dati dei profughi che dal 1922 al 1927 avevano trovato alloggio nella struttura. Si leggono i loro cognomi, i nomi, l’età, il sesso e le poche tracce che rimangono della vita precedente: la provenienza – Smirne, Costantinopoli, Adana, Erzurum… – e la professione.
La visita prosegue nel piano interrato, dove sono conservati alcuni dischi in vinile. Così scopro che l’attività di digitalizzazione non coinvolge solo i documenti cartacei. Infatti, oltre all’archivio digitale dei numeri di Haratch, ai certificati di battesimo, ai registri di Camp Oddo, sul sito di A.R.A.M. è possibile trovare, nella sezione Sonothèque, musica armena tradizionale in formato Mp3.

E non è ancora finita. A.R.A.M. ospita “l’ospedale dei libri”, come lo chiama madame Brigitte, un laboratorio dove vengono restaurati libri antichi, rari o danneggiati, attività tanto più affascinante se si pensa che la civiltà armena ha sempre attribuito un enorme valore al libro e alla scrittura in quanto veicoli di trasmissione culturale. L’industrioso lavoro di restauro librario, quindi, non è solo un’esigenza materiale di conservazione di un documento, è piuttosto la manifestazione di caratteristiche ben radicate nel popolo armeno fin dalle origini della sua travagliata storia: l’attaccamento viscerale alla propria cultura e la capacità di preservarla anche attraverso secoli di traversie.

Mi colpiscono sempre gli Armeni e la loro incredibile e ostinata volontà di sopravvivenza che si legge dappertutto in queste stanze. Fra queste mura una struggente sinfonia di voci, immagini e ricordi racconta un tempo fatto di esilio, fatica e sofferenza. Ma in questo luogo risuona soprattutto un inno alla sacralità della cultura, alla forza delle sue radici e alla persistenza della memoria, filo rosso che unisce passato, presente, futuro e rinsalda i legami comunitari di un popolo, nonostante le violenze e le millenarie peripezie che di quei legami hanno più volte strappato le trame.