La casbah di Mazara del Vallo

Viaggio dentro il centro storico della cittadina siciliana, alla scoperta della folta comunità tunisina che lì vi risiede

di Tano Siracusa

Mazara del Vallo è stata la prima città siciliana conquistata dagli arabi e dai berberi provenienti dalla costa tunisina nel 827. Oggi è la città italiana con la maggiore percentuale di tunisini residenti, più di tremila, ottocento dei quali vivono in centro storico, nella casbah.

La città, già insediamento fenicio, fiorente emporio greco-selinuntino e romano, dopo il declino attraversato durante le invasioni dei Goti e dei Vandali e il lungo dominio bizantino, ha conosciuto proprio con la successiva dominazione dei berberi musulmani una grande rinascita economica e culturale.

Risale a quel periodo l’impronta viaria di una parte del suo centro storico, tipico delle medine, intricato, labirintico, lungo il quale sono incastonate molte chiese per lo più seicentesche affacciate su piccoli slarghi, a volte delle vere piazze, alcune disgraziatamente adibite a parcheggio. La successiva conquista normanna e cristiana della città, a Mazara come nel resto della Sicilia, avrebbe infatti avviato una fase di accumuli architettonici di pregio durata settecento anni.

Nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni del boom, il centro storico è stato progressivamente abbandonato proprio mentre cominciavano ad arrivare i primi gruppi di tunisini che andavano ad abitarlo (che tornavano dopo mille anni ad abitarlo).

Gli ultimi decenni sono stati di abbandono, disuso, degrado. Fino a cinque anni fa le strade la sera erano poco illuminate e il centro storico veniva percepito come luogo periferico, di traffici loschi, pericoloso.

Dal 2011 è in atto un ambizioso tentativo di recupero, molto discusso e anche criticato, che ha comunque riaperto il centro storico alla città e ai turisti.

Si inaugurano locali, si acquistano case abbandonate e a rischio di crollo, si torna ad investire. C’è chi denuncia progetti speculativi, chi fa notare come il sindaco Nicola Cristaldi, ideatore e promotore del tentativo di recupero della casbah sia anche l’autore della maggior parte delle ceramiche d’arte che ne adornano le vie e i cortili. Chi parla di semplice maquillage in centro storico.

Di sicuro l’intera operazione accende i riflettori sugli ottocento tunisini che vi abitano. Si vedono scivolare da soli o a piccoli gruppi lungo le vie della medina, per lo più giovani che non entrano nei locali frequentati dai loro coetanei mazaresi.

Qui, si sente dire, la preghiera del muezzin si alza verso il cielo assieme allo scampanare delle chiese. È vero; ma se i suoni e le parole delle due fedi religiose di mescolano nel cielo di Mazara, non altrettanto sembra avvenire fra tunisini e mazaresi sulle strade e le tante piazze della città. O nei caffè. L’unico frequentato promiscuamente è il Bar del molo, dove però i mazaresi siedono e parlano fra loro in dialetto e i tunisini fanno altrettanto in arabo.

Di fronte al bar il mercato del pesce: e qui l’incontro, lo scambio c’è, come avviene dagli anni ’70 sui pescherecci, dove i tunisini hanno sempre svolto le attività meno qualificate.

Adesso il settore è in crisi. All’aumento del carburante si accompagnano le politiche che premiano i colossi internazionali della pesca. Molti proprietari di pescherecci vengono incoraggiati alla loro demolizione proprio mentre la crisi economica spinge di nuovo i mazaresi a cercarvi lavoro. A bordo diminuisce perciò la percentuale di tunisini: quelli che da molti sono stati considerati degli “utili intrusi”, manodopera che trovava lavoro anche nell’agricoltura e nell’edilizia, disposta a lavori e paghe che i giovani mazaresi tendevano a rifiutare, oggi appaiono meno utili.

Dice Angelo, che gestisce il suo B&B nella casbah di Mazara: «Integrazione? A me non sembra. Alle scuole elementari si, i figli di terza generazione dei tunisini frequentano i bambini dei mazaresi. Poi, appena cominciano a crescere, già durante l’adolescenza, si separano. Hanno i loro negozi, la loro macelleria, il loro luogo di preghiera, i loro circoli. Ognuno si fa i fatti suoi. Loro non si sforzano di integrarsi, noi non ci sforziamo ad aiutarli a integrarsi. I pochi matrimoni misti che ci sono stati non hanno funzionato».

Secondo Francesca Rizzo, giovane antropologa che si è laureata con una ricerca sulla casbah di Mazara durata un anno, i ragazzi tunisini crescendo rinunciano a seguire i coetanei mazaresi nei loro standard consumistici innanzitutto per ragioni economiche. Provengono da famiglie che appartenevano in Tunisia a fasce sociali medio-basse e che a Mazara non hanno effettuato alcuna scalata sociale.

E poi c’è il forte richiamo della famiglia ai valori e ai modelli culturali della tradizione. Un richiamo dove la mediazione religiosa islamica non sembra molto rilevante. Non c’è una moschea a Mazara, c’è solo un luogo di preghiera precluso alle donne, mentre il ruolo dell’imam non sembra rilevante. Non è stato facile per Francesca Rizzo condurre la sua ricerca,soprattutto non è stato facile entrare nelle loro abitazioni e parlare con le donne, mai senza la presenza di un uomo.

Le donne tunisine vivono pressoché esclusivamente nello spazio domestico, difficilmente si incontrano per strada. Le ragazze mai da sole, sempre accompagnate da un parente.

La segregazione domestica delle donne, molte delle quali non parlano italiano e non sono mai uscite dalla casbah, si spiega secondo Francesca Rizzo anche con l’attività lavorativa dei loro uomini. La prolungata permanenza sui pescherecci, a volte anche di due mesi, ha accentuato l’isolamento delle loro donne, la loro reclusione ma anche la loro centralità nello spazio familiare, nell’educazione dei figli, nella trasmissione di una “tradizione” che nelle loro città di provenienza spesso si è andata perdendo o viene comunque affiancata da stili di vita, anche femminili, di tipo occidentale.

I giovani di terza generazione, quelli scolarizzati, quelli che non entrano nei locali, crescono in un contesto culturale scisso, in un difficile equilibrio fra modernità e tradizione, che rimane largamente non conosciuto dai mazaresi.

La casbah di Mazara non è una periferia di Parigi, Marsiglia o Bruxelles, ma appare evidente che anche a Mazara il difetto di comunicazione sociale, di scambio culturale, separa e isola un soggetto sociale fragile e inquieto. Ne è convinto Gianni Di Matteo, architetto mazarese, docente presso l’Accademia Abadir, attento conoscitore delle nuove dinamiche culturali e artistiche del paese maghrebino.

Nell’attuale scenario lo scambio culturale, la reciproca conoscenza, non costituiscono a suo parere un’opzione fra le altre, ma una scelta imposta dai tempi. Non possiamo, insomma, permetterci il lusso, ormai rischioso, di non conoscerci.

Se ne discute nel magnifico teatro Garibaldi, in occasione della presentazione al pubblico della ricerca di Francesca Rizzo. Non c’è integrazione se non c’è interazione, ammonisce e sintetizza il prof. Antonino Cusumano dell’Istituto Euroarabo che ha organizzato la serata. Accanto a lui, la giovane studiosa, l’assessore Vito Ballatore, l’architetto Di Matteo. Pubblico numeroso e attento. Nessun rappresentante della comunità tunisina sul palco, forse qualcuno fra il pubblico.