Da Gerusalemme a Parigi. Il diritto che unisce

Bandiere di solidarietà, ma la stessa umanità non si riesce a scorgerla nella vittima della porta accanto

di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Lì per lì non ci avevo fatto caso. Circa una settimana fa, stavo guidando per Gerusalemme Ovest, cercando di raggiungere il quartiere di Rehavia. All’incrocio con King David Street, principale arteria di Gerusalemme Ovest, noto le bandiere francesi appese ai pali della luce. Svolto su Agron, e salgo verso Rehavia. Anche su King George Street, altra via storica, è pieno di bandiere. Parigi si è sentita anche qui.

Poi connetto i neuroni e realizzo perché sono così stupita di vedere le bandiere: perché normalmente sono vietate. A Gerusalemme, secondo una disposizione municipale, è vietato appendere, sventolare, mostrare bandiere palestinesi. Lo sappiamo tutti benissimo, ed è il motivo per cui nelle manifestazioni del venerdì di Sheikh Jarrah si mostrano solo cartelli, le bandiere sono poche, solo a sbandierarle si rischia grosso. Solamente le bandiere israeliane sono autorizzate a Gerusalemme, e ne è piena la città.

E invece le bandiere francesi sono lì, che sventolano e svettano sulle vie principali della Gerusalemme israeliana. Mi viene un sorriso amaro. Il dolore è selettivo, un’altra delle lezioni imparate in questi cupi giorni.

D’altronde, all’indomani degli eventi parigini, nessuno ha perso tempo nel dare lezioni di geopolitica, di intelligence, di morale, di religione, e dalla terra molto poco santa è subito partito l’invito del ministro della difesa israeliano a seguire l’esempio del suo stato e a privilegiare la sicurezza sui diritti umani.

Mi chiedo se siamo stati, noi della sponda nord del Mediterraneo – e del mondo, troppo idealisti nel credere nelle nostre dichiarazioni dei diritti dell’uomo, nei nostri trattati internazionali e dichiarazioni universali, che noi stessi abbiamo scritto e per le quali ci siamo battuti e ci battiamo? Così idealisti da dover, ora, ritrattare le nostre stesse basi giuridiche – poiché che tanto non le reclamiamo negli stati dove cadono le nostre bombe, dove la tortura è un approvato strumento di intelligence e le esecuzioni extragiudiziali hanno preso il posto del giusto processo?

Ma la sicurezza, in tutte le sue sfaccettature e dimensioni, non è il più grande diritto umano?

La libertà dalla paura, dalla fame, dalla violenza, la certezza della qualità di vita, dell’istruzione, di uno spazio dove abitare, tutto questo è sicurezza, e se ancora pensiamo che tutti noi, in qualsiasi posto della terra, con l’intero e completo pacchetto dei diritti umani ci nasciamo, allora qui c’è qualcosa che non torna. La sicurezza, nel significato più olistico e inclusivo del termine, è e deve essere per tutti.

In casi come quelli di Parigi, in cui la grande pressione emotiva dei tragici eventi è posta sull’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ora sicuramente amplificata dai social media, il fatto di essere distanti, geograficamente almeno, aiuta a contestualizzare al riparo di ondate di “pancia” e di rabbia, se si ha la fortuna di non avere persone care coinvolte. Si riescono ad individuare dinamiche, reazioni, che purtroppo in altri paesi dove la diseguaglianza dei diritti esiste da un bel po’ e la ricetta della “sicurezza prima di tutto” è applicata da decenni, abbiamo imparato a conoscere – e riconoscere bene. Qui, nella terra sempre meno santa, le conosciamo e riconosciamo tutte. Le abbiamo tutte già provate. Sarà per questo che, per motivi differenti sicuramente, ci sentiamo tutti, di qua e di là dal muro, così vicini a Parigi?

Cara Parigi, il tuo dolore è enorme, ma credi, non si vive bene in un paese in cui il tuo vicino di ristorante ha una pistola nei pantaloni, e non è un soldato. Dove passi un checkpoint in cui i soldati sono gentili e sorridenti, ma in realtà un altro è appostato nella guardiola con il mitra puntato come un cecchino appena pochi metri più un là. Dove se hai la barba e meno di 30 anni, mentre in paesi a nord della Sicilia si griderebbe al racial profiling, sei fermato da almeno tre poliziotti una volta al giorno, messo al muro, perquisito, segnalato e a volte portato via. Senza che ci sia stato reato. Per presunzione di colpevolezza.

Ho un tuffo al cuore ogni volta che qualche ragazzo palestinese, in bici, in motorino, o semplicemente a piedi, viene fermato e perquisito a pochi metri da me. Da qualche parte penso nella testa che se io rimango bene in vista, forse i soldati non gli spareranno. Sono entrata anche io nello scacchiere della tensione a tutto tondo?
Cara Parigi, non si vive bene, nemmeno nel lato Ovest, ad entrare in un ufficio postale e sentirsi chiedere se si possiedono armi, ad essere perquisiti all’ingresso del supermercato. Non si sta bene quando si vive nella percezione continua che tutti quelli attorno a te siano tuoi nemici, magari pronti ad attaccarti, e nemmeno li conosci.

Sono anni, almeno quindici, per noi del “nord del mondo”, che in nome della “sicurezza”, abbiamo abdicato ai nostri diritti. Non so più se arrabbiarmi o ridere all’ennesima telefonata che comincia con il classico brusio da linea disturbata, che qui vuol dire una cosa sola: non si è soli in linea. Perché qualcuno si arroga il diritto di ascoltare le mie (e di tanti altri) telefonate? Per la mia sicurezza?

Per motivi di sicurezza dobbiamo lasciare il bagaglio aperto in aeroporto, e con quattro giorni di ritardo rispetto all’arrivo previsto trovo un bel foglio, tra i miei vestiti ben ben spiegazzati e visibilmente maneggiati, che spiega come la perquisizione sia stata fatta “per la mia sicurezza”.

Non credo che sia così che io, cittadina figlia del secolo dei diritti umani, abbia chiesto di proteggere e garantire il mio e altrui diritto alla sicurezza. Gli strumenti culturali che possediamo ci permettono di elaborare strategie di coesione e sicurezza sociale ben più profonde che un calo della cortina di ferro a tutto tondo, che si applica specialmente se hai la pelle olivastra e la barba nera e ti chiami Ahmad o Fatima.

Cara Parigi, da quaggiù le tue ferite le conosciamo e le riconosciamo bene. Gli hashtag che sostengono il ritorno alla vita normale non sono altro che modalità di resilienza, che qui tutti hanno imparato sulla propria pelle. E per questo non ci si chiama eroi o egoisti, ma naturalmente umani, se si vuole semplicemente continuare a vivere, nonostante anche oggi ci siano stati morti e feriti negli scontri, un altro venerdì di paura, occupazione e sangue in Palestina, nonostante nelle due settimane appena passate non abbia fatto altro che accertarmi che tanti miei cari amici, da Beirut, a Parigi, a Hebron, a Gaza, stessero bene, e non è stato certo divertente. Ma l’alternativa non è l’odio selettivo, l’anestetizzazione del dolore, il cinismo o, peggio, l’ipocrisia dei metal detector.

Cara Parigi, ci unisce il dolore, umano ed universale, ma devono unirci anche i diritti. Il diritto alla sicurezza di tutti, che ha le sue basi nell’uguaglianza, proprio quella del tuo slogan rivoluzionario, è più grande e più importante della sicurezza senza diritti.

Te lo dimostra una terra dove nessun drone dalle forme più strane, nessuna mongolfiera di segnalazione, nessuna intercettazione telefonica può impedire all’ultimo dei disperati di uscire di casa con un coltello e dare sfogo alla sua rabbia più incompresa, inespressa, inaffrontata. E dove la reazione all’ingiustificato – ma, come già scritto su queste pagine, tutto da capire – coltello è, nuovamente, immensamente sproporzionata e ha il solo risultato di istigare un nuovo ciclo di negazione dei diritti e di supremazia della sicurezza.

Non è con la strategia dei checkpoint che si combatte l’odio, né con il mitra puntato che si costruisce la giustizia sociale, l’unica vera conditio sine qua non per riuscire a vivere in coesione, rispetto ed uguaglianza.

Libertà, fraternità ed uguaglianza, da Gerusalemme a Parigi e in tutti i luoghi.