IL FIGLIO DI SAUL, di Lazlo Nemes, con Geza Rohing, Levente Molnar, Urs Rechn, Todd Charmont. Gran Premio della Giuria a Cannes 2015, vincitore del Golden Globe per il miglior film e candidato all’Oscar nella stessa categoria. Nelle sale dal 21 gennaio. Quando la Giuria di Cannes, nel maggio scorso, ha premiato quest’opera prima di un giovane regista ungherese, ha spiegato di non aver mai visto niente di simile sulla Shoah, nonostante la nutrita produzione sull’argomento, tra film e documentari. Niente di più vero. “Il figlio di Saul” è un autentico capolavoro, ma preparatevi a piombare in un ciclone dantesco per 107 minuti. Lazlo Nemes ci immerge infatti nel precipizio spaventoso di Auschwitz, nel 1944, quando gli alleati e i russi stavano per invadere la Germania e in quella fabbrica della morte ferreamente organizzata c’era molta fretta. Ma l’immane mole di lavoro era in mano, oltre alle SS, ai Sonderkommando, i gruppi di prigionieri ebrei che prima di essere uccisi venivano costretti a collaborare allo sterminio dei loro compagni di destino. Erano loro che spingevano la folla terrorizzata e nuda nelle camere a gas, promettendo che dopo la “doccia” avrebbero avuto una zuppa calda e lavoro, poi chiudevano le porte e, sordi alle grida, radunavano i vestiti, gli effetti personali, i preziosi, riprendevano i corpi dei morti, pulivano le camere a gas, trasportavano i cadaveri ai forni e si occupavano di far sparire le ceneri in un fiume. Sul petto ha la stella gialla, sulla schiena, una grande X rossa che indica il pericolo di fuga. Un giorno Saul trova un ragazzino che ancora respira nella camera a gas, il medico delle SS lo finisce subito, ma lui decide che vuole sottrarlo all’atroce routine del campo e dargli una sepoltura religiosa. Ai suoi compagni dice che era suo figlio e inizia così la sua corsa contro il tempo e contro tutti per sottrarre il corpo, tenerlo nascosto, seppellirlo avvolto in un lenzuolo bianco e trovare un rabbino disposto a recitare il kaddish, mentre intorno a lui sta scoppiando un evento storicamente accaduto: la rivolta del 7 ottobre 1944 di alcuni membri di un SonderKommando che uccisero 3 SS, fecero saltare un forno crematorio e dopo la rivolta tentarono la fuga, anche se inutilmente. Quello di Saul è quindi il coraggio di un padre che si oppone all’orrore concentrazionario, la sua storia il tentativo disperato di un piccolo, irriducibile Golia di ergersi contro l’immane Moloch della macchina nazista per creare un’eccezione: la religione ebraica, infatti, non permetterebbe neppure di cremare i morti. Il Figlio di Saul si ispira nella storia a una raccolta clandestina di racconti di sopravvissuti (“La voce dei sommersi”, in Italia pubblicato da Marsilio) ed è un film che ci afferra alla gola e alla coscienza dal primo momento all’ultimo, ma senza mai spettacolarizzare grazie alle precise scelte di regia di Nemes e alla magistrale recitazione del protagonista, Geza Rohring, un incredibile attore ungherese dalla storia cinematografica (orfano, è stato adottato da una famiglia polacca ebrea e attualmente è insegnante e poeta a Brooklyn). N.B. Il 25-26 e 27 gennaio, in coincidenza con la Giornata della Memoria, sarà proiettato nelle sale cinematografiche “The Eichmann show”, di Paul Andrew Williams, il film sulle storiche riprese televisive del processo di Eichmann a Gerusalemme, realizzate nel 1961 dal regista americano Leo Hurwitz e trasmesse allora in tutto in mondo (con Martin Freman e Antony Della Paglia). Chi scrive l’ha visto e ne consiglia la visione.
di Irene MerliBisognava duplicare, triplicare il lavoro per eliminare più “pezzi” possibile, come scriveva l’orrida burocrazia nazista, perché proprio allora ne arrivavano di continuo da altri campi, ghetti, città, campagne, e in particolare in quei mesi ad Auschwitz vennero deportati 440mila ebrei ungheresi.
Saul, ebreo ungherese, è uno di questi frenetici manovali della morte che stanno quasi sempre “sotto”, dove mancano luce, aria e qualsiasi brandello di umanità residua. Non parla quasi mai, ma non sta mai fermo, è sempre in affanno, spito di qui e di là insieme agli altri, incalzato dal ritmo infernale dei “lavori”, tra le urla e le bastonate delle SS, gli spari, i rumori degli autocarri e dei forni.
Sarà difficile dimenticarci di lui e del suo Saul: non siamo solo noi a dirlo. Il novantenne Claude Lanzhmann, autore nel 1985 dell’immane e tramortente documentario “Shoah”, lo ha lodato per il rispetto della verità e l’intensità che lo rende diverso da tutti i film fatti sull’Olocausto. Andate a vederlo e capirete, anzi sentirete, fino al midollo.