Parole in esilio/Nedogled

VI SONO PAROLE CHE ESISTONO SOLO SE PRONUNCIATE IN LINGUE D’ORIGINE

di Isidora Tesic

Nedogled
Là dove non giunge lo sguardo
Serbo

La stanza si schiude, lenta, al buio flusso del cielo. Fuori, s’affumica il morso d’un gelo di vetro. Sul morire dell’autunno crocchia qualche passo orfano. Perso, sul confine tra veglia e sonno. Affonda nel respiro d’attesa, la città. Il tram numero 2 canta aspro, cingendole il cuore, nel presagio di un’alba.
‘Oggi è il giorno’ pensa il professore. Ed il suo richiamo al mondo è un graffio mansueto. Appoggia piano il passo del primo mattino. Come se avesse timore di dare un peso di troppo al mondo del giorno nuovo. Con dita ordinate si veste. Nel rituale tradendo, tra un gesto e l’altro, una fede illesa. S’avvicina, poi, al riquadro di cielo appuntato sul muro. Alla finestra affluiscono gli umori di un’aria vergine ancora. Lentamente, sulla linea d’amore tra terra e cielo, si mette a nudo il sole. Ed un chiarore lancinante esonda. Il professore l’avverte appena. Perché il profilo di ciò che guarda, da tempo, evapora sempre più. Ha smesso, oramai, di premergli sullo sguardo con il suo peso.
Sfiora con una mano la parete. E si volta, piano. A passi tentati si avvicina alla poltrona nell’angolo tra i libri e le ombre. Gli occhi scorrono lievi. Sono le dita che, grevi, inciampano. Si siede. Dall’appartamento dell’altra parte del muro, nuota un silenzio d’incoscienza.

Nel baricentro della sua stanza, l’attesa è seduta al tavolo degli scacchi. Tre tazze, senza sorsi. Il professore sorride. A Marko piacciono i bianchi. Sua è la prima mossa. Da sempre.
Anche quando a dieci anni naufragava di gioco in angoli di strade. E poi tornava a casa, la sera sul dorso e un riso di taglio. Tutto vento e impazienza.

Con la serietà delle sentinelle. Quante volte il professore aveva fatto largo nel respiro allo spasimo, subito nascosto, mentre aspettava i suoi passi sulle scale. Perché, lo sapeva, Marko aveva occhi troppo svelti al guardare per ricordarsi il cammino nei ‘lagumi’ nel grembo di Belgrado. Ed al suo ritorno portava, poi, uno sguardo fatto crocevia di passati.
Dall’altra parte del muro, intanto, il risveglio si compie a due. Spina e tenerezza. Si sente un sussurro raro. Un nome solo. Ed il rumore di una carezza. Il professore ascolta la vita prepararsi ad uscire, come ogni mattino. Come un testimone involontario del loro passare. ‘E’ l’arte della gioventù, quella di dare la quiete in cambio della passione,’ pensa. ‘Il tempo a loro non sfugge. Sono loro a fuggire al suo cammino. A me, del tempo, rimane una guardia abbassata. Un invito alla clemenza.’
In un gesto che consuma l’attesa, il professore addenta il fumo amaro di una sigaretta appena accesa. I passi dall’altra parte palpitano un ritmo allegro. Li sente uscire e, a marcia, scendere le scale. ‘Incontreranno Marko?’ si domanda, con fiato roco di fumo e desiderio. ‘Non ha detto quando sarebbe arrivato. Non lo fa mai,’ pensa. ’Sempre questo destino lasciato in sospeso. Come se fosse d’altri, scontare l’attesa di ogni suo passo. Ma ai miei rimproveri, ha sempre risposto con la sua voce di rovo e una punta di ironia. ‘Sono tuo figlio, dopotutto’ diceva, negli occhi affilando un sorriso chiaro. Ed al ricordo, si fa foce d’orgoglio il sangue del professore.

Con cenere ancora viva sulle dita, afferra il libro per Marko. Nell’affondo del silenzio, gli recita, come un richiamo, Vasko Popa.
‘Potrò mai Su questo campo del non riposo Innalzarti una tenda dai miei stessi palmi’

Poi, d’improvviso, la porta si apre. Il professore si alza, di scatto. ‘Marko?’ chiede. Dal vano della porta gli risponde una voce tutta cicatrici: ’Sono io, Marta.’ Il professore nasconde poco la disattesa. Ma pensa, poi, che Marta non ha mai mancato un compleanno del fratello. ‘Marko non è ancora arrivato,’ le dice a stento, parole difficili a nascergli in bocca. Marta guarda il padre con un breve spasimo di pietà. Ma non indugia. Non aggiunge al proprio dolore la croce di una compassione senza dignità. Trattiene la risposta che ogni anno, da quindici anni oramai, le ferisce la bocca. ‘Marko non tornerà più’, lo pensa solamente. Riafferra i battiti del polso. Alliscia la voce suturata. ‘Lo so’, dice corto. Mentre le esplode, nel corpo, un dolore senza fiori. Guarda ancora una volta il padre. E si fa carico anche del suo, troppo grande per stargli in memoria. A lui lascia la certezza dell’attendere.
Il professore si scosta dal riflesso sulla carne dello sguardo di Marta. Ma dalla finestra, le tende la mano. Marta la stringe, avvicinandosi. ‘Guarda’, le dice il padre, con gli occhi gettati nella nebbia di prima mattina. Lei lo segue. E da là, dove non giunge lo sguardo, vede l’ombra di Marko alzarsi dall’ultimo fronte. E con lui, le mille ombre di tutti i figli dispersi si mettono in cammino.
Marta li sente, il cuore non più tumulo. Si volta verso il padre e posa, lenta, le labbra sulla sua fronte. Nello sguardo tiene l’anima in acqua. ‘Sì, Marko tornerà’, dice, ’un giorno’. E chiude gli occhi al morto dolore.

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