Do not be Another Brick in the Wall

36 anni dopo l’uscita di The Wall dei Pink Floyd,
intervista all’insegnante di musica
del coro di Another Brick in The Wall (pt II)

di Marta Clinco, tratto da Vulcano Statale

Poche canzoni negli anni ’80 sono state così popolari, così a lungo. E questa l’abbiamo ascoltata tutti, almeno una volta. Se siete stati particolarmente fortunati, anche dal vivo. Certamente la fama transgenerazionale – almeno, di questo pezzo – è in gran parte dovuta al celebre ritornello: una ribellione, una provocazione, una sfida, e allo stesso tempo un inno.

Era contro.

«Il ritornello più famoso dei Pink Floyd, Hey, teacher! Leave those kids alone!, scioccava gli insegnanti severi se cantata fuori dalle cuffiette di un walkman per i tristi corridoi della scuola», racconta Alun Renshaw, l’insegnante di musica del coro che ascoltiamo nella parte II di Another Brick in the Wall, uscita insieme all’album ormai 36 anni fa. Subito nelle prime posizioni delle classifiche inglesi – così come in quelle di vari Paesi europei, Nord America e Australia – tra il 1979 e il 1980 continua a oscillare tra i primi posti delle classifiche.

Il concept The Wall venderà negli anni più di 35 milioni di copie in tutto il mondo: il protagonista Pink, rockstar-feticcio del bassista Waters, rivive la difficile infanzia all’interno del repressivo sistema scolastico inglese, oltre che la perdita del padre nel secondo conflitto mondiale e l’impossibile rapporto col successo, tra picchi di disillusione e nichilismo. Su un calco moderno e popolare dell’anti-eroe, Pink – rotto dalla corsa inesauribile alla ricerca di un senso, di un significato, di una ragione – finisce semplicemente per cercare se stesso: il limite contro cui combatte l’eterna lotta.

«C’è stato un grosso malinteso all’epoca», spiega Alun, mentre scosta la lunga chioma arruffata dalla fronte. «L’album era una dura critica ai giorni che Roger Waters, bassista e voce della band, aveva trascorso nelle scuole autoritarie britanniche: si parlava degli anni ’50, non dell’ambiente educativo relativamente molto più rilassato del 1970». Quando la canzone è stata scritta, molte scuole erano in subbuglio, e in verità i metodi erano da tempo molto più liberi, meno autoritari, meno restrittivi. Renshaw ha trascorso intere settimane a provare il “ritornello ribelle” con i suoi allievi ai Britannia Studios di Londra, a Islington, proprio accanto alla scuola di musica, dove la band avrebbe registrato parte dell’album, poi concluso in Francia e negli Stati Uniti.

«È stato un periodo emozionante, fantastico» ricorda Alun, che all’epoca era giovane, e ora ha più di settant’anni.

L’ex insegnante e compositore ora vive a Monte Druitt, Sydney ovest, dove insegna teoria musicale e lavora a un sito web con un ex alunno. Trasferitosi subito dopo la registrazione della traccia coi Pink Floyd, vive in Australia ormai da quasi quarant’anni. La sua emigrazione era stata in un certo senso una coincidenza: «Avevo già accettato un posto a Brisbane, avrei trascorso tre mesi a comporre lì. Non ho mai comprato il biglietto di ritorno. Margaret Thatcher aveva preso il timone: potevo vedere addensarsi anche da Sydney quella fitta nube ultraconservatrice che avrebbe dopo poco nuovamente coperto il sistema scolastico inglese», racconta Renshaw, incupito. «Non sarei mai potuto tornare».

«Volevo che gli studenti fossero liberi di chiedere qualunque cosa volessero, volevo che imparassero a pensare». La classe di Renshaw era un incontro interpersonale, piuttosto che un momento in cui fornire staticamente conoscenza. Ha sempre cercato di includere il mondo reale nella vita scolastica, giorno per giorno. «Facevo passeggiare i ragazzi lungo la via principale, e chiedevo loro di notare ciò che avevano sentito. Oppure correvamo per i corridoi dell’istituto, colpendo le pareti e ascoltando i suoni che ci restituivano. I ragazzi erano entusiasti e appassionati». Studiare suoni, toni e rumori era tanto importante quanto conoscere Bach, Beethoven e Stockhausen.

Alun Renshaw

Alun Renshaw

Renshaw adottava un metodo d’insegnamento decisamente non convenzionale: «I was very energetic». Era convinto che fosse molto più importante ispirare e stimolare la creatività che istruire. Quando inizia a insegnare all’Islington Green School, le lezioni di musica si tenevano al piano attico, dove si trovavano il pianoforte e gli altri strumenti. In genere, gli insegnanti suonavano, gli studenti cantavano o studiavano teoria. «Era terribilmente noioso». Così Renshaw aveva portato tutti gli strumenti al piano terra, scardinando e cambiando totalmente il metodo d’insegnamento.

Quando un tecnico del suono dei Britannia Row Studios, con sede dietro l’angolo, gli chiede se alcuni dei suoi allievi possono cantare in una canzone dei Pink Floyd, non esita un secondo.

«Era un’opportunità unica: ho pensato sarebbe stato meraviglioso per i bambini sperimentare un vero e proprio studio di registrazione». Ancora non sapeva cosa avrebbero dovuto cantare, né quali sarebbero state le conseguenze. Ma c’è ragione di credere che anche quello non l’avrebbe fermato.

A quel tempo, l’istituto Islington Green era uno dei primi istituti comprensivi – la direttrice Margherita Maden stava sperimentando quello che era definito stile progressivo: «Informale, ma non sciatto». Per la prima volta in Inghilterra, alunni provenienti da ambienti e fasce di reddito differenti si trovavano insieme, nella stessa classe.

«North London era un mondo difficile», continua Renshaw. Ricorda le bande, e la violenza. La disciplina era un problema – non solo per gli studenti.

Ma all’interno della classe di Renshaw questo problema non c’era. Al contrario, i ragazzi tra gli 11 e i 16 anni si sentivano del tutto a proprio agio nella stanza della musica. Molti di loro andavano a scuola anche volontariamente nei fine settimana per esercitarsi e fare pratica, oppure di nascosto fuggivano durante le pause per ritrovare l’atmosfera creativa dell’aula dell’insegnante di musica, al piano terra, accanto alla caffetteria.

Renshaw non ha mai interrotto i contatti con i suoi allievi, che si sono incontrati per una reunion l’ultima volta nel 2007, a Londra. Hanno anche partecipato alla realizzazione di un documentario della BBC che ricostruisce la genesi di The Wall – in particolare, della traccia Another Brick in the Wall.
Con uno di loro l’insegnante scambia ancora email quasi giornalmente, fatto che in qualche modo pare confermare quanto egli stesso afferma riguardo i propri metodi d’insegnamento: «Per me, l’insegnamento è principalmente costruire un rapporto, e prima di tutto rispettare gli alunni come individui», dice Renshaw. «Senza questo rapporto a livello personale, l’insegnamento diventa solo una persona senza volto come tante, che da dietro un leggio trasmette informazioni».

Roger Waters ai Britannia Row Studios

Roger Waters ai Britannia Row Studios

Alcuni dei suoi allievi in ​​seguito hanno proseguito gli studi nei conservatori – una ragazza ha cantato per l’Opera di New York, «Ma portarli al successo non è mai stato il mio obiettivo. In primo luogo, volevo che imparassero a pensare, che trovassero la loro strada. Non volevo diventassero un altro mattone nel muro. La musica è uno strumento potente, per questo: aiuta anche a definire chi sei». Renshaw non è mai andato troppo d’accordo con gerarchie e convenzioni.

«Ovviamente non ho chiesto alla preside di allora se potevo portare gli alunni agli studios per registrare» sorride Renshaw. «Sapevo benissimo che i testi avrebbero sconvolto alcune persone, soprattutto i genitori, e così è stato».

Ma una volta che le prime forti ondate d’indignazione si ritirano, Islington Green fa pace con la fama indesiderata: Renshaw torna a Londra nel 1983, in vacanza, e scopre una targa commemorativa su uno dei muri della scuola: «Gli alunni della Islington Green sono il coro di Another Brick in the Wall pt. II dei Pink Floyd». Pare anche che nel 1980 il celebre ritornello fosse diventato una sorta inno non ufficiale dell’istituto: «Alla fine ne sono stati orgogliosi».

L’episodio – sul quale è in corso la realizzazione di un film – ha aperto molte porte per Renshaw stesso «Sono molto fortunato», conclude divertito. «La maggior parte dei compositori diventa famosa solo dopo la morte».