Piccolo elogio dell’immoralità

Nemmeno Thoreau rinunciò alle lasagne di mamma

di Nicolò Cesa

Ci ho provato mille volte, ma tutte le volte con lo stesso identico risultato. Sono partito dal seme, dai germogli, passando per la semina, la scelta della terra giusta e del clima perfetto, della stagionalità e della giusta dose di luce e calore. Ma nulla: non sono mai riuscito ad occuparmi, con successo, di una pianta. L’ultimo tentativo è proprio di qualche settimana fa, che è costato alla pianta di capsicum un’indegna e misera settimana di esistenza.

Colpa mia, ho pensato. Ci sono quelli che hanno il pollice verde e quelli che invece no. Io sono tra questi ultimi, evidentemente.

Eppure guardando ciò che resta di quel vaso (ovvero le mie buone intenzioni, unite a del terriccio umido e qualche residuo di fogliolina dai riflessi ormai argentati) mi è venuto da pensare che forse il problema è un po’ più ampio. Della natura, in noi, resta ben poco. In me certamente. Qualche istinto, legato alla necessità e al bisogno. Ma forse nemmeno quelli, vincolati anch’essi ad una serie di processi culturali, simbolici e identitari – direbbe Nietzsche.

Tradotto: se un elicottero mi abbandonasse nel mezzo della jungla, durerei il tempo che ci mette il mio corpo a spegnersi, ad abbandonare quel mondo che allo stesso tempo è genitore e sconosciuto, madre e conoscente (alla lontana, nei migliori dei casi).

Eppure da qualche tempo sembra esploso il desiderio di ritornare a quel senso originario, che prende forma nelle cacofonie delle costruzioni armoniche delle città, nel traffico delle scadenze e nel caos delle relazioni; per palesarsi nel desiderio di fuga, nel sogno risolutore di un chiringuito alle Maldive o di un’amaca dondolante nel silenzio degli obblighi che ci legano a questa parte di mondo, sempre di corsa e irraggiungibile, allo stesso tempo.
Irraggiungibile come la natura. In questo senso la vita moderna sembra aver fuso la natura e la cultura, rendendo ciò che ci appare come naturale in culturale e ciò che ci appare costruito in ovvio e definitivo. Siamo esseri sociali e culturali, altro che naturali. E la dimostrazione è il mio peperoncino.

Eppure il desiderio di fuga non è cosa nuova. Tutti abbiamo letto almeno una volta – e con passione – La disobbedenza civile o La vita nei boschi, di Henry David Thoreau, provando un po’ di invidia per quel coraggio, tipico di chi decide di compiere davvero scelte radicali e rivoluzionarie, a partire dal mondo della vita quotidiana, per dirla alla Schutz. Per quella scelta di mettersi nella posizione di poter osservare il mondo dalla prospettiva privilegiata del confine, del margine; per dire un “no” categorico e assoluto al mondo che ci circonda e a tutti i “sì” che siamo costretti a pronunciare ogni giorno, al lavoro, in famiglia e, più in generale, in tutte quelle situazioni in cui non siamo soli.

Da soli, in un bosco, certamente riusciremmo ad essere più vicini a noi stessi, ad ascoltarci e a conoscerci

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Eppure guardando il peperoncino-e-le-mie-intenzioni mi sono venute in mente una serie di domande. La prima: sarei in grado di vivere di – e nella – natura? La seconda, forse più importante: ma perché, poi? Crediamo davvero che una rivoluzione quotidiana debba essere fatta di assoluti e di solitudine? Un “no” non può starci e avere lo stesso peso rivoluzionario e creatore dentro la cornice delle vite di tutti? Ogni no ha in se una fioritura di si, diceva Camus. È negazione e affermazione allo stesso tempo. È rifiuto e costruzione. Ma dal momento in cui nasce nel desiderio prometeico di accollarsi il peso dei mali del mondo (che forse, poi, quelle storture sono l’unico residuo di natura in noi, ovvero il fatto che siamo esseri imperfetti e mancanti e lo saremo finché esisterà il mondo, cioè finché lo faremo esistere) la creazione che ne consegue, il “sì” che da esso nasce, è un sì assoluto, non relativo, non relazionale. Ed infatti non è “spendibile” nelle vite degli altri. Non crea nulla. Un uomo che si rifugia in un bosco può certamente scrivere un saggio memorabile e di bellezza rara (come in effetti sono i libri di Thoreau), ma difficilmente potrà, nel qui ed ora, compiere – e fare compiere – una rivolta che punti alla libertà e non alla liberazione.

Thoreau è certamente un uomo liberato, ma non un uomo libero. Liberato dal mondo, dalla fretta, dal caos, dalla legge e dagli obblighi ma costretto alle leggi della natura, dei bisogni, della sopravvivenza.

Questo dovremmo pensare quando perdiamo le ore su Trip Advisor a immaginare di cambiare la sceneggiatura e l’ambientazione del nostro film in questa o quella baita sperduta nel nulla, in questo o quel faro di Bretagna, in questo o quel villaggio di pescatori in Alaska, in questa o quella capanna sulle spiagge di Bora Bora. Luoghi in cui potremmo girare delle scene, certamente, ma difficilmente ambientare la trama della nostra vita. Ma soprattutto che difficilmente permettono di mischiarci alle trame degli altri, agli intrecci delle vite degli uomini e agli spunti che riescono a nascere nelle contraddizioni delle città e nelle sue mancanze, quelle si molto simili alle nostre radici naturali e biologiche. Le città ci somigliano molto più di un bosco. E, nel caso in cui si volesse compiere una rivolta – intesa qui in senso camusiano, cioè biografica e legata alla nostra storia più che al corso della Storia – non è il caso di abbandonare, di rifiutare questo mondo tout court. Forse dei margini di resistenza, esistono anche qui. Soprattutto qui. Con il vantaggio che la felicità, nel mondo di tutti, è possibile condividerla. In un bosco, la vedo più dura. D’altronde ci era arrivato – in fatale ritardo – persino il moderno Thoreau più famoso al mondo, Christopher McCandless, in arte Alexander Supertramp, che sulle pareti del furgoncino abbandonato in cui dimorava in mezzo al nulla aveva lasciato un testamento dal valore inestimabile: really happiness is only shared. La felicità è vera solo se può essere condivisa. Solo se è relativa e non assoluta, fine a se stessa.

Tutto il resto è immaginazione, è fuga, è frustrazione; è l’illusione che per cambiare il mondo lo si debba, in qualche modo, rifiutare e abbandonare. È l’affermazione di un disinteresse per la felicità, forse questa molto più rivoluzionaria di una vita nel silenzio e nella galera naturale di un bosco.

Che forse poi, Thoreau, non cercava nemmeno di compiere una rivolta. Forse voleva solo fuggire da quegli aspetti della realtà che “non sapeva gestire”, come scrisse in un saggio Kathryn Schulz sul The New Yorker e ripreso qualche settimana fa dal giornalista del Guardian Oliver Burkeman.
E a pensarci bene il lago Walden, nel Massachussets, in cui è ambientato Walden ovvero la vita nei boschi, non è nemmeno in mezzo al nulla. Infatti Thoreau, due volte alla settimana “andava a piedi in città, dove sua madre gli faceva il bucato e gli preparava da mangiare”.
Cose di cui tutti abbiamo bisogno per nutrire quel piacere che è marchio di fabbrica del nostro essere umani, che ci lega al nostro mondo e alle sue leggi della sopravvivenza.
L’altrernativa, cioè l’altro mondo – quello che sogniamo quando stiamo le ore su Trip Advisor – è fatto di piante da coltivare, di animali da uccidere per sopravvivere e da cui ripararci, per non fare la fine di Timothy Treadwell, ucciso dagli orsi “talvolta persino più cattivi degli uomini”, come scrive Burkeman, o di Supertramp.

Ad ammettere che, a tornare indietro, l’affermazione del mondo che volevano – e che vogliamo – si poteva e si può compiere anche accettando qualche buon amico, un appartamento in città in cui provare a fare crescere una pianta di peperoncino accorgendosi che con la natura abbiamo poco a che fare e godendo, senza vergogna, del tepore e dei profumi delle lasagne di mamma la domenica mattina, dell’immoralità del tifo per una squadra di 11 milionari che corrono dietro ad un pallone o di un disco di Damien Rice pagato 17 euro ad una multinazionale.
Tutte cose di cui (forse) abbiamo bisogno per esistere, per condividere e quindi per rendere reali quei valori che vogliamo mettere al mondo e di cui vogliamo occuparci.
Ma soprattutto cose senza le quali, quella rivolta, tenetevela pure.

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