Andare, camminare, lavorare

L’Italia raccontata dai portalettere, il viaggio di Angelo Ferracuti

di Christian Elia

Sei mesi in giro per l’Italia, dalla Valle d’Aosta alla Puglia, isole comprese. Angelo Ferracuti, privilegiando il treno, si è voluto confrontare con un Paese che sembra essersi fermato, da tanti punti di vista, ma che è ancora pieno di storie da raccontare.

Magari con la cifra stilistica della nostalgia, sempre con la curiosità, comunque con rigore. Perché il giornalismo narrativo è un affare dannatamente serio. E basta leggere, oltre tutto il resto, l’epigolo di Andare, camminare, lavorare, edito da Feltrinelli, per capire con che spirito si affronta il viaggio, l’incontro, il racconto.

Quasi scusandosi con le storie che non sono finite nel libro, Angelo Ferracuti ne commenta l’esclusione motivandola con una sorta di promemoria per tutti coloro che vogliano provare ad approcciare quella tecnica di reportage chiamata giornalismo narrativo, perché sceglie di “non mettere in moto tutta una serie di aggiramenti narrativi, tradendo la neutralità del reportage che cresce direttamente sul campo come un evento del tutto spontaneo, seppur meditato”.

L’onestà intellettuale del racconto, che non deve mai aver bisogno di impalcature e restauri. La storia si racconta, a chi la raccoglie il compito di coglierne il respiro universale, non quello di inventare nulla. E farsi messaggeri, come un postino appunto. Proprio questo antico mestiere, malinconicamente coabitato dall’epoca delle e-mail e della comunicazione permanente, è il punto di vista che Ferracuti – postino a sua volta – sceglie per questo viaggio in Italia.

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Che a tratti ricorda proprio il senso narrativo di Viaggio in Italia, capolavoro di Guido Piovene, degli anni Cinquanta. Un paese che si srotola sotto i passi di uomini e donne, che muta lo scenario e la lingua, che si innerva di contrade desolate e quartieri popolari delle grandi città.

Ferracuti, che già con Le risorse umane e Il costo della vita aveva saputo raccontare il mondo del lavoro da un punto di vista umano, raccoglie pezzi di un Paese in crisi di futuro, ma con un passato scolpito nelle sue strade. Spesso segnate da grandi scrittori.

Così la Vigevano di Mastronardi incontra la Milano di Bianciardi e la Ventimiglia di Biamonti incontra la Belluno di Dino Buzzati. Autori che prima degli altri avevano visto le fragilità e le contraddizioni di un Paese che ambiva a sentirsi grande e ricco, cancellando la memoria della fame, rimuovendo i suoi nodi da risolvere.

Che, però, l’Italia del 2015 mostra ormai con durezza. Ed ecco che il postino è uno specchio dei cittadini che ogni giorno incontra e osserva, vedendoli cambiare nell’aspetto, nei sogni, nelle speranze, nel colore. In un piccolo grande mondo, che ha le sue connessioni tra la Ventotene dei confinati e la Bari Vecchia della gentrification, passando per Lampedusa e i migranti.

“Se un occhio potesse osservarli tutti adesso, in questo stesso istante, li vedrebbe contemporaneamente i tanti portalettere italiani, con passi differenti, e diverse espressioni, altezza, colore dei capelli, occhiali da sole o da vista, passi diversi, tutti in movimento, frenetici”. Questo ha provato a fare Ferracuti, riusciendoci benissimo.

E chiedendosi come potrebbe essere la figura del portalettere tra cento anni, finendo in realtà per chiedersi come sarà l’Italia, che si è fermata, a metà tra passato e futuro incerto. Come un postino che, con la corrispondenza in mano da consegnare, fatica a trovare un indirizzo.