Riflessioni sul fotogiornalismo

L’occasione per questa riflessione sul fotogiornalismo si è manifestata assieme a una serie di appunti sgualciti delle lezioni di Allen Ginsberg (1926-1997), padre della beat generation. Da molto tempo pensavo a ciò che desideravo scrivere evitando l’ennesima recriminazione sulla crisi dei media e quegli appunti hanno unito tutti i tasselli.

di Alredo Bini/cosmos
scritto per Eyes Open!, rivista di cultura fotografica

Durante un discorso tenuto nel 1975 al Naropa Institute in Colorado, Ginsberg analizza la poesia di Williams Carlos Williams (1883-1963), descrivendone lo stile, le qualità letterarie, la ritmica e le peculiarità del periodo storico nel quale è stata scritta.La poesia di Williams rompe gli schemi classici favorendo un linguaggio moderno e diretto, è basata sull’osservazione della realtà, descrivendo le scene con un linguaggio affrancato da annosi orpelli stilistici.

Ginsberg legge e porta ad esempio, Nantucket

Fiori attraverso una finestra

viola e gialli

cambiati dalle tendine bianche

Profumano di pulito

La luce del sole del tardo pomeriggio

Sul vassoio di vetro

una caraffa di vetro, il bicchiere

girato, e accanto

è posata una chiave

E il letto bianco immacolato

Nantucket potrebbe essere la descrizione di una fotografia o di un quadro, magari dipinto nel New England con la luce calda, radente e polarizzata dall’oceano a quelle latitudini. Infatti le prime immagini che mi sono apparse nella mente dopo averla letta sono state quelle di alcuni quadri di Edward Hopper (1882-1967), dipinti tra New York e il New England. Oltre mezzo secolo dopo, l’unicità della luce di queste tele ha ispirato il lavoro fotografico “Hopper Meditation” di Richard Tuschman (1965), artista statunitense che reinterpreta le atmosfere dei quadri di Hopper.

Le citazioni letterarie potrebbero andare avanti con le opere di Charles Reznikoff (1894-1976) che in “Five group of Verse”, appendice al romanzo By the water of Manhattan, pubblica una poesia che è l’esatta trasposizione letteraria di “11 AM” di Edward Hopper e di Green Bedroom #2 (4AM) e Green Bedroom (Morning), di Richard Tuschman.

Lei se stava seduta accanto alla finestra che dava sul cortile interno

e guardava al di là del parapetto la luna nuova.

Si sarebbe tolta i fermagli dai capelli attentamente

[attorcigliati,

e si sarebbe buttata sul letto in lacrime;

ma lui stava arrivando e la sua bocca doveva essere fissata

[in un sorriso.

Se lui l’avesse voluta, lei lo avrebbe sposato, qualunque cosa

[fosse.

Bussano. Lei accese la lampada e aprì la porta.

Sua zia e l’uomo  –  la pelle molle sotto gli occhi, la faccia

[attraversata dalle rughe.

“Entrate”, dice il più gentilmente possibile e sorride.

Quello che accomunava l’opera di Williams, Hopper, Reznikoff, e successivamente Tuschman, non era un filone artistico o una corrente intellettuale, ma la poetica delle scene che descrivevano, frutto di un processo di osservazione della realtà attento e ricettivo che può trovare delle analogie con il foto-giornalismo.

Williams Carlos Williams era un medico con la passione della fotografia, trasmessagli da Alfred Stieglitz (1864-1946), ingegnere meccanico e fondatore della corrente della cosiddetta “fotografia artistica”, svincolatasi dal reportage per creare delle immagini con un’estetica slegata dalla cronaca. Charles Reznikoff aveva studiato giornalismo all’Università del Missouri e capì presto che avrebbe usato le parole per esprimere il mondo in versi, anziché per annotare reportage. Edward Hopper, nonostante un diploma presso la New York School of Art, si guadagnò da vivere facendo l’illustratore pubblicitario per 45 anni. Anche se profondamente diversi, avevano in comune l’acuta capacità di osservare la quotidianità della vita. Lo si capisce dall’attenzione per i dettagli, dalle scelte delle luci, le descrizioni delle persone, come in quest’altra poesia di Reznikoff che potrebbe delineare un dipinto, una fotografia, o un frammento di sceneggiatura filmata in seguito con la luce di Tonino Delli Colli. È una storia e i dettagli forniti ci aiutano a capire moltissimo del protagonista, del suo ambiente e stato sociale.

Il calzolaio sedeva nell’oscurità della cantina accanto alla sua panca e alla macchina da cucine, le mani grandi, annerite, le punte delle dita appiattite e larghe, occupate.

Attraverso la grata del marciapiede all’altezza della sua finestra, carta e polvere cadevano di anno in anno.

La sera sarebbe cominciata la Pasqua ebraica. La strada assolata era affollata. Il calzolaio riusciva a vedere i piedi di quelli che camminavano sopra la grata.

Ancora un paio di scarpe e poi avrebbe finito.

Entrò il suo amico, un uomo con una lunga barba nera e vestiti sporchi e logori, ma con le scarpe aggiustate e lucidate a nuovo.

”È veramente bello fuori, il mondo è proprio bello“.

Una pentola di pesce bolliva sul fornello. A volte l’acqua fuoriusciva e sibilava.  L’odore del pesce riempiva la cantina.

“Deve essere bellissimo nel parco oggi. Dopo il pesce ci facciamo una passeggiata nel parco”. Il calzolaio annuì.

Il calzolaio si sbrigò a finire il lavoro sull’ultima scarpa. La pentola sul fornello bolliva e sibilava. Il suo amico camminava avanti e indietro per la cantina con le scarpe aggiustate e lucidate a nuovo.

Quando penso ad autori italiani che mi hanno colpito per la loro minuziosa osservazione della realtà mi vengono in mente Tiziano Terzani (1938-2004), giornalista e viaggiatore; Mario Dondero, leggenda del fotogiornalismo Italiano (1928-); Mario Giacomelli (1925-2000), fotografo, ma tipografo di formazione, annoverato tra gli autori più riconosciuti e quotati al mondo. Nelle loro opere emerge inequivocabilmente l’attenzione, quasi reverente, per la condizione umana. Sono attratti da ciò che descrivono e l’empatia che sentono è tangibile. Comprendono le persone e non si limitano a definirle attraverso standard stereotipati imposti dalla società, dai governi, dalla polizia o da qualche centro di ricerca o istituzione. Tutti e tre cercano la poesia nella vita, sia bella o sofferente; affiora l’amore e la dedizione verso il proprio mestiere e la sintonia che permette loro di entrare in profondo contatto con altre persone. Mario Giacomelli ritma addirittura alcuni racconti fotografici con versi tratti da Eugenio Montale, Emily Dickinson, Sergio Corazzini e alcuni suoi scritti personali arrivando a creare autentici capolavori.

Marco Pesaresi (1964-2001) è un altro autore che riusciva a fare poesia con le immagini. Mi ricordo che la prima volta che vidi un suo lavoro ambientato a Rimini pensai immediatamente a Fellini. Pesaresi mi faceva tornare in mente la poetica malinconica di certe scene de “I vitelloni”. Si percepiva il trasporto per il soggetto perchè l’osservava, lo amava, e non si limitava solo a guardarlo per restituircelo secondo determinati stili. Non si può spiegare, sono qualità che puoi avere o no, e si capisce subito se un autore è genuinamente coinvolto in quello che racconta oppure deve farsi apprezzare.

Nel primo caso emergono dettagli e descrizioni snidate dal sottofondo degli eventi, dei fatti, oggi così onnipresenti che quasi non ci facciamo più attenzione.

Per dirla con Guy Talese (1932) “la notizia muore domani”, la descrizione della condizione umana invece, raccontata dopo un processo di osservazione attento e profondo, rimane in eterno, perché riflette la storia della società in quel momento. Si potrebbe scrivere a lungo sulle assonanze tra autori diversi e differenti forme d’arte come le fotografie di Stieglitz e le poesie di Williams o la fotografia di Pesaresi e il cinema di Fellini, ma ciò che è fondamentale mettere in rilievo è che tutti erano influenzati dalla “poetica della vita reale”, ed erano capaci di osservarla per poi reinterpretarla attraverso la loro arte e i propri valori morali e umani.  Osservare significa esporre i nostri sentimenti, guardare gli eventi con occhi diversi, con più attenzione. È un processo che richiede tempo, ricerca, studio, sensibilità, voglia di mettersi in discussione e la consapevolezza che le proprie certezze potrebbero venir meno. Implica aprirsi al soggetto e farlo diventare parte di noi. Rende vulnerabili, ma secondo me è l’unico modo per raccontare una storia senza rischiare di essere sterili.

Ed è proprio dal venir meno di questo processo, per nulla immediato, che nasce la crisi del foto-giornalismo di cui oggi tutti parlano e che coinvolge l’intera società contemporanea che ha progressivamente ridotto la capacità di guardare con attenzione, di riflettere per poi capire meglio un fatto, una situazione, una storia. E i media sono stati il veicolo attraverso cui questo atteggiamento sbrigativo si è esteso alla società.

Jack Kerouac (1922-1969), al quale si attribuisce la paternità del movimento “Beat”, studiando i lavori del premio Nobel Ivan Pavlov che agli inizi del ’900 nell’ambito delle analisi sul comportamento elaborò il concetto di riflesso condizionato, comprese quanto la possibilità di condizionare le menti sia inimmaginabile e ascrisse sia al comunismo che al gruppo TIME – LIFE la definizione di “male estremo della società”. Kerouac fu tra i primi a capire che i media moderni possono raccontare la realtà pur non osservando, ma distorcendola in base a logiche politiche e commerciali che hanno poco in comune con il modo di lavorare degli autori citati in precedenza.

A partire dagli anni ’60, il diffondersi della televisione, con i ritmi narrativi sempre più sfrenati e fondati sull’aumento degli ascolti invece che sul contenuto, ha plasmato il modo di fare informazione, producendo l’appiattimento riflessivo a cui assistiamo oggi.

Quando la stampa occidentale dedica copertine e servizi alla minaccia del terrorismo islamico senza usare la stessa enfasi a seguito di gravi attentati accaduti in Russia, o al fatto che ISIS s’è sviluppata in Iraq dopo l’instaurazione dei governi filo-occidentali e la consecutiva attuazione di avventate politiche interne, condiziona irreparabilmente il pensiero di milioni di persone che senza nemmeno leggere i giornali li vedono esposti nei chioschi e nelle rassegne stampa di tutto il mondo.

Quando un terremoto colpisce il Bangladesh e le fotografie dei cadaveri imperversano ovunque per giorni, ma non si mostrano gli stessi cadaveri quando a essere colpito è un paese occidentale – e l’Italia con l’Aquila ne sa qualcosa – il messaggio che subdolamente passa è che gli altri contano meno di noi, risvegliando sensi di colpa che con il pretesto dell’aiuto vogliono giustificare le continue ingerenze occidentali nei paesi in via di sviluppo.

Wangari Maathai (1940 – 2011) in “La sfida dell’Africa”, esorta gli africani a smetterla “di imputare al colonialismo il fallimento delle infrastrutture, la disoccupazione, l’abuso di droghe e la crisi dei profughi” e pur riconoscendone le implicazioni storiche, li sprona “affinché pensino e agiscano autonomamente, imparando dai propri errori.” I media occidentali invece fanno spesso leva su pulsioni opposte che giustificano assistenza, aiuti, ingerenze. In poche parole il consolidamento di posizioni geopolitiche ed economiche.

La guerra del Vietnam e i movimenti di protesta nati negli Stati Uniti in quegli anni, anche a seguito di ciò che mostravano i media, furono lo spartiacque dal quale ha avuto origine l’attuale modello comunicativo. Una stampa troppo indipendente comprometteva egemonie che non si potevano rischiare.

Durante la prima guerra del Golfo, all’inizio degli anni ’90, gran parte dell’informazione occidentale era orientata a favore del punto di vista della coalizione americana e chi vi si contrapponeva lo faceva più per ideologia che per aver osservato sul campo le eventuali  ragioni degli iracheni. Fu pressoché impossibile osservarne gli effetti sulla popolazione civile, il nemico venne demonizzato e le battaglie mostrate come se si trattasse di uno show. Fu la prima guerra a essere trasmessa in diretta televisiva e a vedere l’impiego delle cosiddette bombe intelligenti, che in realtà furono usate solo in minima parte.

Col tempo questo modello comunicativo ha favorito decisioni impopolari legate ad altri interventi militari, in un crescendo di superficialità e alienazione che recentemente è sfociato nei social media, dove questioni importanti e complesse sono relegate al numero di like o retweet che si ottengono per ogni post.

Come se non bastasse molte delle inchieste d’approfondimento svolte attualmente ricevono sovvenzioni dagli stessi gruppi di potere economico-finanziario che, talvolta, contribuiscono a creare i problemi sociali che i giornalisti dovrebbero raccontare; e ancora peggio è che per farsi finanziare il progetto è necessario argomentare in precedenza il punto di vista che s’intende seguire, precludendosi così l’apertura mentale e la libertà necessarie per poter guardare i fatti senza condizionamenti.

Questo modo di produrre contenuti è l’antitesi del giornalismo. Scrivere, motivare e valutare un progetto standosene a migliaia di chilometri di distanza per poi recarsi sul campo non per investigare, ma per cercare conferma di ciò che è stato presentato al board che l’ha finanziato, è un modo di fare informazione che si sta diffondendo velocemente. Ritengo tutto ciò un abominio che viene normalmente spacciato per inchiesta giornalistica.

Da dove nasce questo deterioramento?

Me lo sono chiesto molte volte, soprattutto dopo la guerra in Libia, quando ho potuto lavorare a fianco di molti colleghi e riflettere sui differenti livelli di sensibilità di ciascuno. Chi fa il mio mestiere sa benissimo come certe pulsioni professionali siano legate all’egocentrismo e all’affermazione personale nei confronti degli altri colleghi. Ci piace essere i primi a parlare di certi argomenti, preferiamo lavorare con persone con le quali condividiamo determinati punti di vista e che rafforzino il nostro ruolo di controllo durante la realizzazione del progetto. Il terreno di gioco si è spostato dal confronto sulla vita delle persone alla volontà di affermare un concetto approvato dalla società alla quale facciamo riferimento.

La recente crisi dei migranti, con due fazioni contrapposte che si sfidano a colpi di propaganda ne è un triste esempio.

Slogan come “accogliamoli tutti, aboliamo le frontiere e chiamiamoli in un altro modo”, oppure “rimandiamoli indietro e aiutiamoli a casa loro” danno il senso della demagogia generata dalla mancanza di osservazione critica, scevra da condizionamenti d’interesse, culturali o ideologici e sono il risultato di un’informazione veicolata secondo schemi predeterminati, che ignorano persino le esistenti leggi di diritto internazionale che andrebbero solo rispettate dai governi e dalla popolazione. Sono sempre più convinto che mai come oggi ci sia bisogno di un’informazione meno sensazionalista, più riflessiva e approfondita che parli all’anima delle persone piuttosto che ai loro impulsi, capace di risvegliare in noi curiosità, amore per il vero, senso di responsabilità attraverso racconti centrati sulla storia della gente e non solo sui fatti.

Ma per fa questo occorre avere il tempo per osservare e conoscere chi abbiamo davanti.

Reportage come “Invasion Prague” di Joseph Koudelka (1938); “Few Comforts or Surprise”, “Below the Line” di Eugene Richards (1944); o “Curse of the Black Gold” di Ed Kashi (1957) sono sempre più rari, perché realizzabili solo se si conosce benissimo quello che si racconta, consapevolezza che si ottiene solo dopo molto tempo, non in una settimana o due, specie se si è legati a doppio filo al mercato o ai soldi di una fondazione alla quale si è dichiarato prima come parleremo di un determinato argomento.

A questo proposito, uno dei lavori più significativi che ho visto quest’anno è di un fotografo di Los Angeles, Matt Black (1970), “The Geography of Poverty”. Abbandonando lo stereotipo che descrive l’America come un paese avanzato e benestante, con sacche di povertà sparse solo in determinate aree rurali o urbane, come la regione degli Appalachi e Harlem, Black, ha percorso 18 mila miglia circumnavigando gli Stati Uniti e incontrando ogni due ore di viaggio zone dove una percentuale della popolazione, compresa tra il 20 e il 55%, vive sotto la soglia di povertà (23,850 $ totali per una famiglia di 4 persone. Dato 2014). Una ricerca critica basata sull’osservazione della vita dell’uomo all’interno di un sistema economico che non riesce più a sostenere coloro che, attraverso il proprio lavoro, contribuiscono al benessere di una limitata fascia della società, frangente già di per se riprovevole. Un reportage realizzato viaggiando per mesi attraverso 70 città, stando con la gente e raccontandola, lontano dagli accattivanti web documentari da guardare distrattamente in metropolitana e che intasano sempre più le nostre connessioni. Un documento che, oggi nel 2015, descrive le condizioni sociali di 45 milioni di cittadini Statunitensi e di come la loro situazione è inestricabile da questioni come le migrazioni, l’inquinamento ambientale, l’uso della terra, e l’industrializzazione.

Per fare questo mestiere ci vuole tempo, e il tempo è una risorsa che viene concessa sempre più di rado, ma è una nostra scelta se accettare questo modo di fare informazione o se come autori desideriamo invertire la tendenza ricominciando a raccontare la vita delle persone attraverso la loro condizione umana, l’unica cosa che conta davvero nel dipanarsi di una storia perché riflette lo stato della società in quel preciso momento.

Quindi piuttosto che di crisi del foto-giornalismo, a mio modo di vedere si tratta della nostra limitata capacità di osservare e di percepire la realtà senza filtri, siano essi rappresentati da logiche commerciali, narcisistiche o da basi intellettuali ed emozionali livellate da decenni di condizionamenti perpetuati anche dal mondo accademico. E di questo deterioramento i responsabili non possiamo che essere noi.