Frankenstein a Baghdad

Il romanzo di Ahmed Saadawi, la frantumazione dell’Iraq dal punto di vista di un vicolo della capitale

di Christian Elia

Una anziana donna raccolta in preghiera davanti a un’icona di San Giorgio, un rigattiere ubriacone e conta balle, un albergatore con un grande futuro alle spalle, uno spregiudicato imprenditore di guerra, un giornalista malinconico. E tanti altri.

Benvenuti nel vicolo 7, quartiere di Batawin, Baghdad, capitale di quello che è stato l’Iraq, anno del terrore 2005. L’invasione della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha squassato il paese e, a cascata, l’eco delle autobombe, degli attentati suicidi e della faida tra milizie criminali o settarie insanguina le strade.

Ahmed Saadawi è uno scrittore vero. Uno di quei cittadini di Baghdad, per chi ha avuto la fortuna di conoscerli, cosmopoliti e raffinati, consapevole di essere l’ultima stazione di un lungo viaggio, fatto di lingue e tradizioni, meticciati e relazioni, caffè e religioni.

Un mosaico passato da un inferno lungo trenta anni, tra la dittatura di Saddam e la guerra all’Iran, la prima guerra del Golfo e le sanzioni Onu. Ma niente aveva ferito Baghdad come la seconda guerra del Golfo, nel 2003. Niente era riuscita a lasciare sul suo corpo lacerazioni più profonde.

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E sono proprio queste lacerazioni che ispirano il romanzo di Saadawi, Frankenstein a Baghdad, edito in Italia da edizioni e/o. Perché scegliendo il sentiero del realismo magico, quasi sudamericano, lo scrittore rivede in un puzzle di pezzi di copro senza nome, abitato dall’anima di una delle vittime innocenti della folle guerra, fantasma allo stesso tempo delle guerre passate, la storia di un vicolo, di una città, di un Paese intero.

La violenza attraversa tutto il racconto, ma non diviene mai la protagonista. Chi viene raccontato è chi continua a vivere, arricchendosi con la guerra in certi casi, perdendo tutto, sognando di scappare o tentando di restare. Il sangue è ovunque, ma Saadawi ti invita a sollevare la testa dalla pozza sull’asfalto dell’ennesimo attentato, a guardare negli occhi i cittadini di Baghdad.

Ogni pezzo di quel mosaico si frantuma, lentamente. E la città cambia, per sempre. Lo percepisci dalle partenze e dagli addii, ognuno in cerca di salvezza o futuro, lontano da una situazione che è fuori controllo. Ma le metafore magiche di Saadawi non traggono in inganno, perché c’è tutta la vita quotidiana della città nella sua storia.

La catena di delitti del vendicatore è tortuosa, e lo stesso autore si smarrisce, lungo il cammino, perdendo di vista la motivazione della sua azione. Un liberatore, vero o presunto tale, che si trasforma in una macchina di morte senza bussola.
I vicini che, ormai senza possibilità di tornare indietro, si allontanano, si guardano in modo differente, si temono. Un buio che non annuncia mai il giorno avvolge il vicolo 7, che ricorda il vicolo del mortaio di Naguib Mahfouz, diventa l’anticamera della dissoluzione di un popolo intero.

Nessuna consolazione, nessun colpo di scena arriverà a salvare i sommersi. E il vecchio gatto Nabu – che ha preferito restare, salutando la sua Elishua, finisce per restare là, a ricordare a tutti quel che è stato, la vita di quel vicolo e dei cortili, i caffè e i mercati, le botteghe e le chiacchiere. Per non dimenticare che è esistita una Baghdad differente e per sempre lacerata.