Mario Dondero: il mestiere della memoria

Mario Dondero è morto ieri, 13 dicembre.
Alcuni di noi di Q Code Mag provengono dall’esperienza di peaceReporter/E Il Mensile. Proprio su E il Mensile avevamo pubblicato un’intervista di Angelo Ferracuti a Mario Dondero, che in redazione era di casa. Pensiamo sia bello e giusto riproporvela oggi, per un saluto a un grande professionista, un grande uomo. L’intervista è del 2012, pubblicata nel mese di maggio.


Di Angelo Ferracuti

Qualche giorno dopo l’intervista, arriva in redazione con una borsa piena di stampe, perché ama gli incontri e non usa la posta elettronica, né la macchina digitale. Porta a tracolla la storia del secondo Novecento, che ha visto e vissuto senza preoccuparsi dell’imparzialità. Ricorda con affettuosa precisione persone, date, luoghi, situazioni della sua vita e delle sue foto (che poi, in fondo, coincidono). Quelle che abbiamo scelto insieme possono dare solo un’idea del suo straordinario cammino

 

La casa di Mario Dondero sta in un vicolo del quartiere più popolare di Fermo, è semplice e spartana ma incredibilmente accogliente, con appesi alle pareti le foto e i disegni dei suoi amici, che sono Tullio Pericoli, Vauro, Danilo De Marco, Altan; i piccoli quadri con le vedute marinare, i ritratti di Robespierre e del comandante Nord del Partigiano Johnny di Fenoglio. Quando la porta si apre mi trovo ogni volta di fronte a questo eccentrico e formidabile reporter che a ottantatré anni sembra ancora un ragazzo, elegante nei modi e nel vestiario, fatto di giacche felpate e cravatte bordeaux, camicie a righe e pullover havana, faulkneriano come i vecchi signori di campagna. Subito mi accoglie commentando un fatto di politica internazionale o, indignato, se la prende con chi fabbrica le mine antiuomo.

Chi lo conosce sa che è un inesauribile romanzo vivente, un narratore orale di quelli rarissimi, mentre scattando foto ha sempre cercato di far emergere le verità morali di ogni vita, di ogni esistenza: Samuel Beckett, Fidel Castro, Francis Bacon, Pier Paolo Pasolini, Maria Callas e, con lo stesso interesse umano, fornai iracheni, contadini tunisini, pescatori portoghesi, sentinelle turche e operai francesi in sciopero. Ha raccontato con le immagini mezzo secolo di storia italiana, ma naturalmente era a Praga mentre imperversava la Primavera e a Berlino mentre cadeva il Muro, per non parlare dellevolte in cui è stato nell’amata Cuba e in Africa. Negli ultimi anni è ormai celebratissimo, fatto che commenta a volte con affettuosa distanza, come se quasi la cosa non lo riguardasse: Simona Guerra gli ha da poco dedicato un libro, Mario Dondero (Bruno Mondadori), l’Accademia di Brera ha voluto conferirgli la laurea honoris causa. Innumerevoli le sue mostre in giro per l’Italia, molte delle quali per documentare il lavoro degli ospedali di Emergency.

 


Se qualcuno dovesse chiederti di raccontare la tua vita, da dove cominceresti?
«Potrei cominciare da quando andavo all’asilo, per esempio. Facevo l’abissino contro le camicie nere e il pellerossa contro le giacche blu. Sono ricordi confusi. Si era in pieno fascismo, una sorta di fascismo calmo, cioè già confermato. Ormai gli italiani non contestavano più, salvo una minoranza che soffriva al confino, o in prigione o emigrando. Era solo d’istinto che prendevo queste posizioni. Non so, mi sono sempre trovato istintivamente all’opposizione».

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Tu sei nato a Milano nel 1928, ma tuo padre era ligure. Come era l’Italia di quegli anni vista dal quartiere milanese di Porta Romana?
«Vivevo una situazione abbastanza singolare perché i miei genitori si sono separati quando ero piccolissimo e quindi ho fatto il pendolare tra Milano e Genova, che per me era un luogo magico, straordinario e marino. Quando viene la guerra tutti i ragazzi sono contenti. Ma sono contenti solo fino al primo giorno perché appena scoprono che cos’è, si rendono conto che è tutt’altro che divertente. Così, mi ricordo che nel 1940, fino al 10 giugno, ci divertivamo a pensare che c’era la guerra. Era un’avventura, cambiava la monotonia dei giorni. Ma poi la prima notte bombardarono Milano e un aereo francese distrusse un balcone accanto a casa mia. Così mi sono fatto subito un’opinione molto più realistica dei conflitti: era difficile mangiare, c’era la borsa nera. Ricordo le acrobazie che si facevano per procurarsi il cibo e certi viaggi fantastici con mio padre alla ricerca di patate sulle colline genovesi verso Torriglia e Montebruno».

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Eri uno studente del liceo Berchet di Milano e, a sedici anni, insieme al tuo amico Ettore Dei Fiori decidi di andare in montagna con i partigiani.
«Partimmo per il lago Maggiore sperando di raggiungere i partigiani e quando li incontrammo non ci volevano perché eravamo dei ragazzini. Solo che Ettore aveva fatto un sabotaggio, quindi facemmo valere questo atto, così ci accettarono e raggiungemmo la brigata Cesare Battisti, che faceva parte della divisione Piave, comandata da Armando Calzavara, nome di battaglia Arca. Lì cominciò l’avventura della guerra partigiana in cui io non ho fatto assolutamente niente di eroico. Sono riuscito solo a perdere dodici chili di peso in quattro mesi finché sono stato in montagna, cioè fino al grande rastrellamento dell’autunno del ’44, quando migliaia di fascisti e di tedeschi vennero ad aggredire questa Repubblica dell’Ossola che per loro era un simbolo da cancellare. E così mentre la mia brigata si era trasferita in Svizzera, perché le forze erano soverchianti, io me la cavai a malapena: ero stato incaricato di nascondere le armi della brigata e quindi fu quasi rocambolesco come riuscii a salvarmi la pelle. Poi, alla Liberazione partecipai con il fazzoletto rosso della brigata Garibaldi».

Dopo la Liberazione non dai seguito all’attività politica in senso stretto, invece cominci a fare il giornalista.
«Cominciai grazie agli amici che frequentavo che ruotavano attorno ai giornali, un mondo che sembrava inaccessibile, dove entravano solo i raccomandati. Invece a me accadde di penetrarlo con estrema facilità. Cominciai a collaborare con l’Avanti!, scrivendo elzeviri sportivi, poi con l’Unità, che corrispondeva di più ai miei orientamenti, facendo soprattutto interviste. Poi fui assunto da Milano Sera, quotidiano del pomeriggio, fratello di Paese Sera, quindi legato al Partito comunista.
Facevo il cronista di nera, lavoro che definirei straziante. Ci pagavano così poco che me ne derivò qualche problema di salute. C’è un film che descrive molto bene la condizione dei giornalisti comunisti di quell’epoca ed è Una vita difficile di Dino Risi. Più tardi allargai i miei orizzonti interessandomi anche alla stampa settimanale».

Sono anche gli anni del bar Jamaica, del clima del “bar delle Antille” raccontato da Luciano Bianciardi ne La vita agra .
«L’atmosfera che regnava era il contrario del bar Sport, per intenderci, (nonostante io abbia sempre amato il gioco del calcio), nel senso che si parlava soltanto di libri, di politica. Era stato Ugo Mulas che mi aveva condotto alla pensione delle sorelle Tedeschi, perché io ero deciso ad andare in Francia in quanto ai miei occhi Milano era troppo provinciale. Nel frattempo, sollecitato a lungo dal mio grande amico Filippo Gaja, avevo fatto una specie di stage nella sua agenzia, l’Attualfoto, dove avevo appreso i rudimenti della fotografia. Questo, più tardi, mi avrebbe permesso di essere assunto, grazie a Giuseppe Trevisani che è stato un grande grafico, come inviato, in condizioni di grande comfort, da un settimanale illustrato che si chiamava Le ore, fatto solo di fotografie e ispirato al motto di Walter Benjamin: ‘Una foto vale mille parole’. Quando incontrai Ugo, lui mi disse: “Senti, ma invece di partire, perché non inventiamo qualcosa insieme, prendi almeno un periodo di riflessione, nella mia pensione c’è un letto che si rende disponibile”. Quindi andai in questa pensione, che era in via Solferino 8, un luogo super simpatico dove noi tra l’altro avevamo un ingresso clandestino, in quanto la padrona non sapeva che potevamo aprire un’altra porta, oltre a quella principale, dalla quale introducevamo tutti coloro che ci chiedevano di venire a dormire. E lì un giorno venne a vivere anche Luciano Bianciardi, che avevamo conosciuto facendo un reportage a Grosseto sulla setta dei Giurisdavidici fondata dal ‘profeta dell’Amiata’, David Lazzaretti. Quando Bianciardi arrivò a Milano venne a cercarci nella nostra pensione e alloggiò da noi, con Maria Jatosti che era il suo grande amore. E si costruì di fatto una grossa amicizia».

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Poi incontri Alfa Castaldi, che aveva un gran culto per i fotografi dell’agenzia Magnum, e ti fa conoscere le foto del grandissimo Robert Capa.

«Alfa Castaldi, che era un erudito, persona di alta cultura e di grande fascino, aveva una grande passione per questo gruppo di fotografi. In questa materia, se vogliamo, era storicamente più colto di noi, e aveva una ricca documentazione che ci mostrava. Comunque le mie simpatie andarono subito a Robert Capa, perché incarnava giustamente quel tipo di fotografo zingaresco che mi attirava. Ha vissuto un’esistenza di grande impegno politico, di grande coraggio critico, e anche di grande umanità. A Londra, tra l’altro, ebbi modo di conoscere una figura che è all’origine di questo grande movimento, il ‘maestro’ di Capa, Simon Guttmann, senza il quale non sarebbe mai nata la Magnum, in un certo senso».

Nel 1954 te ne vai in Francia, a Parigi, attratto innanzitutto dal sogno della Francia rivoluzionaria, «il luogo della fotografia», come hai detto più volte.
«Ho sempre avuto un immenso interesse per la Francia, la cultura e la Rivoluzione francese, che secondo me è un grande momento della storia dell’umanità. Se ci sono tracce progressiste nelle nostre strutture di Stato, in fondo, lo dobbiamo a questi giovanotti che erano Saint-Just e Robespierre, che non erano così sanguinari come li avevano descritti. E poi sono andato a Parigi perché lì si concentravano le forze che offrivano il giornalismo fotografico internazionale di maggiore interesse. Tuttavia era una Parigi abbastanza fantastica dove trovai subito una sorta di bar Jamaica, che era l’Old Navy, un caffè dove venivano per esempio Arthur Adamov, il commediografo, Lucien Goldmann, il filosofo, e tantissime altre figure e una massa di amici fotografi e altri personaggi, giovani intellettuali come Ruggero Savinio. E dove circolavano delle ragazze deliziose che ci seducevano molto».

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Hai fotografato molto anche gli scrittori. Infatti è proprio di questi anni la famosa foto degli scrittori del Nouveau roman. Come è nata?
«C’era questa storia del teatro dell’assurdo, su cui ero andato a fare un reportage insieme a Roberto De Monticelli, ma non eravamo riusciti a fotografare Samuel Beckett. Avevamo incontrato Eugène Ionesco, ero riuscito a portargli persino a casa sua gli attori della sua compagnia che recitavano La cantatrice calva . Ricordo che Ionesco abitava al Trocadero, al pianterreno. Arrivammo in due taxi con gli attori in abito di scena e raggiungemmo la sala da pranzo, con gli attori vestiti, tutti seduti a tavola; così quando lui, sua moglie e sua figlia andarono a pranzare ebbero questa sorpresa. Comunque, mentre Ionesco era una mia vecchia conoscenza, quindi accessibile, Beckett risultava praticamente fotofobico. Stava in un rustico a Ussy-sur-Marne. Nel 1957 andammo lì per incontrarlo e, nonostante il mio scetticismo totale, Roberto suonò il campanello. Io vidi un tale che a quattro zampe cercava di abbassare le veneziane della casa. E così ripartimmo con le pive nel sacco. Due anni dopo, per un reportage realizzato con Giancarlo Marmori per L’Illustrazione Italiana , tornai a trovare Jérôme Lindon, l’editore delle Editions de Minuit, con l’intento di realizzare una fotografia dei suoi scrittori, che tra loro non si conoscevano nemmeno. Fu lui che riuscì a convincere Beckett, oltre a tutti gli altri, cioè Claude Simon, Nathalie Sarraute, Claude Mauriac, Claude Ollier, Robert Pinget, Alain Robbe-Grillet. Fu sicuramente un momento abbastanza straordinario di riunione di personaggi impossibili, e infatti poi questa foto ebbe un’enorme diffusione in seguito. Anche se anni dopo Robbe-Grillet disse che il Nouveau roman non era mai esistito, ma era stata solo un’invenzione di un fantasioso fotografo italiano. In quell’occasione capii che Beckett era umile, generoso, simpatico, altruista. E mi disse persino: “Quando vuoi fotografarmi vieni pure”. Io in realtà ne ho approfittato solo un paio di volte. Vorrei aggiungere che di quello stesso giorno esiste una seconda foto con altri due scrittori che arrivarono in ritardo: erano Michel Butor e Jean Cayrol, l’autore dello straordinario commento al documentario su Auschwitz Nuit et brouillard di Alain Resnais».

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Negli anni Sessanta però torni in Italia. Ti stabilisci a Roma, vai a fotografare le mondine, i cortei operai, ma memorabile di quel periodo è la famosa foto rubata al processo Panagulis ad Atene, che poi ha fatto il giro del mondo.
«A Roma il nostro Jamaica era la trattoria Cesaretto in via della Croce, frequentata da intellettuali, tutto governato da un personaggio come Luciano Guerra, che aveva una sensibilità molto grande. Insomma, a Roma trovai una dimensione di umanità e una base ideale per partire in giro per il mondo. Invece per quanto riguarda il viaggio in Grecia, accadde che ci andai per le battaglie per la libertà, che furono dei momenti di grandissima intensità. Perché poi una cosa straordinaria della Grecia è che tutto diventa poesia: cioè la notte, per esempio, nelle taverne, la gente canta e parla in poesia e discute di politica. È un mondo che mi ha sempre affascinato contro cui si è abbattuta una repressione durissima, questo colpo di Stato dei colonnelli dell’aprile del 1967, per il quale andai a fare un reportage quando venne processato Alekos Panagulis, che aveva commesso un attentato contro i colonnelli e che venne condannato due volte a morte. Al processo nel Tribunale militare di Atene, scattai con estrema discrezione diverse fotografie. Un militare se ne accorse e, in mezzo alla grande folla, venne verso di me lasciandomi il tempo di sostituire il prezioso rullino, che affidai a Camilla Cederna, insospettabile signora. Poi quelle immagini fecero il giro del mondo. Ricordo la notte, insieme a un gruppo di giornalisti, vicino alla montagna dove doveva essere ucciso, mentre attendevamo se arrivava il suono della fucileria, che invece non venne, per fortuna. Poi con Panagulis mi incontrai dopo, quando tornò libero. In ogni caso trovarono il modo per farlo sparire: la sua morte è piena di lati oscuri».

Nel 1968 però sei di nuovo a Parigi, per il Maggio francese.
«Mi sono ritrovato nel Maggio, nel cuore dello scontro in rue Gay-Lussac. Preciso che quando si fa il fotografo occorre conservare una sorta di distaccata obiettività. Non sono adatto a fare foto di mera propaganda, anche se ho il cuore spostato a sinistra. Ritengo che la propaganda è di certo un atto utile, concreto, della battaglia politica, ma il fotografo è lì per descrivere la vita, per raccontare la verità. Robert Capa diceva: “La miglior propaganda è la verità”. Mi ritrovai d’improvviso – dicevo – in mezzo a una carica delle Crs (Compagnies républicaines de sécurité). Cominciai a bussare freneticamente a tutte le porte per farmi aprire, avvolto nel fumo dei lacrimogeni. Alla fine mani pietose mi aprirono e potei salire al secondo piano dove, disteso su un balcone, tra le inferriate, potei scattare delle fotografie di quel momento in modo relativamente protetto».

Un altro fatto della storia che ti ha interessato molto è la guerra di Spagna, sulla scia di Robert Capa, di George Orwell. Come mai?
«Mi interessa per via della sua importanza morale, per la sua chiarezza in cui gli avversari si riconoscevano scientemente, la sincerità con la quale i combattenti facevano quello in cui credevano. E poi è l’ultima guerra a scala d’uomo, una guerra civile, che ha più senso perché è una guerra ideologica. In tante occasioni sono tornato sui luoghi della guerra di Spagna. Una volta andai sul campo di battaglia di Guadalajara insieme a Giovanni Pesce, l’eroico partigiano che proprio lì aveva combattuto. Mi sono molto interessato a Federico García Lorca. E poi feci un’indagine fotografica sui luoghi delle sanguinose gesta del fascista italiano Arconovaldo Bonaccorsi, detto il conte Rossi, che conquistò Maiorca, la trasformò in una base per le aviazioni italiana e tedesca inaugurando il terrorismo aereo sulle popolazioni civili. Così come mi interessai alla vicenda della famosa ‘fotografia del miliziano’ di Capa per dimostrare la verità a lungo negata di questa storica immagine. Il miliziano si chiamava Federico Borrell García, giovane operaio tessile, anarchico della colonna di Alcoy, una cittadina che sorge nei pressi di Alicante. L’assalto decisivo nella battaglia di Cerro Muriano, il 5 settembre del 1936, salvò probabilmente la vita a Robert Capa e agli altri inviati stranieri che assistevano alla battaglia».

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Tra Roma e Milano hai fotografato molto anche gli artisti, il mondo del cinema. Sei stato amico di Pier Paolo Pasolini – ricordo alcune foto scattate sul set del film La ricotta – ma anche di Paolo Volponi. Cosa puoi dire di questi due scrittori grandissimi che hai visto così da vicino?

«Be’, che sono entrambi due figure di una straordinaria umanità, di un grande talento e di una grande generositàe, soprattutto, di una immensa passione civile. Tutti e due sono il contrario dello scrittore mondano, arrivista, elegante e mediocre. E sono delle persone magnifiche. Per esempio, facevo parte di una specie di cerchia molto privilegiata attorno a Laura Betti che faceva dei meravigliosi risotti in via del Babbuino. Qui venivano Paolo Volponi e Pier Paolo Pasolini. Non ricordo di averci mai visto Moravia, per quanto fosse molto legato a questo gruppo, ma Enzo Siciliano, Romano Costa e altri amici che si ritrovavano intorno a questa sorta di sacerdotessa della gastronomia, che tra l’altro cantava delle canzoni meravigliose».

È vero che una volta in Cappadocia, quando hai detto che il tuo mestiere era quello di fare le fotografie, i contadini del luogo si sono scandalizzati?
«È vero, c’era un gruppo di contadini che arava un campo in una montagna molto impervia, in mezzo alle chiese rupestri. Mi diedero persino in mano un erpice dei più arcaici per tracciare un solco e alla fine sono mezzo svenuto, dopo avergli fatto una specie di serpente ondulato e lontanissimo dalla linearità solita. Ero con Roberto Faidutti e Carlo Mascetti, vivemmo un’esperienza straordinaria di tre mesi in Anatolia e, appunto, questi contadini ci chiesero: “Voi cosa fate di mestiere?”. “Noi facciamo i fotografi”. E loro: “Perché, il fotografo è un mestiere?”. In realtà è un grande mestiere. Lo considero il mestiere che conserva la memoria».

Invece come sei arrivato qui a Fermo?
«Quando un gruppo di ferrovieri mi propose a Scanno di fare una mostra fotografica che poi non ho mai fatto, accettai subito e di colpo mi innamorai di Fermo. Voglio anche aggiungere che Annie Duchesne, la mia compagna, una studiosa dell’Ecole des Hautes Etudes, a sua volta rimase colpita da questo posto e dai ricchi depositi della sua biblioteca meravigliosa. A Fermo
sono effettivamente molto legato. Soltanto che io, per la verità, non ho una patria sola, ma parecchie patrie. Se posso esibirmi in questa dichiarazione un po’ ambiziosa, la penso come Garibaldi, e cioè sono un patriota internazionalista».

Adesso dove vorresti andare? Stai progettando qualche nuovo viaggio?
«Sono incerto se andare o meno in Albania. Ho letto tutto Kadare. Devo colmare questa lacuna. Un’altra cosa che mi manca è che non sono mai andato in Polinesia, sulle tracce di Gauguin, o in Patagonia. Non come Bruce Chatwin, che era un esteta, un avventuriero con un approccio fortemente letterario. Il mio è giornalistico. Ma a parte lui, che è stato un grandissimo raccontatore, sono stupito che ci siano delle persone che scrivono in modo molto elegante per non raccontare niente. Dei fatti reali, dei documenti del mondo, dico. Per scrivere è meglio aver vissuto».