La sfida di Norman

Mailer è andato oltre, sempre. Perché allergico ai limiti, perché nato per saltare gli steccati

di Christian Elia

Quaranta anni fa sono stati pubblicati molti libri. Molti interessanti, tanti non indimenticabili, ma uno eterno di sicuro. Perché La Sfida (titolo originale The Fight, pubblicato in Italia nel 1976 con il titolo Il combattimento, diventato poi La Sfida nella riedizione di Einaudi) di Norman Mailer è un libro che resta come un tatuaggio sulla pelle del suo tempo.

Come un tatuaggio, anni dopo, fossero anche quaranta, è ancora là. A raccontare come si può raccontare, a spiegare che c’è un mondo fatto di dettagli che fanno ancora più grandi i grandi appuntamenti. Di fatto, nel 1975, che l’incontro di boxe tra Mohammed Alì e George Foreman, a Kinshasa, all’epoca Zaire (oggi Rep. Dem. Del Congo) fosse un momento epocale della storia dello sport erano tutti in grado di capirlo. Ma è come scegli di raccontarlo, che fa la differenza.

Norman Mailer decide di guardare dietro la scena principale, sfruttando il rumore di fondo di centinaia di giornalisti e televisioni, per muoversi quasi non visto. Ci sono momenti del libro che fanno pensare a una mosca, presente e partecipe, ma allo stesso tempo sollevata in alto, senza vincoli, senza limiti, capace di muoversi nella zona d’ombra del racconto.

Il 30 ottobre 1974, a Kinshasa, si era dato appuntamento il gotha del pugilato. Perché Alì era rabbioso e, in fondo, tutti tifavano per lui. Detronizzato per motivi politici, in quanto obiettore rispetto al conflitto in Vietnam, nel 1971, era stato capace di tornare sul ring e riprendersi la corona dei massimi, ma poi l’aveva persa e questa volta in combattimento. Per la prima volta, la sua lingua tagliente sembrava quella del frustrato, non dell’invincibile. Foreman sembrava invece il moloch invincibile, ma non innamorava.

E Alì la butta in cagnara: io sono il nero ribelle, lui è il servo. Io sono intelligente, lui è stupido. Nessuno sapeva comunicare in modo dicotomico come Alì: o con lui o contro di lui. Mailer, invece, riesce a infilarsi proprio nel mezzo, raccogliendo le fragilità che la spocchia urlata del grande Alì celava e nel carattere opposto di Foreman, che nessuno aveva voglia di raccontare.

Ma nel capolavoro di Mailer c’è molto di più, c’è la dittatura della televisione che si affaccia, poco prima di mangiarsi lo sport, c’è il lungo addio dell’età dell’oro della boxe, che si regala un evento memorabile quasi come fosse una festa d’addio, c’è l’Africa della decolonizzazione degli Anni Settanta e dei suoi satrapi.

Il contributo di Mailer al giornalismo narrativo è grande, grandissimo. E il suo stile unico, inconfondibile. Perché lui era oltre un genere, e riusciva a esserlo essendo dentro quel genere e i fatti. Mentre la grandezza di tanti navigatori del giornalismo narrativo sta nel cogliere i dettagli, la grandezza di Mailer sta nel raccontare i grandi eventi da un punto di vista originale, di taglio, dal di dentro.

Un altro grande esempio di una carriera speciale è di sicuro il libro dedicato a un’altra storica giornata, il 21 ottobre del 1967, quando un esercito di pacifisti marciò per la prima volta a Washington contro il governo in una veemente e decisiva presa di posizione perché cessasse la guerra del Vietnam. Anche in questo caso tutto il mondo raccontò la marcia, ma nessuno seppe raccogliere il campionario umano che la compose, dal poliziotto brutale al fricchettone impenitente e radical chic.

Un libro di quarant’anni fa, che ancora oggi è struggente. Una scrittura aggressiva, poco lineare, ma capace di precipitare il lettore nell’epicentro della storia, quando il grande evento sembra suicidarsi nella retorica. Mailer andava in direzione opposta, raccontando a modo suo il contemporaneo, partecipandolo.