Sulla Fotografia, Valerio Nicolosi: Il nemico vero è la superficialità

Enrico Natoli ha scritto il 4 dicembre un intervento: Cosa perdiamo della Fotografia.
A partire dai suoi ragionamenti e riflessioni abbiamo aperto spazi di dibattito e confronto sul nostro giornale.

Todo lo que no ves a través de una cámara no existe

di Valerio Nicolosi
Resp. Formazione
Associazione Nazionale Filmaker e Videomaker

 

Alla Escuela International de Cine y TV de Cuba, lessi una frase che mi colpì: “Todo lo que no ves a través de una cámara no existe
Ho riflettutto molto su quella provocazione che il regista argentino Carlos Sorin ha lanciato proprio in una delle scuole più importanti del mondo in cui si fa del contenuto un fattore fondamentale del mondo dell’audiovisuale.
Siamo nell’era dell’immagine, la democratizzazione della fotografia attraverso il digitale ha dato la possibilità di realizzare migliaia di foto scattate dai nostri apparecchi e condivise all’istante sui social network. Questi ultimi fagocitano immagini e utenti, si nutrono di foto scattate e ne hanno sempre più bisogno come ne abbiamo bisogno noi.

Senza immagine non esistiamo, senza fotografare un concerto non ci siamo mai stati, senza aver fotografato un piatto non lo abbiamo mai mangiato. Questa nevrosi da condivisione e da “like” non è unidirezionale perché oltre ad essere produttori di immagini siamo anche fruitori. Sullo schermo dello smartphone scorriamo centinaia di foto quotidianamente.

Instagram, Facebook, Twitter ma anche quotidiani online e blog creano un flusso continuo che rende tutto fluido e poco profondo. Siamo subissati di informazioni visive che scorrono sui nostri smartphone e pc e spesso non facciamo attenzione alle storie che ci sono dietro a quelle immagini, a cosa rappresentano, a cosa ci comunicano. Quando c’è un surplus d’informazioni è molto più facile trasformare quest’ultime in un flusso continuo e superficiale che scorre senza farci vedere bene i dettagli del racconto, quello che c’è nel letto del fiume e così ci perdiamo il messaggio ma soprattutto questo vuoto lo riproduciamo a nostra volta creando nuove immagini simili a queste.

Non credo però che esista una fotografia buona o una fotografia cattiva, che l’analogico fosse la vera fotografia mentre il digitale solo un surrogato accessibile a tutti. La fotografia è uno strumento che ci permette di comunicare, il problema quindi non è lo strumento in se ma il contenuto.

Quando nacque la fotografia si pensava di poter fermare un momento di realtà, inconfutabile in quanto riprodotto fedelmente dalla nuova tecnologia appena “scoperta”.

Sequenze di cavalli in corsa per sapere se avessero tutte e quattro le zampe sollevate e distese durante la corsa (Muybridge, 1877) o documentazioni delle grandi spedizioni esplorative del diciannovesimo secolo, la fotografia era solo un momento di realtà fissato, che documentava ma che non raccontava.

Con l’evoluzione dei banchi ottici e la riduzione del loro volume e peso la fotografia ha iniziato ad essere uno strumento di racconto sociale. Nonostante avesse uno stile molto legato alla pittura ottocentesca, anche per ragioni tecniche, il reportage di Hill e Adamson mostrava le condizioni di povertà in cui vivevano i pescatori di ostriche e dei marinai del villaggio inglese di New Haven.
Realizzarono circa 80 fotografie e molte di essere furono esposte come fossero un dossier inconfutabile. La fotografia era ancora all’inizio ma iniziava a muovere i passi verso il fotogiornalismo, Hill e Adamson avevano scelto da che parte stare.

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foto di Valerio Nicolosi

Un altro esperimento molto interessante fu quello di Stefano Lecchi, un fotografo italiano che impressionò tutti i luoghi delle battaglie che videro capitolare l’esperienza della Repubblica Romana. Era il primo esperimento di reportage di guerra, anche realizzato pochi giorni dopo la sconfitta di Mazzini e dei repubblicani. Lo scopo di Lecchi era contribuire alla creazione di una memoria storica della Repubblica Romana e del suo messaggio universale di fratellanza e uguaglianza nonostante fosse sconfitta militarmente poche ore prima.

Chi invece in guerra c’è andato ed ha contribuito a costruire un immaginario completamente alterato ma soprattutto ha utilizzato le immagini a scopo propagandistico sono Roger Fenton, Felice Beato James Robertson autori di tre lavori per il governo della Gran Bretagna e che raccontarono la guerra di Crimea e altre campagne militari medio ed estremo oriente.

Per la prima volta uno stato utilizzava dei fotografi a scopi propagandistici, mostrando il volto umano della guerra e aumentando i consensi sul proprio territorio.

Con la nascita del fotogiornalismo è quindi superata l’equazione fotografia=realtà inconfutabile per l’etimologia stessa della parola. Non si tratta più di fotografie che ritraggono nature morte o paesaggi, si tratta di giornalismo, di raccontare quello che si vede, che c’è attorno a noi e ognuno lo vedo a modo suo, non esiste la soggettività.

Da quando è nata la fotografia ed in particolare il fotogiornalismo sono molte le immagini passate alla storia che ci ricorda un episodio importante proprio grazie alla forza che l’immagine sa trasmettere. Potremmo parlare della guerra civile spagnola, della seconda guerra mondiale, della rivoluzione cubana, la guerra del Vietnam o della fame del mondo ma nessuna di queste discussioni sarebbe immediata con la vista delle foto che raccontano questi episodi.
La “morte del miliziano” e “lo sbarco in Normandia” di Robert Capa, la foto fatta ad Ernesto “Che” Guevara da Korda, “il bambino e l’avvoltoio” di Kevin Carter, la “protesa di Piazza Tienanmen” di Jeff Widener o la bambina vietnamita nuda che scappa dalle bombe al napalm dell’esercito statunitense sono solo alcuni esempi di come la fotografia è stata la notizia, senza bisogno di parole, senza bisogno di aggiungere altro.

Il mondo dell’informazione però è profondamente cambiato negli ultimi anni. Anche in questo caso “il digitale”, ovvero internet, ha influito a creare un nuovo linguaggio e nuove metodologie di comunicazione. Il vero cambiamento è stato nella velocità, tutto è frenetico, tutto è veloce e tutto viene rimpiazzato in poche ore quindi anche le fotografie hanno poco tempo per essere “simboli” salvo qualche rara eccezione come il fulmine su San Pietro il giorno delle dimissioni di Papa Benedetto XVI, la foto del piccolo Aylan, la foto della Costa Concordia fotografata dall’altro o una in chiave tutta italiana “Er Pelliccia” che lancia l’estintore il 15ottobre 2010 in piazza San Giovanni a Roma.

In questa velocità ansiogena i social network giocano un ruolo fondamentale per due motivi.

Il primo è quello di cui parlavo all’inizio, la necessità continua di informazioni e post, soprattutto legati all’immagine. Che siano gattini o notizie provenienti dall’altro emisfero il social si nutrono di questo e noi a nostra volta e passivamente ci nutriamo dei social.

L’altro aspetto molto importate è il mondo dell’editoria e dei festival a dir poco chiuso in una cerchia ristretta e che difficilmente lascia entrare qualcuno all’interno di se stessa.

In Italia sono pochissimi i grandi giornali danno un grande risalto (e compensi degni) alle immagini, spesso la figura del Photoeditor è stata rimossa da anni e la ricerca negli archivi fotografi appare un’operazione superflua da fare con poco attenzione e sciatteria.

Ricordo il giorno della morte di Simone Camilli, il collega morto a Gaza nell’agosto 2014. Il giorno dopo il Corriere della Sera riportava una foto in prima pagina di un altro collega in quel momento presente nella Striscia ma che fortunatamente era vivo e in ottima salute. Se si sbaglia la foto di un collega appena morto come possiamo scegliere una foto significativa? Scrissi alla redazione e oltre a non ricevere risposta si limitarono a fare una errata corrige in uno spazio piccolo e poco visibile in una pagina interna del giornale.

Inoltre anche la scelta perché dovrebbero farla dei giornalisti che poco o niente sanno del linguaggio dell’immagine?

C’è anche un altro fattore. Avete mai provato a mandare un servizio ad una redazione di una delle grandi riviste italiane senza conoscere il Photoeditor? Avete ricevuto almeno una risposta, seppur negativa? Io no, mai.

Questo è un dettaglio tutto italiano che però da anche la cifra di come il mondo della fotografia nell’editoria sia saturo e chiuso. Molti fotografi quindi preferiscono partecipare ai concorsi, paradossalmente è più facile vincere un concorso che pubblicare un servizio su Internazionale o L’Espresso. E non parlo di lavoro assegnati ma solo di servizi già pronti.

Gli spazi per vivere di fotografia quindi si assottigliano e per questo anche internet e la sua velocità possono essere una risorsa importante da non denigrare, da non trattare con snobbismo.
Il nemico vero è la superficialità, è il fotografare senza raccontare dimenticando che la macchina fotografica è uno strumento al pari della scrittura.
Il fotografo, ed in particolare il fotoreporter, non è colui che sa usare bene ISO, diaframmi, tempi e ottiche ma al tempo stesso è un giornalista, uno scrittore, è una persona che svolge un lavoro intellettuale (gramscinamente parlando) e che di conseguenza deve avere una formazione a 360 gradi e al tempo stesso prendere una posizione rispetto a quello che sta raccontando, a quello che lo circonda.
Per dirla con Ferdinando Scianna “La storia insegna che nessun grande fotografo è diventato tale soltanto grazie alla nitidezza delle sue foto, bensì per quello che raccontava e per come lo raccontava”

 

Valerio Nicolosi
Resp. Formazione
Associazione Nazionale Filmaker e Videomaker