Grecia, il limbo dei migranti

Oltre 1500 persone sono state portate dal confine macedone ad Atene, ma nessuno sa cosa ne sarà di loro. Il reportage dalla capitale greca

di Caterina Mazzilli, da Atene

Il caso vuole che io sia ad Atene mentre gli avvenimenti che toccano da vicino migranti e richiedenti asilo accelerano. La sera del 9 dicembre il campo di Idomeni, al confine con la Macedonia, è stato sgomberato dalle forze di polizia greche. Se ne parlava già da qualche giorno, ma nessuno sapeva quando sarebbe successo di preciso. Ogni giornalista, volontario o operatore di ONG è stato costretto ad abbandonare l’insediamento mentre veniva evacuato.

Circa 1700 persone sono state caricate su dei pullman diretti ad Atene, senza che nessuno avesse nemmeno il tempo di raccogliere quei pochi effetti personali che si portava dietro. Una volta ad Atene, nessuno sa cosa succederà.

Chiunque non possa provare di essere cittadino siriano, iracheno o afgano non è considerato un rifugiato “legittimo”. In altre parole, non può attraversare il confine con la Macedonia e deve lasciare il territorio greco entro 30 giorni, come scritto su un permesso rilasciato all’arrivo in Grecia; spesso su una delle isole come Lesbo o Chios.

Meno chiara è la situazione degli iraniani, che, pur non potendo attraversare il confine, non possono nemmeno essere deportati. Il divieto di oltrepassare il confine, insieme alla necessità di continuare il viaggio, provoca un’alta richiesta di documenti illegali, soddisfatta già nei campi sulle isole.

Essere stati costretti ad abbandonare Idomeni, così vicina al confine, per tornare ad Atene, è come essere riportati alla casella precedente in quel malefico gioco delle oca con cui mi trovo sempre a paragonare il processo di richiesta di asilo. Nella capitale, le informazioni su come lo stato gestirà questa situazione sono inesistenti.

Centinaia di migranti e richiedenti asilo sono stati ammassati nello stadio di Taekwondo, in condizioni disumane, senza cibo a sufficienza, materassi dove coricarsi o bagni funzionanti.

“É lo stato che ha aperto lo stadio” mi spiega un volontario “Ma se non fosse per le persone qui non ci sarebbe niente. Le autorità nazionali dicono di non avere soldi a sufficienza nemmeno per fornire il cibo e stanno chiedendo ai cittadini di donarlo”.

E chi non riesce ad entrare nello stadio? Chi non riesce ad entrare nello stadio resta nelle strade e nelle piazze, come piazza Vittoria, brulicante di uomini, donne e bambini che si portano dietro i loro averi in qualche borsone di plastica. “E questo non è niente”, continua. Due settimane prima, la piazza era piena di tende.

C’è un clima da limbo. Ragazzi vanno avanti e indietro per la piazza, parlano con i compagni di viaggio, cercano di organizzare il prossimo spostamento. Un gruppo di giovani iraniani cerca un biglietto per il pullman per Idomeni. Per tornare indietro ancora una volta. Perché anche chi non viene da Siria, Iraq o Afganistan vuole attraversare il confine. Entrare in Macedonia, per poi continuare attraverso Serbia, Croazia, Slovenia e infine Austria, forse Germania.

Sullo sfondo, altre scene. Alcuni bambini giocano con dei volontari di alcune associazioni. Una signora si sente male e sviene e dei volontari fermano un taxi per portarla in ospedale.

Da una parte c’è uno stato che apre uno stadio come misura d’accoglienza, omettendo poi provvedere anche solo ai minimi servizi. Dall’altra, ci sono i volontari che l’accoglienza la stanno facendo davvero. Come i ragazzi e le ragazze che dal 25 settembre hanno occupato l’ex struttura pubblica di via Notarà 26 e l’hanno resa un rifugio temporaneo per famiglie di migranti e richiedenti asilo. Quattro piani, quattro camere per piano e, in media, tre letti per camera, più un paio di letti per i volontari, al quinto piano.

L’organizzazione e la solidarietà con cui gestiscono questo spazio mi affascina. Non c’è un vero e proprio limite di tempo, ma di solito i migranti si fermano una, due notti, al massimo una settimana.

C’è un tabellone con dei turni in cui i volontari scrivono il proprio nome per segnalare quando potranno essere presenti. Nella vecchia guardiola del portiere, trasformata in una vera e propria reception, si accoglie chi arriva in cerca di un letto, ma anche chi chiede informazioni perché vuole collaborare o chi porta cibo, vestiti, oggetti utili. Nello spazio di quattro ore in cui io mi fermo a Notarà, almeno tre persone portano qualcosa. C’è un magazzino pieno di prodotti per la pulizia, coperte e vestiti, tutti recuperati o donati, una cucina e uno spazio comune. Tutti partecipano e tutti contribuiscono alla pulizia e al mantenimento dello stabile, cucinando, pulendo le stanze, rispondendo a una telefonata, andando in piazza Vittoria a informare altri possibili utenti, offrendo cibo, vestiti, medicine, ma sopratutto energie e tempo.

“Non sappiamo bene cosa succederà adesso che le cose sono cambiate e che sono arrivate altre persone, dovremo organizzarci” dice una volontaria “Avremmo bisogno di più volontari, c’è sempre bisogno di qualcuno… Dovremmo cercare di riuscire a far circolare di più questo messaggio”.

E il mio pensiero non può non andare in due direzioni. La prima va verso tutte le esperienze di occupazioni di ex strutture pubbliche che agiscono dove lo stato fallisce o è assente, che trasformano edifici fatiscenti in esperimenti virtuosi di solidarietà e di vivere comune, certamente più umani dell’ammassare persone in uno stadio.

La seconda invece e che quello che sta succedendo a Notarà e in tutte le altre realtà simili è un esempio di fronte a cui mettere i governi europei per dimostrare, come se ce ne fosse ancora una volta bisogno, quanto poco ci vuole per creare un sistema di accoglienza funzionante, senza ipocrisie.