A circa un mese di distanza dal tragico incendio al Colectiv, l’impressione che si ha è che i medici e pompieri romeni siano risultanti essere molto preparati e che i politici rumeni non abbiano più a che fare con un popolo ammaestrato e pauroso, ma capace di far sentire la propria voce.
di Antonio Damicis
L’appartamento in cui vivo, in Piazza Unirii, nel centro di Bucarest, ha un solo difetto: anche di notte c’è un via vai continuo di automobili. Udire le ambulanze sfrecciare sotto il palazzo a sirene spiegate è quindi qualcosa a cui ci si abitua in fretta.
Quella notte però ne passavano tante. Troppe. C’era qualcosa di strano.
Per essere un venerdì sera ero andato a dormire stranamente troppo presto. Il costante rumore mi dava un po’ di fastidio, ma il sonno prevalse sulla curiosità di sapere cosa stesse succedendo. Alla fine mi addormentai, senza sapere nulla.
Il mattino seguente, accesi il cellulare e capì il perché delle ripetute ambulanze: decine di status su Facebook, messaggi di amici che mi chiedevano come stessi. C’era stato un grave incendio al Colectiv.
Il Colectiv era una discoteca alternativa non lontana dal centro di Bucarest, dove si stava svolgendo il concerto di una rock-band locale, i Goodbye to Gravity. C’erano circa quattrocento persone, quasi tutti giovanissime. Nel bel mezzo del concerto erano stati accesi piccoli fuochi d’artificio. Alcune scintille avevano raggiunto il soffitto del locale coperto da un isolante acustico che era andato immediatamente fuoco scatenando in pochi secondi un grosso incendio.
Non esistevano uscite di emergenza, cosicché il pubblico, preso dal panico, si è accalcato verso l’unica uscita. Chi era vicino alla porta si è salvato, altri invece svenivano, venivano calpestati, inalavano i gas tossici, riportavano ustioni diffuse. Era il caos totale.
Il bilancio della notte: ventisette morti, decine di feriti gravi.
Nel momento in cui scrivo, molti di quei feriti sono ancora in ospedale, alcuni di essi trasferiti in strutture specializzate in Olanda, Belgio e paesi scandinavi, mentre il numero dei morti è salito a sessanta.
Quella notte i pompieri prima e i medici dopo, avevano lavorato incessantemente per cercare di salvare quante più persone possibile.
Io uscì di casa appena potei. Fuori era bella giornata di sole. Luminosa. Troppo luminosa per un sabato di fine ottobre a Bucarest. Tanta gente animava Piazza Unirii come sempre. La prima impressione fu che nulla fosse cambiato. Invece stavano per cambiare tante cose.
Solo pochi giorni prima un poliziotto che scortava l’auto del ministro degli Interni Gabriel Oprea era morto candendo dalla sua moto a causa di una buca sulla strada. Ne erano seguite polemiche roventi, perché il ministro si stava facendo scortare da una colonna ufficiale per motivi personali e buona parte dell’opinione pubblica, stanca del malcostume della propria classe politica, ne aveva chiesto a gran voce le dimissioni.
Informato di quanto stesse accadendo al Colectiv, il ministro Oprea si era subito presentato sul posto per fare il punto della situazione e rilasciare dichiarazioni alla stampa, ma la sua presenza, a causa degli eventi recenti, risultava essere alquanto sgradita.
Insieme a lui era accorso al Colectiv anche il sindaco del Settore Quattro di Bucarest, Cristian Popescu Piedone, che era a capo di quelle istituzioni comunali atte al controllo e fornitura delle autorizzazioni per il funzionamento dei locali pubblici.
A Piedone fu subito rimproverato che la tragedia del Colectiv si sarebbe potuta evitare se i proprietari avessero rispettato le norme sulla sicurezza nei luoghi pubblici, ma prima di tutto se i controlli fossero stati seri e non viziati dalla corruzione.
In pochi credettero alle loro parole di cordoglio e già quella notte molti degli abitanti del quartiere radunatisi intorno ai due uomini politici, cominciavano a invocare in maniera molto composta le loro dimissioni.
Allo stesso modo, almeno da quanto si poteva dedurre dai migliaia di status postati sui social network, in molti consideravano come ipocrite sia le parole sia del Primo Ministro Victor Ponta, ma anche dei leader dei partiti di opposizione. L’unico che pareva salvarsi da quest’ondata di indignazione era il Presidente della Repubblica Klaus Iohannis, da poco eletto sconfiggendo proprio Ponta al ballottaggio per le elezioni presidenziali.
Era però il momento del lutto. La notte successiva, la zona della movida del centro storico pareva spettrale. Pochissima gente. Poche luci. In giro si udivano poco il rumeno, ma solo lingue straniere. Era evidente che gli unici in cerca di divertimento fossero degli ignari turisti.
Domenica mattina, i primi abitanti di Bucarest cominciarono a porre fiori e candele davanti alla porta della discoteca. Alcuni piangevano, altri recitavano delle preghiere, altri ancora rimanevano in silenzio a contemplare il luogo della tragedia. Alla sera, quella che fino allora era stata stata una visita individuale o di gruppi sparsi, si trasformò in una processione di massa. Da Piazza Universitate migliaia di persone bloccarono il traffico e lentamente, silenziosamente di diressero verso il Colectiv. Non ci furono grida di protesta, né slogan. Solo fiori e candele. Fu una marcia silenziosa che si protrasse fino al piazzale antistante la discoteca che in pochi minuti fu illuminata da migliaia di luminari depositati ovunque vi fosse posto.
Nonostante il dolore e le lacrime, era già chiaro che questo sarebbe stato l’ultimo giorno da trascorrere in silenzio e che in molti non vedevano già l’ora di scendere in piazza e dimostrare apertamente contro la classe politica. Cosa che puntualmente accadde lunedì sera.
Alle sette di sera del giorno seguente, infatti, tanti giovani impiegati presso le innumerevoli multinazionali presenti a Bucarest, ma anche tante famiglie e pensionati si riversarono in Piazza Universitate, la piazza simbolo di ogni protesta. Da Piazza Universitate partì la rivolta che portò alla fine della dittatura ed è sempre da lì che partono tutte le manifestazioni.
La partecipazione fu numerosa e spontanea. La protesta fu però tanto pacifica, quanto disorganizzata. Non vi erano leader, sembrava che ognuno fosse sceso in piazza per gridare il proprio malcontento contro la classe politica.
Solo su due punti sembravano essere tutti d’accordo: Piedone, Oprea e Ponta avrebbero dovuto dimettersi (e di conseguenza l’intero governo) e nessuno degli attuali leader politici della maggioranza e dell’opposizione avrebbe dovuto assumere il ruolo di Primo Ministro.
Se il primo punto per realizzarsi non richiedeva che un semplice passo indietro da parte dei protagonisti chiamati in causa, il secondo non era di facile attuazione. Infatti, quando i giornalisti delle varie tivù provavano a porre la questione ai manifestanti, le risposte ottenute erano le più disparate. Molti ammettevano di non sapere come di potesse azzerare un’intera classe politica, ma che la cosa fosse di vitale importanza per il futuro della Romania.
Le manifestazioni continuarono nei giorni successivi. Il numero dei partecipanti aumentava ogni volta. Oltre che a Bucarest, si cominciò a protestare anche a Iasi, Brasov, Timisoara, Targu Mures, Sibiu, Costanza, Cluj Napoca ed in tante altre medio-piccole città della Romania. Tuttavia, la politica taceva nella speranza che la piazza, non essendo in grado di organizzarsi, si disgregasse da sola.
Le speranza non era infondata, perché in effetti i manifestanti non riuscirono a canalizzare la loro protesta in un’unica leadership, ma per lo meno, l’occasione di questa improvvisa visibilità fu subito colta da diverse organizzazioni non governative, attive nei campi più disparati, i cui rappresentanti capaci di comunicare con i media in maniera piú efficiente, poterono fare conoscere le istanze della società civile presente in piazza.
Così, mentre da una parte i medici facevano il loro possibile per salvare i feriti gravi, i rappresentanti delle ONG riuscivano a spiegare sempre meglio i motivi per i quali la gente era scesa in piazza, divenendo gli interlocutori preferiti dalla stampa. Il primo e più eclatante risultato fu quello di far dimettere nella stessa giornata il sindaco di settore Piedone, il ministro Oprea e il Primo Ministro Ponta, facendo contestualmente cadere tutto il governo.
La palla passava ora al Presidente della Repubblica, che non poteva però sciogliere il Parlamento ed indire nuove elezioni, sia perché secondo la Costituzione rumena avrebbe comunque dovuto provare a nominare un nuovo governo che, a sua volta, avrebbe dovuto verificare possibili nuove maggioranze parlamentari. In secondo luogo, l’opinione pubblica non desiderava elezioni anticipate a cui, inevitabilmente, avrebbero partecipato gli stessi partiti politici con gli stessi rappresentanti.
Probabilmente consigliato dal suo staff, il Presidente Iohannis, annunciò che avrebbe ammesso alle consultazioni per la nomina del nuovo governo, anche i rappresentati della “società civile” presenti alle manifestazioni. Per decidere chi fossero questi rappresentanti fu deciso di mettere a disposizione un indirizzo email al quale entro la mezzanotte, chiunque avrebbe potuto proporre i propri rappresentanti.
L’iniziativa divise immediatamente la piazza. C’era infatti chi la considerava uno ottimo esercizio di democrazia e lodava il presidente per la disponibilità, non costituzionalmente dovuta, di convocare per le consultazioni altri al di fuori dei rappresentati dei partiti politici presenti in Parlamento. Alcuni invece giudicarono quest’iniziativa come una semplice operazione di immagine volta a dividere i manifestanti e comunque di scarsa utilità. Infine ci si chiedeva come il Presidente avrebbe effettivamente selezionato i partecipanti alle consultazioni scegliendo in una sola notte tra le migliaia di email arrivatigli.
Alla fine furono scelti ben venti rappresentanti della società civile tra presidenti di ONG ecologiste, studentesche, per la promozione della democrazia, della cultura e dei diritti umani, ma anche medici che si erano particolarmente distinti negli ultimi giorno e perfino un cantante che si trovava proprio al Colective in quella notte tragica e che aveva contribuito a mettere in salvo delle vite umane. Si tennero poi le tanto attese consultazioni e alla fine fu deciso di incaricare come Primo Ministro Dacian Ciolos, ex-Commissario Europeo per l’Agricoltura con il compito di provare a formare un governo tecnico che potesse ottenere la fiducia del Parlamento.
Ad una settimana di distanza dall’incendio e con la nomina del nuovo Primo Ministro le manifestazioni perdettero in intensità e numero di partecipanti. L’ultima vera manifestazione avvenne la seconda domenica dopo la tragedia registrando uno sparuto numero di di persone.
L’attenzione si era ora spostata nei salotti della tivù e sulla stampa online e non. Dopo aver accertato che la discoteca non aveva mai ottenuto una certificazione di funzionamento da parte dei pompieri, furono arrestati i tre ragazzi proprietari del club con l’accusa di omicidio colposo e lesioni personali colpose, il sindaco Piedone e due funzionari del Settore Quattro accusati di aver rilasciato il permesso di funzionamento del Colectiv nonostante fossero a conoscenza della mancanza di parte dei requisisti richiesti dalla legge. Poi è stata la volta degli ispettori dell’ISU (Ispettorato per le emergenze), istituzione che fa capo ai Vigili del Fuoco che ha il compito di dare il benestare finale sulla sicurezza dei locali adibiti a scopo pubblico ed, infine, degli amministratori ed un’impiegata della Golden Ideas Fireworks Artists, società che fornì i fuochi pirotecnici al Colectiv, con l’accusa di aver cercato di cancellare delle prove.
Il circolo mediatico creatosi intorno all’evento è stato quindi di notevole portata. Una volta scemato l’interesse per le manifestazioni, si cercava ogni giorno un nuovo colpevole da mandare in pasto alla stampa. In conclusione si veniva a sapere che la maggior parte dei luoghi pubblici di Bucarest e dell’intera Romania, a cominciare dal nuovissimo Stadio National Arena (che solo pochi anni fa aveva ospitato una finale di Coppa Uefa), e tantissimi altri tra discoteche, pub, cinema e teatri avessero funzionato o senza l’autorizzazione dell’ISU, oppure con un’autorizzazione ottenuta in maniera molto dubbia (vista la mancanza di uscite di emergenza o il trovarsi in edifici non esenti da rischio sismico).
Risultato di tutto ciò è stato che il National Arena è attualmente chiuso e la Steaua Bucarest costretta a trasferirsi a Cluj Napoca a piú di quattrocento di chilometri di distanza per disputare le partite interne. Inoltre, tutti gli altri luoghi pubblici stanno, uno dopo l’altro, chiudendo i battenti in attesa di essere ristrutturati (ove possibile) e riottenere delle autorizzazioni regolari.
A circa un mese di distanza dal tragico incendio, l’impressione che si ha è che i medici e pompieri romeni siano risultanti essere molto preparati e abbiano dato un segnale forte di umanità e disponibilità in una situazione che aveva dello straordinario. Che i politici rumeni non abbiano piú a che fare con un popolo ammaestrato e pauroso, ma capace di far sentire la propria voce. Che i giovani che popolano le città rumene, quasi tutti nati dopo la dittatura, siano globalizzati e aperti alle novità, abbiano la possibilità di viaggiare e osservare da vicino altre culture e lavorando nelle multinazionali di tutto il mondo, possono costantemente confrontandosi con successo con i loro colleghi europei, americani ed asiatici.
Ciò che sembra invece mancare, nonostante la bella prova di partecipazione data dalle manifestazioni in seguito all’incidente al Colectiv, è una o più idee di serio impegno politico. Finite le proteste, infatti, non sembra ci siano nuove iniziative tali da cambiare la vita politica del paese. Non esiste, per intenderci, un partito degli “indignidos” rumeni, né si scorge alcun progetto in tal senso.
Il rischio è che una volta terminata l’esperienza del governo tecnico, la palla passi ancora una volta ai vecchi partiti politici, rappresentati dagli stessi attori che han dominato la scena politica dalla caduta della dittatura fino ad oggi. Partiti politici che sapranno ben usare, come sempre, il loro bagaglio di voti proveniente in grande misura dalla povera gente delle campagne, lontana anni luce dai giovani educati delle città e ben felice di votarli in cambio di piccoli favori personali.
La vera sfida per la Romania, in questo momento, è proprio riuscire a dare un obiettivo comune sia ai giovani delle città, sia agli abitanti delle aree rurali. Rimane però il problema che spesso si tratti si tratta di due mondi completamente diversi, dagli interessi apparentemente contrapposti e che per questo si osservano con diffidenza e stentano a capirsi.
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