Se la ricerca non è un lavoro

Il 15 dicembre 2015 la Commissione Bilancio ha bocciato
la possibilità di estendere l’indennità di disoccupazione
a dottorandi, assegnisti e borsisti. È un’anomalia tutta italiana, ma per il Ministro Poletti la ricerca non è un lavoro

di Lorenzo Fava

Con l’approvazione in via definitiva della Legge di Stabilità per il 2016 si è conclusa, in malo modo, anche la vicenda dell’estensione a dottorandi, assegnisti e borsisti di ricerca della DIS-COLL, l’indennità di disoccupazione introdotta in via sperimentale per il 2015 con il D.lgs 22/15.

L’introduzione di tale strumento nell’ordinamento italiano rappresenta senz’altro una novità positiva, perché affronta, tentando finalmente di mettere in piedi una risposta normativa, i cambiamenti straordinari che il mondo del lavoro ha conosciuto in questi anni. Cambiamenti a cui quasi per nulla è seguito fino ad ora un adeguamento del welfare italiano, pensato, costruito e realizzato per un mondo che è andato drammaticamente in pezzi.

Di cosa si tratta? Si tratta, come ricordato, di un’indennità di disoccupazione «riconosciuta ai collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto […] iscritti in via esclusiva alla Gestione Separata, non pensionati e privi di partita IVA, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione (…)», come recita la circolare INPS che ha fornito istruzioni operative dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo.

Il punto che però la circolare non ha chiarito, nonostante le richieste pressanti giunte in tal senso sin dalla scorsa primavera, è se la DIS-COLL potesse applicarsi anche a dottorandi, assegnisti e borsisti di ricerca.

Stiamo parlando di quelle figure di precari della ricerca universitaria i cui contratti possono senza dubbio essere assimilati a quelli di collaboratori coordinati e continuativi o a progetto per cui l’indennità è prevista e che, proprio come espressamente richiesto anche dalla circolare INPS, versano i loro contributi previdenziali alla Gestione Separata dell’INPS. Nel linguaggio dei giuristi, la situazione si riassumerebbe con una formula tradizionale: «la richiesta di estensione è, senz’altro, giuridicamente fondata».

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Non bastasse, è la Carta europea dei ricercatori (nella sua più recente formulazione, approvata lo scorso marzo dalla Commissione Europea) ad intervenire a riguardo, affermando che «i datori di lavoro e/o i finanziatori dovrebbero assicurare ai ricercatori condizioni giuste e attrattive in termini di finanziamento e/o salario, comprese misure di previdenza sociale adeguate e giuste (ivi compresi le indennità di malattia e maternità, i diritti pensionistici e i sussidi di disoccupazione) conformemente alla legislazione nazionale vigente e agli accordi collettivi nazionali o settoriali. Ciò vale per i ricercatori in tutte le fasi della loro carriera, ivi compresi i ricercatori nella fase iniziale di carriera, conformemente al loro status giuridico, alla loro prestazione e al livello di qualifiche e/o responsabilità».

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Si sa che a volte le dichiarazioni che affermano principi generali, gli statuti, addirittura le Costituzioni (o almeno alcune loro parti) rimangono, purtroppo, lettera morta.

Attraverso una breve ricognizione condotta attraverso i tantissimi ricercatori italiani all’estero affiliati ad AiRi – l’associazione che li rappresenta (sempre di più e sempre meglio) -, abbiamo tuttavia constatato che diversi Paesi europei prevedono forme di sostegno al reddito per i ricercatori non strutturati in Università che si trovino disoccupati al termine del contratto: la Francia, la Germania e il Regno Unito, tra i principali; e poi il Belgio, la Svizzera e la Finlandia, tra gli altri.

Infine, in Spagna il più comune rapporto di lavoro durante il dottorato prevede i primi 2 anni di borsa di studio e i secondi 2 di contratto di lavoro, al termine dei quali il dottore di ricerca che sia, non per sua colpa, senza lavoro riceve un’indennità di disoccupazione che scala coi mesi fino al 50 per cento dello stipendio che percepiva.

Per questo, anche alla luce di questi dati, appaiono del tutto sconcertanti le dichiarazioni del Ministro del Lavoro Poletti, che ha giustificato a più riprese il diniego del Governo ad estendere la DIS-COLL anche al mondo della ricerca precaria, affermando che quelli di dottorandi, assegnisti, borsisti non sono contratti di lavoro bensì di formazione, dimostrando così di ignorare che in diversi Paesi europei gli young researcher hanno contratti di lavoro veri e propri (e dunque anche l’indennità di disoccupazione) perché l’attività che svolgono viene appunto considerata come un lavoro.

E non si capisce perché, invece, in Italia (che fino a prova contraria fa parte dell’Unione Europea) lo stesso young researcher dovrebbe essere considerato un soggetto in formazione. Ma, ancor più grave, il Ministro ha dimostrato con le sue affermazioni di non avere la più pallida idea, né di essersi preso la cura di informarsi a riguardo, di che cosa facciano gli young researcher nelle università italiane.

Se lo sapesse (o se si fosse informato) non avrebbe mai potuto sostenere che i giovani ricercatori italiani sono solo soggetti in formazione, visto che, nella realtà, mentre faticano per formarsi, conducono attività di ricerca, seguono studenti nel lavoro di tesi, partecipano alle sessioni d’esame, coadiuvano l’attività didattica; insomma: sono parte imprescindibile della vita delle università italiane e rappresentano, all’incirca, la metà (quella negletta) della forza lavoro universitaria.

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La richiesta di estensione della DIS-COLL è arrivata con forza, come ricordato, da molti giovani ricercatori, coordinati dall’ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani), col supporto della FLC-CGIL, attraverso interrogazioni parlamentari, raccolte firme, iniziative di pressione sul Parlamento, manifestazioni, già dalla scorsa primavera.

Purtroppo non è bastato: al redde rationem della Legge di Stabilità, l’unico momento in cui i promotori dell’iniziativa e i giovani ricercatori hanno potuto sperare è stato all’atto di approvazione in Commissione Lavoro della Camera di un emendamento a prima firma Gribaudo (PD), che chiedeva il rinnovo della DIS-COLL per il 2016 e ne sanciva l’estensione almeno agli assegnisti di ricerca.

Pochi giorni dopo, mentre la DIS-COLL veniva riconfermata per le categorie che già ne beneficiavano, la richiesta di estensione anche agli assegnisti è caduta sotto la scure della Commissione Bilancio.

Al momento resta solo una debole speranza: quella legata all’approvazione dell’Ordine del Giorno A/529 – a firma, ancora una volta, dell’on. Gribaudo, con l’aggiunta di Ghizzoni (PD) –, con il quale il Parlamento impegna il Governo a «valutare un’estensione della platea dei beneficiari dell’indennità e di prevedere, in particolare, che eventuali somme non utilizzate nell’anno 2016 siano destinate all’estensione dell’indennità ai titolari di assegni di ricerca, nonché di verificare l’opportunità di introdurre stabilmente forme di tutela dei collaboratori in caso di disoccupazione involontaria».

Ma un OdG parlamentare, si sa, rappresenta un appiglio molto debole, in quanto generica dichiarazione d’intenti che molto spesso rischia di tramutarsi in lettera morta; oppure di essere uccisa – visto l’attuale assetto dei rapporti di forza tra Parlamento e Governo – dalle bizzarre convinzioni del Ministro Poletti, ribadite una volta di più appena prima di Natale, come ulteriore regalo ai giovani ricercatori italiani, dopo quelli che ogni anno riserva loro abbondanti l’Università in cui, con fatica, tenacia e passione, provano a rimanere e lavorare. Nonostante tutto.

 

L’immagine in apertura è una fotografia di Pietromassimo Pasqui tratta da Flickr in CC.

Le immagini all’interno dell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook di ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani.