#1 – Dei sogni e degli accordi

di Juri Bomparola

Generalmente a chi mi chiede chi sono, rispondo “Juri”. A chi mi chiede cosa sono, rispondo automaticamente “un musicista”.

L’articolo indeterminativo è sostanziale: sono uno dei tanti, nessuno in particolare.
Non sono il primo, né l’ultimo. Sicuramente non il migliore, ma questo sono: uno Juri qualunque che ha fatto un sogno e risvegliandosi se l’è ricordato.
Una volta sveglio, ho fatto di tutto per addormentarmi di nuovo, con il fine ultimo di tornare a sognare per tutta la vita, o quasi.

Non ho mai voluto trasformare il sogno in realtà: ho sempre e solo desiderato di continuare a sognare.

Differenza non meramente linguistica, ma reale discernimento tra stati esistenziali.
Ho fatto questo sogno piccino picciò, prima ancora di sapere cosa fosse un accordo.
Adoro la parola “accordo”: racchiude in sé la concordanza, il benevolo compromesso, il patto sanguigno tra posizioni che sarebbero inesorabilmente distanti, se non ci fosse un accordo tra loro.
A volte basta la forza di una parola per rendere reale un fatto che naturalmente non dovrebbe esserlo.
Prendiamo per esempio un accordo dissonante: è scuro, è tensione, è cupa emozione.
E’ innovazione che porta al timore inconscio per l’ignoto, una scossa prepotente che passando per la coclea arriva al cervello, armata di mazza per darti la sveglia.

L’accordo dissonante arriva là dove non ti aspetti; perché coscienti o meno, si aspira a una risoluzione più formale, consueta e confortante.
L’accordo dissonante esiste per ricordarti che non c’è una strada sola e comunque sia, la via non è mai dritta.

Lui è dissonante, ma è pur sempre un accordo: compie più miracoli la musica della religione, ma questo non è un dato sorprendente, lo ammetto.
Leggo accordo e interpreto pace. Sento l’accordo e provo pace.
Torno al sogno e a quando è nato, sottoponendomi a una seduta di auto-ipnosi regressiva.
L’effetto della musica sul mio corpo mi è chiara fin da quando ero poco più che neonato; ero solito ballare freneticamente, per poi cadere sul pannolino, sulle note di Caterina Caselli e dei Pooh che mia madre adorava.
Ricordo ancora quanto mi faceva male la verità, a ogni capitombolo, mentre rialzandomi iniziavo a comprendere quanto “chi fermerà la musica?” fosse una domanda retorica.

Passavano gli anni e avvertivo che lo sculettare a ritmo mi stava stretto, almeno quanto i miei vecchi pannolini.

Venne l’epoca di “Kiss me Licia”, anime che io seguivo attento. Eccome se lo seguivo: lo preferivo a “Holly e Benji”, il che faceva preoccupare non poco mio padre.
Gli ho restituito con gli interessi le dovute soddisfazioni per papà calciofili, segnando caterve di goal in vari campionati giovanili ma, come si suol dire in simili casi proverbiali, questa è un’altra storia.
“Kiss me Licia”: un cartone animato giapponese, quindi surreale per costituzione. La trama è farcita di rockstar improbabili, canzoni improponibili, sviluppi della storia ai limiti della fantasociologia.
Personaggi a dir poco inusuali sono protagonisti di situazioni che meno credibili non si potrebbe: un cantante celeberrimo si innamora di una sguattera, contendendosela con un Roby Facchinetti giapponese dai capelli viola; un gatto obeso parlante fa da guida a un bambino di quattro anni che parla come un saggio adulto erudito e che gira da solo per il Giappone, senza che i servizi sociali se ne avvedano.
Il padre della sguattera gestisce una trattoria tipica giapponese, è sempre di pessimo umore (in italiano il nome è traslitterato assurdamente in Marrabbio) e i suoi avvinazzati amici gli infestano il locale da mane a sera. Uno è Bruno Lauzi e l’altro è Lando Buzzanca. Chi conosce il cartone animato in questione comprenderà che mi riferisco a Sam e Lauro.

Steve2
Trascurabili facezie, ma i particolari hanno sempre catturato la mia attenzione più del quadro generale. Soprattutto quando questi particolari sono grotteschi.
Se non fosse di matrice giapponese, crederei che “Kiss me Licia” sia un prodotto della mente di David Lynch: al confronto “Twin Peaks” e perfino “Mullholland Drive” sono meno deliranti e onirici.
Mentre imparavo a memoria i testi di tutte le canzoni dei Bee-Hive, si sviluppava in me l’innato magnete che mi attira tuttora verso gli sfigati.
Non mi immedesimavo in Mirko: un cantante rock con i capelli bicolore non poteva essere il mio modello. Per me era solo un Ciao-Crem da tricologia al gusto panna e fragola.
Potevo entrare in simpatia con il mitico Satomi, ma quei capelli lilla ricordavano troppo la mucca della Milka.
Oltre ai Toxic Twins del Sol Levante c’erano Tony il chitarrista, Matt il batterista e infine lui: Steve.

Un tizio che pizzicava in modo inconsueto le corde di una chitarra menomata, più grande ma con meno corde, senza però compiere i gesti enfatici tipici del guitar-hero.
Chi fosse e quale fosse il suo ruolo non mi era affatto chiaro, ma poco mi importava: era mitico.
Era unico, in quanto anomalo.

All’interno della trama non contava quasi niente, ed era il “quasi” ad affascinarmi, inesorabilmente. Quella minuscola distanza che separa il poco più di nulla dallo zero assoluto era per me una calamita.

L’infinitesima percentuale che tende all’oblìo ma non lo raggiunge mai: in termini matematici il concetto suona magico. Steve era lo “zero virgola zero zero qualcosa”.
Ovviamente ignoravo del tutto il fatto che in quel periodo, senza andar lontano e rimanendo nei miei stessi confini geografici, gente del calibro di Ares Tavolazzi e Patrick Djivas onorassero in maniera eclatante la figura del bassista.
Tutto mi era ignoto, allora: mi bastava essere Steve dei Bee-Hive.
E cantavo.

 

“Vorrei vederti sai, ma so che non verrai
Sì perché tu non pensi a me
Ma io qui lo sai penso solo a te
Ti sogno sempre lo sai.

Chi lo sa se un giorno tu chissà
Mi cercherai chi lo sa
Ma per ora tu no, non vuoi pensar
Che io viva per te, solo per te.

Baby I love you I wonder thing undone
Baby I need you, vorrei vederti ma tu
No non vuoi venir, solo impazzirò senza di te.”

 

Quale profondità di pensiero, quale metrica! Ma, soprattutto, di quanta splendida prosa ermetica erano intrisi questi versi!
Come sottoposto a un’epidurale, venni conquistato fino al midollo da questa idea del bassista.
Ho così iniziato a suonare il basso con la racchetta da tennis di mio padre.
Mi sentivo come Steve, ero come Steve: uno sfigato. Io ero Steve.
Ma la mia condizione mi ha riempito, da allora, di inattaccabili certezze.
Questo è certamente solo l’inizio, ma credo che sia da lì che è cominciato tutto.
Spero che questo tutto non si concluda in maniera analoga: un vecchietto in casa di riposo che suona una racchetta da tennis temo non sarebbe l’immagine di una fine gloriosa.
I prodromi ci sarebbero tutti, ma ne ragioneremo tra decenni, spero.
Il sogno è solo all’esordio ma “Kiss me Licia” è, a mio avviso, una credenziale di tutto rispetto.
Spesso ho pensato di inserire l’aneddoto nelle lettere di presentazione dei curriculum vitae ma ho sempre desistito.
Troppa gente potrebbe non capire la dissonanza tra il mestiere del musicista e un cartone animato giapponese: questione di accordi.

L’accordo con il mio sogno l’ho trovato, e per quanto dissonante sia, ci convivo benissimo.

Sono Juri e bene o male faccio il bassista.
Chiudo gli occhi e torno a circa tre decenni fa. Ricordo quella volta in cui, racchetta in mano, dissi a mia madre: “io da grande voglio fare la rockstar!”
In fondo erano solo sogni, e ora sono solo accordi.

 

Juri Bomparola Musicista professionista dal 2001, lavora nel mondo delle cover-band e si dedica all’osservazione della gente, perché di persone ne incontra parecchie. Gira l’Italia con un basso tra le mani; suona canta e rappa. Dal 2004 fa parte degli OxxxA, storica cover-band milanese che più di vent’anni or sono ha aperto la strada a chi sognava di fare della musica dal vivo in Italia una professione aperta a tutti.

La rubrica “Mamma sono una rockstar!” La mamma vorrebbe un figlio medico, imprenditore o ingegnere. A volte capita che la mamma non comprenda che un musicista cura se stesso e gli altri con la musica, è imprenditore della propria band ed è pure ingegnere del suono. Lo spieghiamo in questo spazio dedicato a piccoli e grandi musicisti e alle loro mamme. Un viaggio non solo on the road ma anche e soprattutto between the roadsIl musicista suona, ma tra un concerto e l’altro pensa e vive. Ispirato da Ungaretti un bassista racconta i suoi piccoli conflitti quotidiani.