Boicottaggio di nome… e di fatto?

L’inseparabilità delle scelte intellettuali ed economiche: l’associazione degli Antropologi Usa
vota a favore del boicottaggio accademico d’Israele

di Estella Carpi

Lo scorso 20 novembre a Denver (Usa) è stata una data storica per l’American Anthropological Association (AAA), che, nel corso della riunione annuale più popolata nella storia dell’associazione, ha approvato l’appello della società civile palestinese di boicottare le istituzioni accademiche israeliane con una maggioranza di oltre l’88% – ovvero 1,040 voti contro 136. 
Il provvedimento verrà trasmesso la prossima primavera a tutti i membri per una votazione finale a scrutinio elettronico.

La AAA, votando a favore del boicottaggio, intende riaffermare principi anti-razziali e di non-violenza e, allo stesso tempo, estirpare una volta per tutte le radici inizialmente coloniali delle scienze antropologiche.

All’evento, Ilana Feldman, docente di antropologia e diritti umani alla George Washington University, ha specificato l’importanza di supportare la causa palestinese in qualità di professionisti e non solo di individui privati, aldilà delle controversie attuali dell’antropologia nel fungere da eco e testimonianza per i popoli oppressi. Sono gli intellettuali ad avere in primis l’opportunità storica di stare dalla parte dei diritti umani, e a dare quindi efficacia a questo movimento collettivo per la giustizia.

Feldman ha inoltre evidenziato come in particolare negli Stati Uniti si abbia l’assoluta responsabilità di rifiutare lo status quo e sostenere la libertà accademica per tutti. Nel discorso tenuto da Feldman, l’intenzione del boicottaggio è di parlare al pubblico israeliano, ricordando che il no all’occupazione non vuole essere discriminazione del singolo. Vuole parlare al pubblico americano, suggerendo che un cambiamento radicale della politica estera nei confronti di Israele è necessario, perché la situazione attuale non è – e non è mai stata – accettabile. Intende parlare ai colleghi accademici palestinesi, affermando che AAA accoglie la loro chiamata e si sdegna insieme a loro davanti a decenni di oppressione.

Ricercare e pubblicare sulla questione Israele-Palestina non può e non deve bastare più: l’atto politico di sostegno al boicottaggio è diventato una necessità intellettuale per onestà e coerenza verso gli studi che, per l’appunto, son stati condotti sull’argomento.

Da un lato, l’impegno dell’antropologia nell’opporre l’illegalità dell’occupazione dev’essere indubbio quanto il beneficio che tale disciplina sa offrire tramite la ricerca soggettiva e il coinvolgimento individuale dei ricercatori. Dall’altro, resta ignoto come tale boicottaggio verrà messo in atto su un piano internazionale accademico, e quali mezzi utilizzerà per assicurare che la presa di posizione istituzionale non dia luogo alle discriminazioni dei singoli.

Inoltre, la decisione di firmare la petizione a favore del boicottaggio non può esser vissuta come “facile” da coloro che fanno ricerca con sensibilità politica e sociale, giacché la preoccupazione di far più male che bene sussiste pur nella consapevolezza comune che la violenza e l’illegalità odierne abbiano già toccata il fondo.

Atti come il boicottaggio portano spesso a divisioni nel corpo intellettuale, o a pregiudiziare la ricerca e, per alcuni, a politicizzarla con scarsa auto-riflessività. Per di più, si è di fronte al rischio di ipocrisia da parte di alcuni accademici, qualora votino per il boicottaggio delle istituzioni israeliane mentre mantengono la propria posizione in istituzioni finanziate da enti dubbi da un punto di vista etico-politico.

In ogni caso, il voto di maggioranza a favore del boicottaggio è anche un atto di umiltà all’interno della comunità antropologica nei confronti di studiosi che da lunghi anni si sono occupati della questione israelo-palestinese e mediorientale in generale, e che sono ampiamente consapevoli di cosa il boicottaggio accademico possa comportare.

Questa sembra essere stata la posizione dell’antropologo James Ferguson. Secondo questo studioso, il significato del boicottaggio deve risiedere soprattutto oltre gli ambienti accademici, e non deve perdere di vista il vero fine di tale scelta politica: trasformare le istituzioni israeliane piuttosto che esprimere un’opposizione essenzialista e decontestualizzata al regime di violenza in atto. Tuttavia, fin tanto che tale regime persiste, tale opposizione ha il dovere di restare incondizionata.

Restano delle perplessità riguardo alla schiacciante vittoria del boicottaggio quando, all’indomani delle votazioni, si vedono numerosissime tazze di carta raffiguranti il logo di Starbucks – una delle catene commerciali di ristorazione sanzionate dal movimento per il boicottaggio – sui tavoli delle aule del convegno di AAA.

Aldilà della sua legittimità retorica, che efficacia può avere un boicottaggio “intellettuale” se si presta ancora troppa poca attenzione sul fronte consumistico ed economico? Il rischio è davvero quello di alimentare i timori o le accuse tout court della componente accademica che si oppone il boicottaggio, e di render quest’ultimo mera discriminazione istituzionale con scarso impatto sull’impalcatura politico-economica della società israeliana.

Piuttosto, la vera arma contro l’occupazione, e un passo determinante verso la giustizia sociale, sono rappresentate dal boicottaggio economico dei prodotti che finanziano la violenza e le illegalità dello stato israeliano contro la popolazione civile palestinese all’ordine del giorno.

In ultima analisi, il voto di maggioranza schiacciante a favore del boicottaggio accademico – all’interno del cosiddetto BDS (Boycott Disinvestment and Sanctions) – afferma la volontà degli antropologi di contribuire alla legalizzazione delle società in cui il loro lavoro viene prodotto.

Affinché il voto abbia però un riscontro empirico, la narrativa antropologica sui diritti umani e sul diritto internazionale non deve essere “votata” separatamente dalle scelte socio-economiche del singolo – le quali, ovviamente, richiedono un prezzo molto più alto di un braccio alzato in assemblea.

In altre parole, l’atto e il verbo antropologici devono rimanere imprescindibili l’un dall’altro perché l’accademia stessa acquisisca un senso all’interno delle nostre società. E l’antropologia deve chiarire il suo messaggio ora più di prima, nell’era delle più svariate interdipendenze transnazionali e della proliferazione di progetti di ricerca sterili a livello sociale.

Il giorno in cui i singoli rinunceranno al caffè più alla portata di mano negli Stati Uniti e altrove, e non esiteranno a fare due passi in più per acquistare un caffè più giusto e solidale, quei voti promettenti dello scorso 20 novembre troveranno la loro vera ragion d’essere. Perché solo allora il boicottaggio non sarà semplicemente votato, bensì conosciuto nelle sue pratiche e nei suoi effetti, poi “sentito”, e quindi spontaneamente messo in atto.