La famiglia di Zijo

Il massacro della famiglia Ribić durante la guerra in Bosnia Ezregovina è il simbolo dei molti crimini senza nome compiuti ai danni della comunità rom

di Francesca Rolandi

Identificare i corpi delle quattro sorelle, ritrovati in una fossa comune ad oltre vent’anni dalla morte.
Lo ha fatto di recente Zijo Ribić, unico sopravvissuto del massacro compiuto sulla sua famiglia durante la guerra in Bosnia Erzegovina.

Mentre i corpi dei genitori furono riesumati tempo addietro, mancano ancora all’appello i resti di alcuni familiari, tra cui quelli del fratello più piccolo di appena 2 anni.

Zijo, quella notte del 12 luglio 1992, aveva 8 anni – era nato nel 1984, l’anno delle Olimpiadi a Sarajevo – e si trovava a casa con la sua famiglia nel villaggio di Skokić, situato nella municipalità di Zvornik, quando vi fece irruzione un gruppo paramilitare, la cosidetta banda dei cetnici di Sime Bogdanović.

Dopo aver minato la moschea del villaggio, i paramilitari scoprirono 35 persone di nazionalità rom e, dopo torture e stupri, li caricarono su un camion per portarli in un luogo dove finirli.

Fu allora che Zijo, ferito alla gola da un coltello, perse conoscenza e si risvegliò sotto i cadaveri.

Scappato sanguinante fu salvato da due soldati serbi, che lo portarono in ospedale, opponendosi alla volontà dei paramilitari di trattenere l’unico testimone scomodo.

Il bambino, che passò il resto della sua infanzia tra reparti di psichiatrici e orfanotrofi, ha oggi 31 anni e lavora come cuoco in un albergo di Tuzla. Si è specializzato in Italia grazie all’impegno di alcune associazioni ma lotta con i problemi economici e vive in una stanza dell’albergo.

Zijo non si presenta come rom e non vorrebbe finire in un ghetto rom e alla fine non ha mai ricevuto aiuti né dalle autorità bosniache né dalla comunità rom. La sua drammatica storia è stata raccontata dal documentario “Zijo’s Journey” del regista Michael Jović.

Zijo iniziato a ricercare la verità dal 2006, quando Nataša Kandić pubblicò il famoso video che rappresentava i paramilitari degli Scorpioni torturare e uccidere civili inermi in fuga da Srebrenica. Nel 2010 a Belgrado testimoniò nel processo contro l’unità paramilitare responsabile dell’eccidio della sua famiglia.

I membri del commando furono condannati in primo grado a 73 anni ma assolti in secondo grado perché secondo la giudice l’età del bambino all’epoca dei fatti toglieva attendibilità alla testimonianza. E nonostante la presenza di tre testimoni protette che dopo il massacro furono tenute prigioniere del gruppo e trasformate in schiave sessuali.

L’infelice vicenda giudiziaria della famiglia Ribić non è solo una ennesima testimonianza della brutalità di quella guerra, ma rappresenta anche il simbolo dell’insuccesso dell’unico tentativo di emettere condanne per i crimini commessi contro vittime di nazionalità rom durante la guerra in Bosnia Erzegovina.

Come messo in luce da un progetto dell’associazione “Budi moj prijatelj”, curato dal ricercatore Boris Pupić, sulla questione a prevalere è ancora il buio.

Non si sa neppure quanti fossero i rom allo scoppio della guerra, 8.864 secondo il censimento del 1991, un numero sicuramente enormemente sotto stimato perché sfuggivano ai dati ufficiali o si dichiaravano come appartenenti ad altre nazioni.

Altrettanto oscura è la sorte dei rom durante la guerra in Kosovo che fece aumentare in modo esponenziale la diaspora. Come emerso dal progetto, le associazioni che rappresentano la galassia rom non si sono mai confrontate con la questione, e sono molto lontane dai meccanismi della giustizia transizionale.

A rendere difficile fare i conti con il passato nella comunità rom sarebbe anche l’atmosfera di paura che circonda la memoria dei crimini subiti duranti le ultime guerre.

Inoltre, la differenza di esperienze vissute durante la guerra – la popolazione rom, oltre a dare un grande numero di vittime civili, fu l’unico gruppo nazionale a trovarsi a combattere, a seconda del luogo dove la guerra li sorprendeva, con tutte le parti belligeranti – rende più difficile la costruzione di una memoria capace di fare da collante.

Mentre la verità continua ad affiorare dalla terra attraverso i resti delle vittime, ancora manca, nel caso della famiglia Ribić come in altri, una condanna in via giudiziaria dei responsabili di crimini efferati che vedono come vittime le categorie più marginali della società.