Kawsak Sacha e COP21

Una proposta concreta della popolaziona indigena nativa per salvare l’Amazzonia contrapposta all’equilibrio delle diplomazie

di Alessandro Ingaria

Nell’immaginario collettivo di questi giorni, Parigi è sinonimo di terrore e di angoscia per una presunta guerra di civiltà, in nome della quale si ergono analisti strategici e giornalisti improvvisati.

Eppure, al di là di estetiche multimediali della paura urbana contemporanea, la capitale francese è in questi giorni protagonista di COP21, la conferenza mondiale sul clima, il cui sottotitolo non dichiarato potrebbe essere “Gli ultimi tentativi di trovare un accordo per salvare il pianeta”.

Chi segue da vicino la conferenza non può non aver prestato attenzione alla delegazione indigena Sarayaku, elemento di discontinuità in mezzo all’abbondanza di cravatte intente a trovare soluzioni di compromesso.

La foresta amazzonica ha un impatto straordinario sul pianeta: produce circa la metà di tutto l’ossigeno atmosferico. Un motivo sufficiente per giustificare la volontà con cui i popoli che abitano la selva hanno scelto di partecipare a questa conclave sulle sorti del pianeta.

La richiesta della delegazione indigena è l’affermazione del Kawsak Sacha, il concetto di “foresta vivente”, in quanto categoria riconosciuta di area protetta, cioè libera dagli sfruttamenti petroliferi, minerari e di deforestazione.

Ovvero la richiesta di concedere un interesse legittimo agli abitanti, che esorbita il diritto degli stati di concedere permessi o concessioni di sfruttamento. Una presa di posizione dalle valenze profondamente filosofiche che riecheggia le parole di Edgar Morin: Terra-Patria come un macro-organismo vitale tra uomo e natura.

I Sarayaku sono un popolo indigeno di 1.200 elementi, che ha fatto della lotta per il proprio territorio un elemento cardine della propria esistenza: sono stati tra i primi popoli nativi ad aver vinto un ricorso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani contro il proprio stato nazionale, per evitare lo sfruttamento petrolifero della porzione di foresta amazzonica in cui vivono.

Domenica 6 dicembre, mentre le cravatte erano impegnate a definire un equilibrismo da sottoporre ai governanti, i Sarayaku attraversavano i canali parigini con la Indigens Flotilla Kayak per riportare la questione ambientale all’attenzione dei suoi reali protagonisi: gli abitanti del pianeta.

Le cravatte, nel frattempo, hanno trovato un accordo di massima, da approvare entro la chiusura dei lavori. Tutti soddisfatti, se non fosse che sul punto principale non c’è consenso: limitare a due gradi centigradi il riscaldamento globale del pianeta rispetto al periodo pre-industriale.

Tutto volge all’ennesimo fallimento, all’ulteriore occasione persa. Di questo fallimento sono partecipi anche i molti esponenti delle organizzazioni umanitarie che si occupano di migrazioni e che hanno mancato di prendere posizione all’interno del dibattito pubblico, quasi rimuovendo l’imminente fenomeno delle environmental migrations.

Come se si potesse scegliere in quale ambito rappresentare il proprio ruolo di attivista, mentre qualcun altro si sta occupando delle sorti del pianeta. Probabilmente con scelte sbagliate di cui tutti pagheremo il conto.