Gaza e l’industria israeliana della violenza

L’occupazione come strumento del processo industriale e finanziario del settore bellico

di Christian Elia

Un saggio a tre voci, pubblicato da Derive/Approdi, ci obbliga a valutare un punto di vista differente su quello che ancora in molti si ostinano a chiamare conflitto israelo – palestinese, ribaltando così il dato di realtà, cioè un’occupazione che dura impunemente dal 1967.

Alfredo Tradati, socio fondatore e coordinatore di International Solidarity Movement-Italia, Diana Carminati, docente presso l’Università di Torino e Enrico Bartolomei, laureato in relazioni internazionali con una tesi sui profughi palestinesi, che è uno dei curatori di Pianificare l’oppressione. Le complicità dell’accademia israeliana, sono gli autori di Gaza e l’industria israeliana della violenza.

“La Striscia di Gaza, da quasi un secolo, è un luogo di sofferenza e di resistenza. Non è l’unico in questo mondo sconvolto da conflitti, ma costituisce il paradigma di riferimento dell’industria della violenza contemporanea”. Ed è così.

Al netto di una serie di documenti e di un ottimo lavoro di ricerca, sostenuto da una bibliografia molto interessante, resta in particolare molto interessante l’aspetto del legame mortale – per i palestinesi – tra decisori politici, vertici militari e aziende belliche in Israele.

Spesso i profili personali finiscono per unire tutti e tre gli aspetti. Ecco che, dal ritiro del 2005, sembra sempre di più che Gaza sia una sorta di poligono di tiro dove, in media ogni due anni, sperimentare nuovi sistemi d’arma. Che poi, certificati come ‘testati in battaglia’, diventano una miniera d’oro per le esportazioni israeliane.

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Non sono solo le armi, però, a guadagnarsi l’ambito titolo di ‘veterani’. Perché le stesse tecniche di sorveglianza di massa, di repressione e controllo, di infiltrazione, di monitoraggio della vita quotidiana, dello spostamento di popolazioni, dell’annichilimento di ogni forma di auto organizzazione dal basso, formano un pacchetto di ‘competenze’ che è molto ambito all’estero, grazie al mercato delle consulenze.

Non è immaginabile che l’occupazione israeliana esista perché finalizzata all’aspetto commerciale della stessa, perché Israele occupa la Palestina dal 1967 per motivi molto più pragmatici, quali il controllo delle risorse idriche, delle terre, delle vite dei palestinesi. Però è oggettivo che, nei decenni, crescendo l’impunità (per Israele) e diminuendo (per Israele) il rischio di una soluzione equa , l’occupazione è diventata anche altro. E’ un paradigma, è un modello.

Nel saggio viene fatto un riferimento al panottico teorizzato da Jeremy Bentham alla fine del ‘700, il carcere perfetto. Quello nel quale al carceriere non è preclusa l’osservazione di nessun istante di vita del carcerato. Ecco, oggi Gaza è questo. Ogni punizione collettiva, ogni demolizione di casa, ogni esproprio legato al percorso del muro, è un passo avanti sul percorso del controllo di una massa inerme di quasi due milioni di persone.

I continui legami tra l’industria (economica, politica, militare) della violenza israeliana e le istituzioni di mezzo mondo sono un campanello d’allarme che deve suonare anche per tutti coloro che ritengono il dramma dei civili di Gaza come un problema lontano. E che magari si sono fatti convincere, giorno dopo giorno, strage dopo strage, che quelle vite non possano essere anche le nostre.