Malesia: Zunar, persecuzione di stato

Chi è  il vignettista malese che rischia 43 anni di carcere

Di Giulia Dessì

Zulkifli Anwar Ulhaque, vignettista politico malese meglio conosciuto col nome d’arte Zunar, da diversi mesi viaggia in tutto il mondo per ritirare premi, partecipare a conferenze e inaugurare mostre. Non solo. Scelto da Amnesty International per la campagna “Write for rights”(in Italia #corriconme), Zunar viaggia soprattutto per denunciare le limitazioni alla libertà di stampa del governo malese e attirare l’attenzione sul suo imminente processo.

La satira di Zunar non è gradita alle autorità malesi. Per questo è stato arrestato più volte e i suoi libri sono stati confiscati e proibiti. Da febbraio pendono su di lui nove accuse di sedizione, tante quanti i tweet scritti contro il verdetto del processo al leader dell’opposizione Anwar Ibrahim.

Accusato di avere istigato odio contro il governo, e quindi violato la legge contro la sedizione (Sedition Act), Zunar rischia ora una pena massima di 43 anni di carcere.

“Avrebbero potuto incriminarmi per un unico capo d’accusa. Il fatto che ce ne sia uno per ognuno dei miei nove tweet, tutti pubblicati nell’arco di un’ora, significa che stavolta vogliono davvero essere sicuri di fermare la mia penna per sempre” mi dice Zunar in un pub di Londra, vicino a Westminster, al termine della manifestazione in cui aveva simbolicamente portato una sua vignetta ai cancelli di Downing Street.

“Ho chiamato i giudici ‘lacchè in toga nera’, e accusato di cospirazione l’intero processo. Il verdetto era già scritto e deciso dal governo.” Anwar Ibrahim, capo del principale partito di opposizione, Parti Keadilan Rakyat, è ritenuto colpevole di “sodomia” per dei presunti rapporti sessuali con un suo ex assistente nel 2008. La corte suprema della Malesia, il 10 febbraio 2015, ha respinto l’appello dei legali e confermato in via definitiva la sua condanna a cinque anni di carcere e l’interdizione dagli uffici pubblici per 10 anni.

Secondo molti, questa condanna è il tentativo riuscito del governo di eliminare politicamente il suo principale avversario. Anwar Ibrahim non potrà infatti candidarsi alle elezioni del 2018. A causa dei suoi tweet di protesta, Zunar fu arrestato lo stesso 10 febbraio, senza alcuna spiegazione, per tre giorni. Così prevede il Sedition Act, una legge del 1948 introdotta dal governo britannico durante il periodo coloniale e ancora in vigore. Lo stesso primo ministro Najib Razak nel 2012 si impegnò pubblicamente a rimuovere la legge, definendo l’epoca coloniale “un’era del passato”.

Contrariamente alle promesse, invece, il governo malese sta ricorrendo sempre più spesso al Sedition Act per punire e mettere a tacere chi esprime opinioni politiche e religiose poco gradite alle autorità. “Più il governo è insicuro, più diventa oppressivo. È per questo che la situazione ultimamente è peggiorata molto,” mi spiega Zunar.

L’UMNO (Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti), partito del primo ministro Razak facente parte della coalizione Barisan Nasional, è al potere dal 1957, anno di indipendenza della Malesia dalla Gran Bretagna. Dal 2008, tuttavia, ha iniziato a perdere consensi. Le elezioni del 2013 lo hanno visto vincere con una maggioranza limitata e con gravi accuse di brogli elettorali. Il processo contro Zunar rientra nel giro di vite voluto dal governo per reprimere ogni spazio di dissenso in Malesia. Nei primi sei mesi del 2015, secondo quanto riporta Amnesty International, più di 40 giornalisti, accademici, attivisti e avvocati sono stati interrogati, arrestati o denunciati secondo il Sedition Act.

Se Zunar potesse cambiare qualunque cosa nel suo paese, corruzione e sistema giudiziario avrebbero la priorità assoluta. È su queste due questioni che si concentra la sua lotta. “In Malesia c’è un bellissimo palazzo di giustizia senza giustizia,” dice ridendo. Molte vignette accusano il governo di controllare il potere giudiziario: “se il sistema giudiziario non è indipendente, come si può avere giustizia?”

La prima volta che fu arrestato, e interrogato in ben sette diverse stazioni di polizia, gli avvocati di Zunar invano denunciarono la polizia alla corte suprema per arresto immotivato. La corte suprema si schierò dalla parte del governo e le intimidazioni continuarono.

“Prima disegnavo questioni di alta politica, più profonde e inaccessibili,” spiega il fumettista, “ma ultimamente ho deciso di trascinare dentro le mie vignette la gente comune.” Disegnando dal punto di vista delle persone ordinarie, Zunar desidera far capire che chi paga il prezzo più alto per la corruzione del governo sono proprio loro.

A luglio 2015 il primo ministro Razak è stato al centro di uno scandalo di corruzione multimilionario. Secondo le accuse, Razak avrebbe ricevuto in un suo conto bancario 700 milioni di dollari provenienti da un fondo di investimento statale chiamato 1MDB. La satira di Zunar, e in particolar modo il suo ultimo libro, “Sapuman – Man of Steal”, è diretta verso la tirannia e la corruzione del governo.

La moglie di Razak, Rosmah Mansor, è uno dei bersagli preferiti delle vignette di Zunar: “dovrei davvero ringraziarla. Mi rende il compito facile: è così semplice fare la sua caricatura e metterla in ridicolo!” Disegnandola in posizione sovrastante rispetto al marito e con un diamante esageratamente grande al dito, Zunar denuncia così la sua passione per il lusso e la sua influenza sulle decisioni del governo.

Secondo Zunar, in molti paesi europei, il ruolo della satira è quello di criticare il governo. Ma non nel suo paese. “In Malesia devi combattere. Le vignette non possono essere leggere. Se vuoi colpire, devi dare pugni, non pizzicare”, dice ripetendo il suo motto.

I media mainstream, controllati dal governo, non pubblicano le sue vignette. In compenso, lo criticano duramente. Per raggiungere il suo pubblico, Zunar posta sul giornale online Malaysiakini, sui social network e sul suo sito internet: “Il copyright non mi interessa. Tutti possono, anzi, devono, scaricare e condividere le mie vignette. Voglio che la gente sia al corrente della corruzione di questo governo.”

Nel 2008, racconta Zunar, la polizia si presentò nel suo studio e confiscò i suoi libri, al tempo ancora legali. “Mi dissero che era per un’indagine, come se davvero servissero decine di copie dello stesso libro, e non una, per svolgere un’indagine!” Quell’irruzione fu seguita da un’altra, in un negozio che vendeva i suoi libri e un’altra ancora, nella stamperia, per sequestrare le stampanti. Cinque dei suoi libri (sette, fino a novembre) sono banditi, con pene severe per chi li stampa, li pubblica e li vende. Il modo per superare queste limitazioni è oscurare, in ogni volume, il nome della stamperia e vendere online. Eppure, anche queste opzioni non sono sicure. Recentemente la polizia ha richiesto, alla compagnia che gestisce i pagamenti, i dettagli di tutte le transazioni, compresi i nomi delle persone che hanno acquistato i libri online, ma Zunar ha denunciato la polizia per violazione della privacy.

Quando decise di diventare un vignettista politico, Zunar sapeva bene che si sarebbe messo contro un governo oppressivo. “Ma il talento non è un dono. È una responsabilità. E la mia responsabilità è più grande della paura”, spiega Zunar, aggiungendo che molte persone in Malesia, pur detestando il governo, non sono coraggiose abbastanza per scendere in piazza.

Il supporto non gli manca. Dopo l’arresto di febbraio, Zunar è stato rilasciato pagando una cauzione di 45mila ringgit malesi (equivalenti a 9500 euro) grazie ai fondi raccolti dai suoi sostenitori con un’iniziativa di crowdfunding. In seguito, Zunar ha ritratto se stesso in una vignetta diventata iconica. Ammanettato fino al collo, è raffigurato mentre dipinge con la bocca la moglie del primo ministro. “Disegnerò fino all’ultima goccia di inchiostro”, recita la scritta.

Eppure, gli viene chiesto spesso, perché non sfruttare uno dei suoi soggiorni all’estero per chiedere asilo politico? “Se scappassi [chiedendo asilo] di sicuro ne trarrei vantaggio io, ma non la Malesia.” Per Zunar, questo processo è infatti l’opportunità per puntare i riflettori contro le limitazioni alla libertà di espressione del suo paese.

“Se non mi presentassi al processo, il governo ne sarebbe ben felice, ma io non voglio fare felice questo governo,” dice Zunar sorridendo. “In questo modo devono giustificare le loro azioni sul piano legale.”

A novembre, con una svolta inaspettata, gli avvocati di Zunar hanno presentato un’istanza alla corte suprema chiedendo l’accertamento della costituzionalità del Sedition Act. Solo dopo che la corte si sarà pronunciata, si saprà quando avrà inizio il processo. Il rischio di essere sconfitto e di uscire di prigione a 96 anni non è remoto, ma Zunar confessa di non pensarci. “Se non restassi positivo, inizierei ad autocensurarmi. In fondo, è vero che ci sono in gioco molti anni in carcere, ma magari sarà il primo ministro, e non io, ad andarci.”