#JeSuis. #JeNeSuisPas.

Il 7 gennaio di un anno fa era la macelleria a Parigi, in una redazione di un giornale satirico e fuori, con un attacco che sembrava poter rappresentare una soglia mai toccata a Parigi, Europa, nelle azioni del terrorismo fondamentalista islamista.

di Angelo Miotto

Purtroppo quella sensazione oggi è smentita da altri fatti accaduti nei mesi a seguire, uno degli ultimi in chisuura d’anno proprio a Parigi con numeri e dinamiche ancora più orribili, se fosse possibile stilare una classica dell’orrore.

Il nostro Dossier #CharlieHebdo

L’hastag #JesuisCharlie divenne una bandiera. Una bandiera spontanea, come la pace-Eiffel di Jullien per il 13 novembre. Le biro alzate, i cartelli, la reazione social, ma anche di massa e per le strade non solo della capitale francese, la solidarietà e il cordoglio. E certamente le polemiche, come potrete vedere dai pezzi che vi riproponiamo dall’archivio di Q Code.

I capi di stato nei loro cappotti blu a farsi una foto isolata, chi muove le leve della politica e del sistema finanziario e diplomatico internazionale nei panni di chi quel gioco non conosce, in una farsa del teatrino di chi rappresenta le istituzioni e le costituzioni, mentre obbedisce, senza generalizzare ma è piuttosto globale il fatto, a quelli che sono i diktat del fu capitalismo oggi neo liberismo selvaggio, o di potentati di turno, o ancora di equilibri che vivono di accordi, armi, energia, aree di influenza che poi raccontiamo nei loro effetti sui giornali, o perlomeno su questo giornale.

AUSTRALIA, Sydney: Demonstrators hold up 'Ju suis Charlie' placards at Sydney's Martin Place on January 8, 2015, during a vigil held to show support for the victims of the attack on the office of satirical magazine Charlie Hebdo in Paris. Many of the demonstrators wore white to pay their respects to the twelve people who died when armed gunmen stormed the magazine's headquarters on January 7. The vigil in Martin Place and a similar event in Melbourne's Federation Square are part of a global outpouring of grief in response to the shooting.  (AAP Image/NEWZULU/PETER BOYLE). NO ARCHIVING, CROWD SOURCED CONTENT, EDITORIAL USE ONLY

AUSTRALIA, Sydney: Demonstrators hold up ‘Ju suis Charlie’ placards at Sydney’s Martin Place on January 8, 2015, during a vigil held to show support for the victims of the attack on the office of satirical magazine Charlie Hebdo in Paris. Many of the demonstrators wore white to pay their respects to the twelve people who died when armed gunmen stormed the magazine’s headquarters on January 7. The vigil in Martin Place and a similar event in Melbourne’s Federation Square are part of a global outpouring of grief in response to the shooting. (AAP Image/NEWZULU/PETER BOYLE). NO ARCHIVING, CROWD SOURCED CONTENT, EDITORIAL USE ONLY

Oggi, un anno dopo, vale la pena chiedersi se riscriveremmo, i molti che lo han fatto, quell’hastag sulle nostre bacheche, nel nostro professare uno sdegno e una volontà di opposizione all’orrore che sentimmo allora. Cosa è successo nel frattempo? Che si è diffusa, a volte anche con connotazioni di una tendenza pop, la consapevolezza che se ci indigniamo per Parigi, ci si deve indignare anche per il Kenya o per la Siria, o per… È che, sinceramente, i casi per la nostra rabbia e indignazione, o più una o l’altra, sono dentro un moltiplicatore macabro.

A cosa serve allora l’indignazione. Serve, ovviamente. Perché ci ricorda di fermarci, pensare, informarci, prendere posizione non solo perché appartenenti al genere umano che riesce ancora a esprimere empatia per un suo simile, se pur dissimile per paese o censo o situazione o per altri mille motivi che ci fanno comunque essere distanti. E serve se, se, ci porta verso una consapevolezza del fare, oltre che del dire.

Io sono Charlie, anche se Charlie Hebdo non mi piace come satira e anzi anche se la critico come satira, perché voglio che esista il diritto di pubblicare e di criticare. E lo sono per schierarmi. Ma non lo sono e mi schiero lo stesso. Poi sono Paris, sono Grecia e sono Kenya e sono, a volte stufo, come molti siamo arrivati a una certa saturazione di quel Je suis. Che non è rifiuto dell’indignarsi, o del fatto che solo noi ci indigniamo (in molte conversazioni social c’è anche quello, sicuramente). Ma in molti la saturazione riguarda l’opinione tout court, senza che poi seguano gesti e fatti concreti. Cioè quelli che non stanno nelle penne social, proprio no.

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Oggi, un anno dopo dire, o ricordare JeSuisCharlie non ci porti alla polemica sull’oblio di tutte le altre meritevoli situazioni di attenzione internazionale, che spesso non hanno o non avranno mai. C’è anche un tempo per non opinare, per non dare giudizi e per semplicemente fare memoria, come ognuno crede, hastag sì o no non è quello il problema.

Ogni orrore è a sé, ogni reazione sociale sulla prossimità della barbarie non esclude forzosamente un’altra che sta più lontana, anche se vicina nelle possibilità di studio.

Oggi, 7 gennaio 2016, è un anno dall’attentato a un giornale, alla libertà, è il ricordo di vite estirpate e anche di una reazione spontanea che purtroppo sta maturando seguendo lo svolgersi di difficili prove che non sono probabilmente finite.

Le foto della manifestazione a Milano, nei giorni seguenti a Parigi quando molte capitali e grandi città manifestarono la propria solidarietà, sono di Corrado Di Mauro, grazie.