#7 – Di Luglio

di Juri Bomparola

Dopo quasi quindici anni di “onorata carriera”, incontro ancora persone che rimarcano la mia fortuna nell’aver tradotto in professione il mio amore per la musica.

Ci penso sempre un po’ prima di formulare una considerazione vera e propria riguardo a come la parola “fortuna” viene utilizzata in questo contesto.
Nel corso degli anni mi è capitato di spostare gradualmente il punto di vista e prendere una posizione più oggettiva, forse perché più ragionata.
I primi tempi nemmeno ci riflettevo sopra.
“Che fortuna che hai: fai per lavoro quello che ti appassiona!” mi sentivo dire.
“Certo, sono stato fortunato. Lavorare in miniera in effetti è un’altra cosa!” rispondevo quasi sempre, col sorriso sulle labbra.
Questa risposta era più o meno preconfezionata, la riservavo a chiunque mi facesse l’ovvia osservazione.
Era una sorta di slogan chiaro ed esaustivo, tanto piccolo da starmi in una tasca e sempre pronto all’uso.
Soprattutto era ciò che pensavo davvero.
Con il passare degli anni ho iniziato a sbirciare dietro le quinte di chi mi sbatteva in faccia questa mia fortuna. Un po’ per interesse sociologico, un po’ perché volevo riservare un premio al milionesimo artefice di quella considerazione.
Un orsetto di peluche non poteva bastare.

Un giorno mi trovai a chiacchierare con un amico davanti al bancone di un bar, bicchiere in mano e noccioline in bocca.
Prosecchino? Prosecchino.
Mentre ruminavamo stuzzichini e concetti più o meno leggeri su come sia sorprendente la vita, il mio amico (che d’ora in poi chiamerò Fortunato per convenzione e per amore del paradosso) diventò il milionesimo.
“Non ci vediamo da una vita, mi ricordo della tua passione per la musica. Eri sempre in giro con il basso a tracolla, e ora lo fai per lavoro! Che fortuna che hai…”.
Ho sorriso anche quella volta: Fortunato era pur sempre un amico.
Proprio in quanto amico mi sono sentito in dovere in quel momento di renderlo partecipe del mio pensiero.

Non avevo più molta voglia di accogliere la parola “fortuna” passivamente, facendomi trapassare da parte a parte da quella lama tanto inconsapevole quanto affilata.
Dentro la fortuna c’è nascosto un senso di colpa preteso da chi la attribuisce agli altri. La fortuna rinnega il merito perché presuppone che sia stato il caso ad aver agito per te.

Non si dovrebbe dare del fortunato al prossimo con tanta leggerezza.
Questa è stata l’illuminazione che mi ha colto in quel momento, a scapito di un povero Fortunato che di certo non si aspettava nulla di ciò che gli avrei detto.
A quel punto ho ordinato altri due prosecchini e gli ho chiesto quale professione svolgesse.
Lo sapevo già e lui ne era consapevole, ma rispose.
Era un avvocato come lo è tuttora.
Si è diplomato, ha frequentato la facoltà di giurisprudenza, si è laureato e dopo il praticantato, al terzo tentativo, ha passato l’esame di Stato.
Ha studiato con dedizione, si è impegnato, ha fatto piccoli e grandi sacrifici e ora è, finalmente, un avvocato.
Gli ho chiesto se gli piacesse la propria professione e mi ha risposto annuendo con il capo.
Diversi prosecchi dopo, passando per altre piccole puntualizzazioni, siamo giunti alla conclusione che entrambi siamo stati bravi, non fortunati.
Se lo è stato lui, perché dovrebbe valere diversamente per me o per tutti i miei colleghi?
D’altronde nemmeno studiare legge prima e fare l’avvocato poi è esattamente come lavorare in miniera.
E se avesse vissuto gli studi giuridici come supplizio, avrebbe sempre potuto studiare musica, storia o fare arti grafiche.
Fortunato l’ha capito e credo che non affibbierà più la buona sorte a destra e a manca.

L’occasione che capita una volta nella vita può essere fortuna, quella sì.
Però per prendere un treno in corsa devi saperci saltare sopra, altrimenti quello ti travolge.

Era una calda serata di luglio e i prosecchini non avevano certo aiutato ad abbassare la temperatura, ma avevano in qualche modo rinfrescato le idee di Fortunato e, soprattutto, le mie.
La fortuna riguarda ben altri aspetti della vita umana, non di sicuro ciò che costruisce una vita.
Quel poco che ho, in fondo me lo sono guadagnato.
Diversi anni più tardi i miei soci e io ci siamo guadagnati un tour su e giù per la Penisola Italica, durante l’estate più calda e torrida che io ricordi.

Era nuovamente luglio e i concerti contrassegnati sul calendario si susseguivano in un itinerario geograficamente impazzito.
Si passava da un giovedì in provincia di Cuneo al venerdì a Trieste, da un sabato nelle Marche alla domenica in Calabria.
Le ruote del nostro mezzo giravano senza sosta, mentre a turno si guidava e si dormiva stravaccati su quegli scomodi sedili.
Il caldo ammazzava anche i pensieri quando si usciva dall’oasi climatizzata del monovolume.
La peggiore delle situazioni per chi fa il nostro mestiere si verifica quando, dopo centinaia di chilometri percorsi in autostrada, ci si trova sul luogo del concerto e si scopre di non avere a disposizione nessun tipo di struttura di conforto.
Siamo il proletariato dello star-system, quindi rockstar con poche pretese.

Non desideriamo lussuose camere d’albergo richieste da Madonna, nemmeno gli sfarzosi camerini che Ozzy Osbourne era solito distruggere in combutta con i Mötley Crüe.
Un bagno: solitamente basta un bagno.

Bagno per musicisti

In quel luglio situazioni simili capitarono di frequente.
Quando si è sudati, stanchi e provati dal viaggio un lavandino e una candida tazza in ceramica sono il più dolce dei sollievi.

Di Luglio succede di essere accaldati e bagnati prima ancora di suonare.

Si sale sul palco e ci diamo dentro: come prima e più di prima, t’amerò.
Siamo spugne impazzite sul proscenio, impregnate del nostro sudore che cade a terra copioso. Non ci si risparmia mai.
Dopo due ore di intensa attività musicale e fisica si saluta il pubblico e si scende, felici ma distrutti fisicamente ed è il caso di dirlo, anche fisiologicamente.
Questa volta non c’è il camerino.
Un bagno! Il mio regno per un bagno!
Ogni singolo componente ha il proprio sogno strettamente pratico e urgente, e ognuno di questi desideri può essere realizzato attraverso l’utilizzo di una stanza da bagno.

Di Luglio un palco può anche sembrare una miniera.

Capita di pensarlo, solo per qualche secondo ma succede.
Facciamo il mestiere più bello del mondo, non ci lamentiamo!
Ci diamo conforto pronunciando queste veritiere parole.
“È vero, ma mi scappa lo stesso!” sentenzia qualcuno.
“Lavorare in miniera è ben altra cosa…” penso e sorrido.
Poi ripenso a Fortunato e alla nostra chiacchierata di qualche anno prima.
Nessuna buona sorte, tutto è meritato.
Sorrido e immagino mia madre che si avvicina e ci porge grandi teli da bagno morbidi e profumati.
In un luglio così torrido può capitare di vedere miraggi.

“Ragazzi, guardate! Questa è la mamma di una rockstar!”

 

Juri Bomparola Musicista professionista dal 2001, lavora nel mondo delle cover-band e si dedica all’osservazione della gente, perché di persone ne incontra parecchie. Gira l’Italia con un basso tra le mani; suona canta e rappa. Dal 2004 fa parte degli OxxxA, storica cover-band milanese che più di vent’anni or sono ha aperto la strada a chi sognava di fare della musica dal vivo in Italia una professione aperta a tutti.

La rubrica “Mamma sono una rockstar!” La mamma vorrebbe un figlio medico, imprenditore o ingegnere. A volte capita che la mamma non comprenda che un musicista cura se stesso e gli altri con la musica, è imprenditore della propria band ed è pure ingegnere del suono. Lo spieghiamo in questo spazio dedicato a piccoli e grandi musicisti e alle loro mamme. Un viaggio non solo on the road ma anche e soprattutto between the roadsIl musicista suona, ma tra un concerto e l’altro pensa e vive. Ispirato da Ungaretti un bassista racconta i suoi piccoli conflitti quotidiani.